Testo integrale con note e bibliografia

Premessa. - Dico subito che svolgerò le mie brevi considerazioni nel prisma del saggio (vel recensione) dedicato al Manifesto da Franco Carinci .
Ciò per varie ragioni. Anzitutto perché la pigrizia indotta dall’età e acuita dal lungo lockdown mi induce a profittare di solchi già tracciati. Poi perché la sua acutezza ha consentito a Carinci di individuare agevolmente i temi nodali del diritto del lavoro di oggi e di domani trattati nel Manifesto e di sintetizzare abilmente le analisi ivi offerte per il passato ed il presente e le soluzioni prospettate per il futuro. Infine perché nel saggio, immune, come del resto da sempre il suo Autore, dal virus dell’omologazione, ho incontrato, al di là di taluni apprezzamenti certamente meritati, rilievi critici estesi e talora anche severi pur se svolti con tratto prevalentemente garbato, forse frutto esso pure, come la mia pigrizia, dell’età. Rilievi con gran parte dei quali, dico anche questo subito, mi trovo consenziente.
Anticipo anche che non mi occuperò dei temi trattati nella parte finale del Manifesto, alcuni dei quali confesso che non sono alla mia portata. Sono consapevole peraltro che il tema dei rapporti tra fonti interne (intese al plurale, a partire dall’inclusione in esse delle sentenze manipolative della Corte costituzionale) e fonte comunitaria è ormai tanto centrale quanto complesso. Per quel che ho sopra detto mi vedo però costretto a rinviare la sua trattazione.
1. L’obbligo di formazione -- Carinci muove dall’apprezzamento per lo sforzo degli Autori (condiviso) di ricostruire, anche con strumenti interdisciplinari, il “contesto complessivo di cui un diritto del lavoro sostenibile dovrebbe tener conto” pur se su questa via è sempre incombente il rischio di sconfinamento in un “metodo più che da giurista da scienziato sociale”. Da qui l’avvertenza, preziosa, che il giurista il quale pur “voglia andar oltre la mera interpretazione del diritto vigente”, deve tuttavia sempre rispettare i canoni fondamentali (segnatamente quello letterale e quello sistematico) dell’ermeneutica giuridica.
Il primo rilievo critico di Carinci attiene peraltro ad un profilo di politica del diritto e riguarda la proposta d’introduzione per legge di un obbligo di (informazione) e formazione del singolo lavoratore in capo al datore di lavoro. Si tratta invero di un obbligo incongruo specie a fronte delle caratteristiche di taluni settori economici e di talune tipologie di attività nonché delle ridotte dimensioni di larga parte della nostra imprenditoria. Tutto ciò consiglia di mantenere l’incardinamento della formazione in ambito esterno all’impresa.
2. Subordinazione e dintorni – Con riguardo alla fattispecie del lavoro subordinato, classicamente imperniata sulla nozione di subordinazione desunta dagli elementi offerti dall’art. 2094 c.c. e sulle operazioni ermeneutiche della giurisprudenza funzionali a renderli capaci di consentire la qualificazione dei casi concreti, il Manifesto rileva la crisi, solo <apparente>, della norma codicistica. In proiezione però offre una proposta fluida, direi sostanzialmente problematica, a conferma che non può essere esorcizzata la persistenza di una larga zona di collaborazioni refrattarie all’applicazione della disciplina tipica del lavoro subordinato.
Quanto alla necessità della introduzione di tutele fondamentali per quelle collaborazioni resto convinto che la via maestra dovrebbe essere nel senso dell’arricchimento delle tutele già correlate alla fattispecie dell’art. 409, n. 3, c.p.c. con contestuale estensione del loro ambito di applicazione a tutte le collaborazioni coordinate senza subordinazione pur se non formalizzate alla stregua di tale fattispecie (in primis quelle rese sotto il generico ombrello delle c.d. partite iva ovvero con lo schermo di una occasionalità risultante nei fatti pretestuosa) .
Carinci, per parte sua, suggerisce, seppur dubitativamente, lo spostamento della questione qualificatoria sulla definizione contenuta nell’art. 409, n. 3, c.p.c. cosicché tutte le collaborazioni che non siano ad essa riconducibili rientrino nell’ambito della disciplina tipica del lavoro subordinato. Ma gli elementi offerti dalla norma non sono tali, anche dopo la sua integrazione, da modificare i termini nei quali la questione qualificatoria si è fin qui posta se non ricorrendo ad elaborazioni dell’elemento del consenso fantasiose, estranee al sistema del nostro ordinamento giuridico.
Posso quindi serenamente confermare le ricostruzioni e prospettazioni ermeneutiche contenute nei miei numerosi saggi in materia e da ultimo sintetizzate nel commento alla sentenza della Suprema Corte sui riders .
3. La causa collaborativa - Il Manifesto propone altresì un ripensamento della causa del contratto di lavoro subordinato mediante la caratterizzazione in senso paritario e partecipativo della collaborazione di cui all’art. 2094 c.c. Ciò tramite l’introduzione di una serie di diritti individuali, in primis alla formazione ed informazione ma anche economici, finalizzati a consentire al lavoratore subordinato <una sua ragionevole cooptazione nel perseguimento degli standard di produzione e produttività dell’impresa> ma senza <un’indefinita espansione della (sua) sfera debitoria”>.
La proposta è accattivante ma, a parte quanto già osservato con riguardo all’obbligo legale di informazione individuale, presuppone, dandolo per scontato, come osserva Carinci, “un percorso riformista di grande respiro” destinato ad investire “un universo del lavoro frammentato negli interessi settoriali, negli accorpamenti para-corporativi, nei momenti conflittuali”.
Senza dire del rischio che fruitrice del cambiamento finisca per essere una aristocrazia di lavoratori della media e grande industria incalzata dal progresso tecnologico. Quindi con l’alimentazione anziché la correzione delle diseguaglianze e con delicate ripercussioni sugli assetti dell’ordinamento sindacale.
4. Il ruolo del mercato del lavoro - La questione delle flessibilità/rigidità in entrata ed in uscita e del loro reciproco equilibrio resta naturalmente, per la dottrina giuslavorista, la più spinosa sia quanto alle ricostruzioni del diritto vigente sia quanto alle proposte de iure condendo.
Il Manifesto la affronta nel quadro della particolare attenzione dedicata al mercato del lavoro offrendo un’ampia e proficua serie di indicazioni per il suo virtuoso funzionamento. La prospettiva è quella della creazione ed implementazione di strumenti idonei a favorire la professionalizzazione dei lavoratori e il loro incontro con le offerte di occupazione stabile; occupazione che però da tale mercato non può essere creata.
Soprattutto, il mercato del lavoro non può incidere, correggendolo, sullo squilibrio fisiologico che, anche in sistemi economico-produttivi maturi e in ipotesi ispirati ad un capitalismo sostenibile/solidale, ma pur sempre esposti alle intemperie della concorrenza globale e dei mercati finanziari, vede l’accentuazione (in sede legislativa e giurisprudenziale) delle tutele della stabilità dell’occupazione andare a discapito del suo incremento quando non a determinare la sua riduzione. Ciò, è ovvio, segnatamente in taluni settori produttivi e in certe fasi di sofferenza/crisi delle imprese in dipendenza delle abbondanti fluttuazioni di domanda e prezzi dei beni e servizi da loro prodotti (ma anche acquistati).
La correzione dello squilibrio è stata sempre variamente assicurata dal ricorso al lavoro non stabile, in particolare quello a termine e quello interinale/somministrato. Nel 1997 il c.d. pacchetto Treu segnò una tappa importante nel perseguimento di quell’equilibrio ed ebbe un ruolo fondamentale per la “ripresa” del sistema economico-produttivo.
Il Manifesto tuttavia si limita a generiche censure che direi ideologiche nei confronti della tolleranza e proliferazione delle tipologie di lavoro precario. Ma, come già detto, non è possibile ignorare la fisiologica esistenza di “lavori” che non si prestano ad essere svolti nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato stabile.
5. I licenziamenti – Il Manifesto dedica invece particolare attenzione de iure condendo al tema dei licenziamenti pur ritenendolo <non più centrale> ma non volendo cadere <nell’eccesso opposto di ritenerlo irrilevante>.
Su questo terreno è prospettato il superamento dell’attuale dualità di regimi (essendo il discrimen costituito dal 7 marzo 2015) mediante la loro unificazione con modifiche dell’uno e dell’altro ben articolate e puntualizzate, in larga misura condivisibili; modifiche complessivamente orientate nel senso della correzione dell’anzidetto squilibrio.
La dualità di regimi trova spiegazione, notoriamente, nell’ampiezza e robustezza delle resistenze al superamento della disciplina dell’art. 18 L. 300/1970 come riscritto nel 2012 intesa quale sorta di “linea del Piave” almeno per i rapporti correnti alla data della riforma del 2015. Se questa “linea” dovesse cedere, del che è lecito dubitare, appare del tutto condivisibile la prospettazione del superamento della dualità mediante una disciplina unitaria risultante da una commistione dei due regimi.
Nella proposta del Manifesto alla conservazione ed estensione a tutte le aziende soggette all’art. 18 dell’attuale regime sanzionatorio del licenziamento disciplinare ivi previsto, come attualmente risultante dalle operazioni ermeneutiche della giurisprudenza , fa da contraltare l’estensione a tali aziende del regime sanzionatorio esclusivamente economico (12/24 mensilità) sia per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (tranne per quello discriminatorio o ritorsivo), con eliminazione del mantenimento della reintegra affidato all’infelice formula della “manifesta insussistenza del fatto”, sia per il licenziamento collettivo, inclusa l’ipotesi di violazione dei criteri di scelta previsti dall’art. 5 della L. 223/1991.
6. L’ordinamento sindacale – In merito a questo capitolo tematico del Manifesto Carinci recupera la sua proverbiale vis polemica: “per quanto riguarda l’aggrovigliata matassa del diritto sindacale, le intenzioni sono ottime, ma non sufficientemente corroborate dalle analisi e dalle proposte”.
Il Manifesto articola questo capitolo lungo quattro scansioni, la prima dedicata alla <crisi di iscrizioni e di rappresentatività delle organizzazioni sindacali tradizionali>, la seconda alle raccomandazioni rivolte al sindacato per superare la crisi, tra cui quella di non guardare <più con diffidenza a un intervento legislativo leggero>, la terza proprio all’auspicata <legge sulla contrattazione collettiva>; l’ultima all’<autonomia collettiva e contenzioso del lavoro>.
a) La crisi del sindacato è attribuita in larga misura per un verso alla generale accentuazione dei processi di disintermediazione, nello specifico aggravati dalla pressione esercitata da ampie aree di lavoro da sempre estranee all’orbita delle organizzazioni sindacali tradizionali, e per altro verso dal progressivo incremento delle politiche legislative di flessibilità sul terreno delle tutele.
Sul primo versante Carinci sottolinea come il percorso di intercettazione di tali aree sia per quelle organizzazioni assai complicato tanto da restare un willfull thinking e ritiene più realistico e comunque necessario che esse si impegnino, muovendo dai mutamenti di fatto intervenuti negli ultimi anni nelle relazioni industriali, a ridisegnare la distribuzione di competenze tra il livello confederale, il livello delle federazioni di categoria e il livello aziendale ma anche territoriale, quest’ultimo, tra l’altro, più idoneo a favorire il recupero delle “sacche degli esclusi”.
Sul secondo versante, se non può dubitarsi che le difficoltà del sindacato siano state alimentate dalle politiche legislative di flessibilità, credo vada sottolineato che esse sono state prima e ancor più alimentate da ciò che ha originato tali politiche, vale a dire dal progressivo indebolimento/impoverimento del nostro sistema economico-produttivo, ora aggravato dalla pandemia. Perché è tale indebolimento/impoverimento che ha inciso, per gran parte delle imprese grandi, medie, piccole, sulla capacità di remunerazione e di conservazione (non dico incremento) della forza di lavoro subordinato stabile ed ha conseguentemente amplificato per il sindacato gli ostacoli verso una “sostenibile” ricomposizione dei conflitti tra interessi al proprio interno e, più in generale, all’interno del mondo del lavoro.
b) La prima raccomandazione rivolta alle organizzazioni sindacali tradizionali per rinnovarsi crescendo è di intraprendere un percorso che conduca <ad un sindacato politicamente e strategicamente unitario a livello confederale ma capace di differenziarsi funzionalmente in modo da adattare moduli di rappresentanza, strategie di aggregazione di interessi, azioni partecipative, di rappresentanza e di conflitto, al pluriverso dei modi di lavorare e di produrre generato dalla grande trasformazione>.
Raccomandazione prima non solo in ordine espositivo, mi pare di poter ritenere, ma anche in quanto condizione delle altre nel contesto di un suggestivo ed ambizioso disegno di generale trasformazione del sindacato.
Non potendo entrare nel merito dei singoli tasselli di questo disegno
devo riconoscere che essi, nel loro complesso, ben si confanno ad un <manifesto> siccome comunemente inteso, cioè quale insieme delle linee guida di un programma di azione politica (qui sindacale) offerto all’adesione più ampia possibile tra i destinatari.
Mi limito allora ad osservare, ricollegandomi alle riflessioni precedenti sub a), che all’anzidetta condizione andrebbe aggiunta una pre-condizione: la rivitalizzazione del sistema economico-produttivo. La sua “crisi”, infatti, all’evidenza esaspera i conflitti degli interessi tra attori sociali e tra lavoratori (variamente occupati o non) e favorisce la frammentazione sindacale (anche sul versante dei datori di lavoro).
c) Quanto alle linee guida per l’auspicata <disciplina legale dei principali tratti delle relazioni industriali, in particolare i criteri e i dispositivi di rappresentatività delle parti sociali, le regole ed efficacia della contrattazione collettiva>, date le imponenti dimensioni del dibattito che va trascinandosi nel tempo su tutti i terreni, incluso quello scientifico, era francamente difficile aspettarsi, come osserva Carinci, pur “da giuristi di vaglia che toccano tutti i nodi critici che la legge dovrebbe affrontare”, il conseguimento dell’obiettivo di “scioglierli in modo convincente”.
c1. Con riguardo alla definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati il Manifesto fa propria <la scelta maturata da tempo, di adottare criteri di tipo oggettivo e quantitativo, riferiti alla consistenza associativa e ai risultati elettorali delle rappresentanze aziendali>.
A parte che nelle aziende dove non esistono le rsu le rappresentanze aziendali non sono elettive, può dubitarsi che il principio fondamentale di libertà sindacale consenta al legislatore di utilizzare come parametro le elezioni su liste la cui presentazione è riservata alle associazioni sindacali individuate dagli accordi tra le tradizionali confederazioni sindacali.
Comunque anche gli Autori non si nascondono, pur senza scendere nel dettaglio, le difficoltà di soluzione del problema del calcolo della percentuale relativa alla media tra associati e voti, calcolo che, per dirla con Carinci, nel settore “privato sconta la sua estrema frammentarietà e dispersione del tessuto produttivo; per non parlare della individuazione dell’area di calcolo e di determinazione della percentuale minima”.
Ancor più ardue sono poi le difficoltà di individuazione dei criteri per la determinazione della rappresentatività delle organizzazioni padronali; problema che una legge sulla contrattazione collettiva deve necessariamente risolvere. Ciò, tanto più che l’area delle imprese rappresentate dall’organizzazione padronale può riflettersi, come sta sempre più verificandosi, sui confini dell’area nell’ambito della quale va realisticamente misurata la rappresentatività delle organizzazioni sindacali contraenti.
c2. Con riguardo all’efficacia dei contratti collettivi il Manifesto, preso atto che <l’art. 39 Cost. si è rivelato storicamente insuperabile all’attribuzione di effetti erga omnes a tali contratti> suggerisce al legislatore di <operare sui livelli salariali fissati dalla contrattazione di categoria, prendendoli a riferimento come garanzia salariale minima ex art. 36 Cost. per le varie categorie di lavoratori; operazione avallata dalla stessa Corte costituzionale>.
Il richiamo è alla sentenza 51/2015 con cui la Corte ha ritenuto la legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, D.L. n. 248 del 2007 a termini del quale “fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’art. 3 comma 1 della L. 33 aprile 2001 n. 142 trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”.
Ora è vero che la sentenza riguarda il particolare settore dei soci di cooperativa ma è altresì vero che la Corte per un verso colloca esplicitamente la norma, astraendola dalla limitazione temporale in essa prevista, nell’alveo del classico orientamento giurisprudenziale secondo cui i trattamenti economici dei contratti collettivi, lungi dall’essere recepiti, sono utilizzati “quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore [ma l’orientamento richiamato non si è certo formato con riguardo ad esso], ai sensi dell’art. 36 Cost.”; per altro verso, la Corte avalla esplicitamente la scelta, in caso di pluralità di contratti per la medesima categoria, di quello stipulato da “associazioni comparativamente più rappresentative”.
Resta ovviamente, per una legge di portata generale, il problema, tra gli altri, delle modalità di individuazione dell’ambito categoriale in cui la valutazione di rappresentatività dei vari soggetti va comparata.
Comunque, stante le correnti operazioni giurisprudenziali sui minimi dei contratti collettivi anche nei casi di loro pluralità, operazioni che vanno e sempre più andranno oltre la determinazione dei parametri per la determinazione dei contributi previdenziali; stante ciò, un ragionevole dubbio s’impone (mi pare di coglierlo anche nel saggio di Carinci): ha senso affrontare l’impegno irto d’ostacoli di una legge sulla contrattazione collettiva se, a Costituzione invariata, non può condurre all’efficacia erga omnes anche della parte normativa dei contratti?
c3. Il medesimo dubbio credo s’imponga anche per il salario minimo legale ove si voglia scongiurare che vada ad interferire con le politiche salariali delle parti sociali e quindi, come il Manifesto prospetta, l’intervento legislativo fosse limitato <a casi e aree marginali, come richiesto dai sindacati>. Si tratterebbe dei <settori dove i contratti collettivi esistenti fossero stipulati da organizzazioni non rappresentative, e dove il tasso di applicazione effettivo dei contratti stessi risultasse inferiore a una soglia minima>; situazione, questa, che <andrebbe verificata dalle parti sociali e dalle autorità competenti (Ispettorato del lavoro e INPS) sulla base di dati oggettivi riguardanti l’effettiva applicazione dei contratti e la rappresentatività delle parti stipulanti>.
La rilevazione sulla base di dati oggettivi implica però quantomeno la previa individuazione dell’ambito entro il quale essi devono essere apprezzati.
Gli Autori si rendono quindi conto che (se non altro) esigenze di certezza, <specie in presenza di contrasti e sovrapposizioni fra diversi contratti>, postulerebbero che l’intervento legislativo si spingesse a disegnare il perimetro dei settori riservati alla contrattazione collettiva e di quelli soggetti al salario minimo legale. Così però il legislatore entrerebbe in rotta di collisione con l’autonomia che l’art. 39, comma 1, Cost. garantisce ai sindacati quanto all’individuazione degli ambiti della loro azione e rappresentanza.
Il Manifesto immagina quindi <l’attivazione di percorsi di verifica fra le parti diretti a individuare gli ambiti contrattuali e ad adeguarli nel tempo> con l’ausilio, par di capire, <di forme procedurali di raccordo fra le indicazioni delle parti sociali e le determinazioni delle istituzioni competenti (INPS e Ministero del lavoro)>.
Se poi si volessero scongiurare proprio quasi del tutto i <rischi di aleatorietà> delle <scelte delle amministrazioni pubbliche> si potrebbero prevedere <forme di mediazione o arbitrato di terzi imparziali>.
A parte la problematicità della selezione di detti <terzi> il percorso mi pare nel complesso quantomeno complicato.
d) Sul terreno del contenzioso del lavoro il Manifesto esprime la convinzione che <la ricerca di strumenti di deflazione del contenzioso affidati alle procedure conciliative e arbitrali stabilite dall’autonomia privata (le cd. ADR) sia un fronte da riaprire per rendere più efficiente e più giusto il nostro sistema di amministrazione della giustizia>.
Su ciò non si può non convenire. Ritengo però che la via maestra da seguire per la <deflazione del contenzioso> sia quella, fortemente voluta dall’associazione degli avvocati giuslavoristi italiani, dell’estensione alla materia del lavoro della “negoziazione assistita” introdotta dalla L. n. 162/2014. È però una via che suscita comprensibilmente, dati gli interessi anche economici in gioco, l’altrettanto forte ostilità dei sindacati. I quali finora hanno avuto partita vinta quando si sono manifestate aperture in quel senso a livello governativo.

 

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