testo integrale con note e bibliografia

Trascorsi alcuni mesi, incidenza e implicazioni dell’emergenza epidemiologica, non solo in termini “reali”, ossia sociali ed economici, ma anche in termini “regolativi”, inteso come inedito quadro precettivo, risultano ormai manifeste.
Per ciò che rileva, se gli interventi a contrasto e contenimento della pandemia hanno, da un lato, determinato la genesi di un vero e proprio “diritto nuovo”, di tipo emergenziale, dall’altro, hanno costituito, postulando un necessario sforzo adattivo, uno stress-test per l’assetto normativo previgente.
Considerata l’egemonia del diritto del lavoro in questo senso, una delle situazioni maggiormente ricorrenti nell’ambito della relazione subordinata è stata, senza dubbio, la gestione, non sempre collaborativa e talvolta conflittuale , della prestazione svolta, con finalità di salute e sicurezza, all’esterno dei locali aziendali.
Invero, il massivo ricorso alla “soluzione” di trasferire la sede di lavoro presso la dimora del prestatore, sussunta dall’esecutivo nell’alveo del lavoro agile ex lege 81 del 22 maggio 2017, ha rappresentato un importante banco di prova, nonché accelerato la necessità di approfondire, nell’ottica di diritto effettivo, la normativa di riferimento testé, di cui, comunque, al netto delle semplificazioni disposte, dovevano continuare a osservarsi i principi fondativi.
Dunque, consapevoli che la “remotizzazione” del lavoro ossia che, ogni giorno di più, anche oltre l’emergenza, per molte mansioni, il web si costituirà, e si imporrà, come nuovo luogo di lavoro , appare utile un preliminare tentativo di analisi, in chiave non comparata, bensì giuridico/applicativa, di uno degli aspetti più controversi della gestione del lavoro “agile” ossia l’istituto della “disconnessione”, così come formulato nell’articolo 19 della legge 81 supra.
In particolare, nella speranza di non sovraffollare ulteriormente la sterminata letteratura in materia, ci si prodigherà nell’elaborare una plausibile interpretazione in argomento, con particolare riguardo all’influenza esercita dal diritto eurounitario sulla disposizione in parola, al fine ultimo di inquadrarne la genetica, l’estensione, intesa come ampiezza della platea di soggetti-lavoratori coinvolti e le, inevitabili, conseguenze economiche all’interno della vicenda subordinata.

1. Genetica
1.1. Diritto, norma inderogabile e autonomia contrattuale

L’istituzionalizzazione della “disconnessione” nel diritto positivo interno, oltre a costituire uno dei limitatissimi esempi a livello europeo , rappresenta, senza dubbio, un meritorio tentativo di aggiornare e, per certi versi, evolvere il diritto del lavoro verso i nuovi contesti organizzativi, sempre più “fluidi” e meno radicati alla primigenia e nitidamente “tridimensionale” dimensione (dove, quando e come) della prestazione oggetto del sinallagma subordinato.
Per introdurre l’analisi, all’interno di modalità lavorative “delocalizzate” e “destrutturate” dal punto di vista spazio-temporale oltreché sfuggenti alla supervisione diretta dell’ambiente di lavoro, potremmo fornire una prima definizione - di principio - della “disconnessione” enunciandola come “il diritto del lavoratore a non essere raggiungibile o contattabile, rispondendo al telefono o alle mail (disconnessione tecnica) ovvero il diritto a concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso rispetto al lavoro (disconnessione intellettuale) recuperando le proprie energie psicofisiche” . Nella sua declinazione giuridica invece, l’articolo 19, comma primo, della disciplina sul lavoro agile (legge n. 81 del 22.05.2017), in modo assai più “ermetico”, dispone che “L'accordo relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, e disciplina l'esecuzione della prestazione lavorativa svolta all'esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore. L'accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro.”.
E come rilevato dagli osservatori più accorti , preme evidenziare la scelta del legislatore, a differenza del disegno di legge originario (N. 2229 del 03.02.2016), ove si sanciva, all’interno di un ben esplicitato quadro prescrittivo in materia di salute e sicurezza , il “diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”, di non qualificare, almeno espressamente, la disconnessione quale situazione giuridica soggettiva attiva, bensì, all’interno della rubrica “forma e recesso”, di attribuirle (almeno letteralmente) il ruolo di specifico elemento/contenuto dell’accordo, da formalizzarsi per iscritto, fra le parti.
Di qui le legittime riflessioni sul valore giuridico di un istituto così tratteggiato, insinuando nell’interprete il dubbio di poterlo comunque ritenere un diritto del lavoratore (agile), favorendo altresì interrogativi sul “grado” di imperatività e sulla necessità di etero-integrazione della norma oppure sulla possibilità di intendere la disposizione in luogo di un’area, benché obbligatoria, riservata all’autonomia contrattuale e, dunque, priva di reazioni giuridiche ulteriori e specifiche rispetto alla ordinaria responsabilità che “incide” i contraenti (art. 1218 c.c.).
Entrando nel merito, occorre rilevare come nel diritto del lavoro, la norma inderogabile di legge, causa il venir meno della sua concettuale neutralità, poiché funzionalizzata al riequilibrio della genetica asimmetria contrattuale delle parti e percorrendo la via di tutelare l’interesse particolare (individuale, del lavoratore) per ottenere la soddisfazione dell’interesse generale (collettivo, di sistema) , finisce col tradursi, con costanza, in un diritto soggettivo, sovente potestativo, in capo al prestatore.
Muovendo da questo presupposto, una riflessione “a ritroso” consente di ritenere la pur equivoca formulazione, per nulla lesiva dell’efficacia dell’istituto o della rilevanza della sua introduzione nel diritto positivo, potendo rappresentare, al contrario, un primo passo verso nuovi - e, come si dirà, necessari - orizzonti di tutela del prestatore.
Invero, argomentando ab absurdo ossia nel solco di una mens legis volta a degradare la disconnessione a mero formalismo contrattuale, senza dunque riconoscerle il ruolo di “potere” tutelato in capo al lavoratore per la realizzazione di un suo interesse, dovremmo anche accordare medesima sorte alla prima frase del periodo ossia la necessità, per le parti, di individuare “i tempi di riposo”.
Va da sé che un simile convincimento poggerebbe su basi giuridiche assai fragili, per non dire inconsistenti.
Ed effettivamente, da una lettura sistemica della legge 81, risulta incontroverso sostenere che “i tempi di riposo” testé, altro non sono che i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale prescritti nella fase definitoria del testo (art. 18) e che, a loro volta, volendo riferirsi direttamente all’ordinamento europeo, da un lato, comparendo, al pari delle ferie, nella Carta dei diritti fondamentali dell’unione (art. 31 p. 2) mediante il termine “diritto”, rappresentano, de facto, una indefettibile espressione specifica di rispetto della dignità umana , dall’altro, costituiscono altresì espresso strumento per garantire al lavoratore l’inderogabile diritto al “riposo adeguato” (Direttiva 2003/88/CE art. 2 p. 9)).
Di conseguenza, appare coerente a ragioni di contesto sovrannazionale la tesi per cui la disciplina della modalità agile, in modo consapevolmente più stringente di quanto le eccezioni derogatorie ammesse (Direttiva 2003/88/CE art. 17) avrebbero consentito, abbia voluto, non solo offrire allo smart-worker parte sostanziale della specifica protezione, in termini di orario, assicurata al prestatore impiegato in modalità esecutive standard (durata massima orario giornaliero e settimanale Direttiva 2003/88/CE artt. 3, 5 e 6), ma anche imporre al titolare del contratto, e la congiunzione “nonché” sembra testimoniarlo, un quo modo nel garantirla, mediante una sorta di “adattamento tecnologico del diritto al riposo” , al fine di scongiurare il pericolo dell’always on generato dalle advanced information technologies, ormai pervasive tutte le relazioni umane, anche in contesto lavorativo.

1.2 Condizioni trasparenti, sicurezza e “soggettivazione regolativa”

Nel solco interpretativo che precede, non solo, la disconnessione in parola appare adeguata in termini di “diritto effettivo”, ma, altresì, sembra conformarsi a ben due cogenti obbligazioni, di matrice eurounitaria, poste a carico del datore di lavoro.
Per un verso, dal “vincolo di trasparenza” tradotto nel diritto del lavoratore a essere informato sugli elementi essenziali del rapporto, fra cui, nella recente direttiva 2019/1152, compare giustappunto l’«organizzazione del lavoro», intesa come organizzazione dell’orario di lavoro, da rendersi coerentemente alla direttiva 2003/88/CE e, ove questa risulti imprevedibile, alle ore e ai giorni di riferimento nei quali può essere imposta la prestazione .
Per altro, ma in direzione conseguente, muovendo dall’obbiettivo di tutela psico-fisica perseguito dal quadro precettivo europeo in materia di orario di lavoro, dall’obbligo di sicurezza prefisso in modo più complessivo dalla direttiva 89/391/CEE e che, nel diritto interno, trova concreta nonché ampia applicazione per il tramite dell’articolo 2087 c.c., nella sua funzione dinamica e di chiusura del sistema di prevenzione, con contenuto atipico e residuale .
Dunque, annoverare le misure tecniche di disconnessione fra gli adempimenti richiesti dalla posizione di garanzia necessariamente assunta dal datore di lavoro, di cui esprimerebbero inedita e particolare forma, postulata dall’evoluzione tecnologica e dalla sua pressoché universale disponibilità, risulterebbe peraltro in linea con l’esegesi giurisprudenziale nazionale in materia, essendo che il 2087 dovrebbe proprio “indurre l'imprenditore ad attuare, nell'organizzazione del lavoro, un'efficace attività di prevenzione attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall'esperienza e dalla tecnica più aggiornata al fine di garantire, nel migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro” .
In definitiva, la disconnessione sembra manifestarsi come istituto con “qualità”, “innovative”, se considerato nella sua veste di adempimento, specialmente riguardo il necessario consenso (“L’accordo individua altresì...”) che inibisce l’unilateralità delle scelte organizzative a protezione del beneficiario, ma anche “originarie”, se contemplato attraverso le tradizionali tutele in materia di orario di lavoro, con finalità, “a monte”, di salute e sicurezza, da cui, per logica sistemica, sembra trarre origine.
Così facendo, assodati gli oggettivi limiti dell’azione datoriale, o per meglio dire, come acutamente osservato, che “il lavoratore, [normativamente], può essere difeso da tutto, ma non da sé stesso”, il suo determinante (e non meramente consultivo) coinvolgimento nella predisposizione delle misure di prevenzione, darebbe anche concreta applicazione e, in un certo senso, “vita nuova” all’obbligo, in capo al medesimo, di contribuire attivamente alla cura della propria salute e sicurezza (art. 20 D.L.gs. 81/2008).
Muovendo poi dalla giurisprudenza europea, ove le già richiamate finalità di tutela, al netto dell’evoluzione espansiva dei concetti , in difetto di categorie intermedie, impongono una definizione delle nozioni di “orario di lavoro” e “periodo di riposo” secondo criteri oggettivi , ritenere la disconnessione quale parte integrante - e tecnica -della regolazione sulla durata della prestazione, consentirebbe anche di superare, almeno sul versante giuridico, quelle criticità, talvolta prive di adeguata argomentazione, rappresentate dalla “contrapposizione culturale prima ancora che normativa, tra i « tempi di vita » e i « tempi di lavoro» [inteso come] un momento di privazione se non di costrizione [o, all’opposto], dal fenomeno […] della cosiddetta porosità dei tempi di lavoro, che si accompagna a una progressiva disgregazione dei luoghi fisici del lavoro e della produzione, [e che consegna] alla persona anonimi spazi di transito per fasi di vita che, fuori e dentro il lavoro, perdono di senso perché prive di identità e povere di relazioni” .
A ben vedere, assicurare, in senso assoluto, il “riposo adeguato”, anche (e soprattutto) attraverso concordi procedure di interdizione dei canali di comunicazione altrimenti abilitati, in modo permanente, dalla tecnologia, rappresenterebbe il primo ed essenziale passo per generare una reale e innovativa gestione flessibile della prestazione subordinata, in caso contrario suscettibile di inverare solo il “lato oscuro della luna” ossia criticità, già rilevate, che nuocciono direttamente la persona, quali l’aumento dello stress lavoro-correlato, dei disturbi psicosociali o delle probabilità di subire infortuni causati da fisiologici cali di attenzione .
In aggiunta, la disconnessione nei termini qui proposti, rappresenterebbe un esempio concreto di evoluzione del diritto del lavoro, anche nella direzione della teorizzata “soggettivazione regolativa” ossia quella “particolare manifestazione dell’autonomia individuale che si sviluppa entro schemi preordinati dal legislatore al fine di realizzare nel rapporto di lavoro subordinato quei “cambiamenti liberatori” [ed] effettive alternative di funzionamenti in capo alla parte tradizionalmente “debole” del rapporto” e che annovererebbe fra gli obbiettivi perseguiti proprio “più flessibili (nell’interesse del lavoratore) e avanzati modelli di gestione del rapporto di lavoro [anche attraverso] accordi individuali per adattare la durata e la distribuzione dell’orario di lavoro onde permettere una migliore conciliazione tra vita personale, famigliare e lavorativa” , contribuendo, in tal modo, ad arginare la tralatizia tensione tra «lavoro-oggetto» e «lavoro-soggetto».

2. Estensione e cenni sulle implicazioni economiche

Sin qui giunti, se accogliamo la “genetica” proposta, il passo successivo è quello di riflettere sulla reale estensione applicativa dell’istituto.
In altri termini, quanto precede non può che costituire il presupposto del rifiuto a una interpretazione restrittiva del “diritto alla disconnessione” ossia relegata all’interno della legge 81, disconoscendo, in tal modo, i suoi effetti giuridici oltre la limitata species dei lavoratori, stricto sensu, “agili”.
Al contrario, appare legittima una prima direttrice espansiva verso ogni prestazione lavorativa svolta “a distanza”, non rinvenendo nell’attuale contesto normativo ragioni sufficientemente consistenti per operare distinzioni, peraltro, in concreto, particolarmente difficili da cogliere, fra le fattispecie astrattamente previste a livello normativo, come, a esempio, il supposto e teoretico distacco fra la prestazione resa in modalità “agile” rispetto a quella svolta in “telelavoro”.
Ed effettivamente, da un punto d’osservazione di sostanza, le difformità letterali invocate e rappresentate, da un lato, nell’accordo quadro europeo del 16 luglio 2002, dalla presenza di una postazione fissa, dal necessario utilizzo delle tecnologie dell’informazione o dalla regolarità ovvero continuità della prestazione svolte all’esterno dei locali aziendali, e dall’altro, nella legge 81 del 22 maggio 2017, dalla prevista alternanza con le modalità di esecuzione tradizionali della prestazione oltreché dell’impiego di strumentazione tecnologia previsto come mera possibilità, non sembrano poter giustificare una disciplina - id est tutela - differente e/o deteriore, specialmente se ingerente aspetti quali la salute e la sicurezza della persona.
In sostanza, convenendo con chi autorevolmente sostiene “che nessuna differenza sussista oggi, sul piano giuridico e in termini di disciplina applicabile, tra il telelavoro e il lavoro agile” , non si può che propugnare un diritto al “riposo adeguato” mediante l’interruzione di ogni collegamento tecnologico con l’organizzazione aziendale, per la totalità di tutti quei lavoratori coinvolti, a vario titolo, in prestazione da remoto.
Contrariamente, per taluni di questi difetterebbe la certezza del “riposo”, quantomeno nei termini imposti dalla normativa europea ovvero un periodo minimo in cui gestire il tempo in modo completamente libero e di dedicarsi ai propri interessi , con l’aggravante che una siffatta discriminazione trarrebbe origine da una “sfumata” qualificazione del prestatore, a opera del legislatore nazionale e, dunque, come noto, irrilevante rispetto alle qualità di lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione .
E non solo.
Alla medesima stregua, se salute e sicurezza rappresentano una tutela di carattere generale di tutti i lavoratori e, i diritti particolari, nel caso di specie il diritto al “riposo adeguato”, gli strumenti di comune applicazione per ottenerla, allora, al netto dell’accordo scritto fra le parti che rimane specificità del lavoro a distanza (resta invece fermo, ad avviso dello scrivente, il diritto del lavoratore a essere informato per iscritto § 1.2), tutto sembra condurre verso una applicazione universale del diritto alla disconnessione, rappresentando, nell’epoca delle advanced information technologies e dell’internet of things, l’unico modo concretamente possibile per assicurare un concreta e assoluta sospensione delle prestazione, per ciò tale da consentire al lavoratore di beneficiare del prescritto periodo di distensione e ricreazione.
Concludendo sulle implicazioni economiche, garantire la disconnessione tecnologica significa anche scongiurare la creazione, anche lato patrimoniale, di quegli “anonimi” ed equivoci spazi temporali, già citati sopra e oggetto di possibili contestazioni, anche retributive.
Invero, il lavoratore operante all’esterno dell’organizzazione fisica aziendale, una volta disconnesso, ancorché formalmente impiegato in modalità esecutiva “remotizzata”, non potrà che considerarsi “in riposo” e dunque in posizione giuridica tale da non poter maturare la controprestazione, diretta, oggetto del contratto.
In ultimo, relativamente a smart-worker e simili, vale la pena evidenziare che le difficoltà di gestire e/o misurare, in termini di trattamento economico, ciò che invece rimane all’interno della nozione di “orario di lavoro”, dipendono esclusivamente da un problema, si potrebbe dire di impostazione, del meccanismo nazionale di determinazione retributiva in quanto, come noto, se gli stati membri sono autorizzati “a fissare la retribuzione […] in funzione della definizione delle nozioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo» di cui all’articolo 2 di tale direttiva, essi non sono obbligati a farlo” .
In questo senso, si può sostenere che buona parte delle “responsabilità” gravino sul nostro sistema di relazioni sindacali che, rimanendo comunque entro i confini protettivi dell’articolo 36 Cost., anziché insistere nella direzione di - novecentesche - determinazioni legate all’incedere del tempo (retribuzione oraria), ben potrebbe “governare” il problema indirizzando la contrattazione collettiva verso concetti nuovi, magari evolvendo il criterio della “mensilizzazione” in modo tale da orientarlo, in via esclusiva, a riscontrare la professionalità del prestatore, verso una, comunque consentita, “profonda e personalistica applicazione del presidio costituzionale, potenzialmente sganciata da ogni limitazione spazio-temporale” .

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