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Anche per un diritto atipico come è il diritto del lavoro, la pubblicazione di un “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile” rappresenta un evento che non merita di passare sotto silenzio, non fosse altro per il calibro degli Autori: un Maestro della materia e due dei suoi più brillanti ed autorevoli esponenti, ai quali – lo premetto per onestà intellettuale – sono legato da antica e profonda amicizia.
Il “Manifesto” – termine che evoca in molti, tra cui chi scrive, antichi ricordi – auspica l’avvento di un diritto del lavoro sostenibile. Titolo accattivante, ma non privo di una sottile ambiguità. Innanzitutto, quale diritto del lavoro? Il diritto del lavoro scritto, e cioè l’insieme delle disposizioni di legge, oppure le norme che da esse vengono ricavate in via interpretativa? In questo secondo senso infatti l’espressione diritto del lavoro – il sintagma, direbbero i miei colleghi colti – allude non al diritto scritto, ma al diritto giudiziario e dottrinale. Sono due realtà collegate, ovviamente, ma non sovrapposte né sovrapponibili senza residui. È probabile che gli Autori abbiano pensato più alla prima dimensione che alla seconda - anche se quest’ultima non è stata certo ignorata - auspicandone l’evoluzione in un senso, che è quello che percorre tutto il ”Manifesto”, della sostenibilità, appunto.
E qui sorge il secondo interrogativo. Se la sostenibilità è l’approdo, lecito supporre che per gli Autori il diritto attuale sostenibile non sia. E quando lo diventerà, se lo diventerà (e niente fa pensare che lo diventerà, almeno a breve), dovrà essere sostenibile con cosa?
Prima di rispondere va fatta però ancora una notazione.
Il “Manifesto” disegna il nuovo, ma - incorrendo in un piccolo paradosso – è anche figlio del passato; proprio la sua vocazione riformista ne tradisce l’ascendenza: il “Manifesto” è anche figlio legittimo del diritto del lavoro attuale e di quello che il diritto del lavoro è stato. Solo dei lavoristi potevano essere tentati dall’idea di scrivere un testo che è anche un accettabile, per alcuni ovviamente, programma politico. In questo il “Manifesto” rivela il suo legame con il diritto del lavoro più classico, o meglio, con la convinzione - più narrata che realizzata - che le costruzioni dei giuristi del lavoro offrano non solo, come ritengono alcuni, dei modelli di decisione giudiziale – il che sarebbe già tanto –, ma anche dei modelli per il decisore politico attraverso i quali, la “dottrina” riesce ad incidere sulla realtà. Insomma, ancora, e sempre, il modello dello Statuto. Che è poi se non la vera, almeno la seconda carta costituzionale del diritto del lavoro, arrivata ventidue anni dopo la prima, ma considerata come il suo inveramento. Tanto che a volte vien fatto di pensare, come nel caso della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013, che la prima sia interpretata con gli occhiali del secondo.
Tornando però al “Manifesto”, non è difficile scorgerne le parentele culturali, che sono molte e forse non tutte allineabili l’una dopo l’altra. Alla rinfusa: Adriano Olivetti, non a caso espressamente citato; la cultura della partecipazione di matrice cislina; Amartya Sen; un pizzico di ordoliberalismo, e si potrebbe continuare nel gioco. Ma tra queste vorrei citarne un’ ultima, quella di un giuslavorista, Guy Davidov, autore di un, a mio avviso, assai importante studio sulla realtà attuale del diritto del lavoro e sui suoi sviluppi futuri. Mi riferisco al suo A Purposive Approach to Labour Law , la cui uscita è stata circondata dalla assoluta indifferenza, con le uniche eccezioni de Il Giornale di diritto del lavoro e di Variazioni su temi di diritto del lavoro, ma che invece avrebbe meritato – e così è stato per i tre Autori – maggiore attenzione per la novità dell’approccio. Ed infatti su diversi punti gli echi della monografia di Davidov si percepiscono chiaramente, ad esempio nello sforzo di ribadire i compiti classici del diritto del lavoro cui se ne affiancano però anche altri, quelli che appunto Davidov chiama ancillary goals.
Non è difficile allora, dopo queste brevi notazioni rispondere all’interrogativo iniziale sul termine di confronto dell’aggettivo “sostenibile”. L’idea di fondo è quella di un diritto del lavoro sostenibile con l’economia di mercato.
Potrebbe sembrare a prima vista un’idea non così poi rivoluzionaria.
Se si prescinde dalla bislacca tesi affacciatasi di recente in un’opinione dottrinale per cui esisterebbe un diritto del lavoro ”capitalista” perché ante Costituzione, ed un diritto del lavoro post costituzionale (e dunque anticapitalista?), a ben vedere il diritto del lavoro ha sempre accettato l’economia di mercato. È vero che il diritto del lavoro è finalizzato - semplificando molto - a contenere i poteri dell’imprenditore ed a ridurre lo stato di subordinazione del lavoratore.
Ma è anche vero che il diritto del lavoro è costitutivo di alcuni poteri dell’imprenditore. Normalmente si evidenzia la funzione limitativa di questi poteri che è svolta dal diritto del lavoro, quasi che essi esistessero in natura. Ma se ci si pone da un punto di vista giuridico, si deve riconoscere che questi poteri si basano sul diritto del lavoro e sul contratto di lavoro. È, ancora una volta, la (inesauribile) lezione di Luigi Mengoni a rammentarlo. Da un punto di vista giuridico i poteri dell’imprenditore non esistono al di fuori del contratto di lavoro che li fonda e li regola. E tanto fa il contratto perché il riconoscimento e la regolazione dei poteri dell’imprenditore è funzionale all’efficienza dell’impresa.
Non è questa però la rappresentazione corrente del diritto del lavoro, né è la rappresentazione che ne danno studiosi ed operatori della materia. La rappresentazione corrente invece è quella di una materia che ha un fondamento antindustriale, che guarda con sospetto ai valori del mercato e dell’efficienza, e con obbrobrio a quelli dell’economia. Orgogliosa della sua diversità e della sua autonomia dinanzi al diritto civile, ed anzi a quest’ultimo eticamente superiore perché innervata da una griglia di valori immutati ed immutabili, e dunque intangibili perché cristallizzati una volta per tutte nella Costituzione, che diventa il testo nel quale ogni valore è rinchiuso. Nascono così formule magiche come quella della “interpretazione costituzionalmente orientata”, che alto non è se non un veicolo per supportare, come già ammoniva Riccardo Guastini molto tempo addietro, i propri convincimenti soggettivi.
Sedimentata in questo terreno, la reazione alla politica legislativa degli anni 2000 non poteva essere che di radicale rifiuto, incarnato, nella sua versione più colta ed intellettualmente raffinata, nella convinzione che fosse ormai maturato un “cambio di paradigma” nel diritto del lavoro italiano. Prospettiva intrigante, ma probabilmente richiamata in servizio non del tutto utilmente. La realtà infatti è molto più semplice. Ed è che in questo primo scorcio del secolo e fino almeno al decreto Dignità – per non parlare della legislazione del lavoro in quest’anno di pandemia – la legislazione che ha avuto il suo culmine nel Jobs Act, ha rappresentato il punto terminale di un lungo percorso legislativo che potrebbe definirsi come la lenta e faticosa emersione delle ragioni dell’impresa nel diritto del lavoro. Ragioni che hanno trovato una loro considerazione autonoma, senza cioè la necessaria mediazione della contrattazione collettiva, che per anni è stato il mezzo attraverso il quale si sono introdotte nell’ordinamento italiano delle dosi di flessibilità. E questa, a dire la verità, è stata davvero una rivoluzione almeno per una parte della dottrina italiana.
Certo, si può bollare la legislazione degli ultimi anni come frutto di una ondata neo liberista, o rimpiangere il buon tempo andato, lamentando la subordinazione del diritto (del lavoro) all’economia, per riprendere il titolo di un convegno di qualche tempo addietro organizzato da una nota rivista. Ovvero - come non mancano di far notare i tre Autori del “manifesto” - coltivare spiriti revanscisti salutando con favore i recenti provvedimenti legislativi che segnerebbero un ritorno dell’etica dell’uomo che lavora sulle ragioni dell’economia, scambiando per un nuovo umanesimo una serie di provvedimenti figli in realtà solo dell’emergenza Covid-19 (e anche di una certa cultura pauperistica ed assistenziale al cui fascino non sono certo indifferenti né organizzazioni sindacali né settori dell’attuale Governo).
Calato in questo contesto, che non è l’unico nel panorama del diritto del lavoro italiano, ma è certo quello prevalente, il “Manifesto” ha indubbiamente un valore di rottura, e rappresenta la prima organica presa posizione in favore di non solo di una legislazione meno ancorata alla tradizione ed a schemi almeno in parte superati; ma soprattutto in favore di una diversa mentalità o se si vuole di un diverso approccio al mondo del lavoro che risulta percorso da venti di mutamente fino a qualche anno fa impensabili.
Non è infatti il diritto del lavoro ad essere cambiato sotto l’azione di un Governo “cinico e baro”. È la realtà stessa ad essere profondamente diversa, come gli autori mettono bene in luce nella pagine iniziali del “Manifesto”. E come uno dei tre Autori, Tiziano Treu, in un libretto profetico scritto negli anni ’90 dello scorso secolo (insieme a Cassese, Galgano e Tremonti) aveva già sottolineato, il diritto del lavoro, diritto per definizione “nazionale” - per essere così strettamente collegato alle vicende storiche di ogni Paese - stava perdendo questa sua connotazione, iniziando a fare il suo debutto su scala internazionale, confrontandosi con uno scenario in rapida trasformazione. La legislazione lavoristica e quella fiscale - come ben sanno alcuni partner europei - iniziava a diventare una componente essenziale del sistema paese ed una delle leve per garantirne o mantenerne la competitività.
Da allora molto tempo è passato e molte cose sono cambiate nello scenario interno ed in quello esterno.
A voler molto semplificare, ma poi non troppo, si può dire che il diritto del lavoro si sia aggregato su una dicotomia elementare, quella della coppia autonomia/subordinazione, che rappresentava anche il criterio di accesso alle tutele.
Ma oggi è il tempo della complessità, e la dicotomia autonomia/subordinazione è meno netta che in passato ed è insufficiente ad esaurire tutte le modalità esecuzione di una prestazione di lavoro.
Come danno ampiamente conto i tre Autori, si diffondono oggi nuove figure di lavoratori subordinati, definiti nel “manifesto” (ma non solo) “lavoratori cognitivi”, connotati da una forte professionalità e interessati da relazioni di lavoro partecipative, che incrinano la configurazione tradizionale del rapporto di lavoro subordinato, cui si affiancano in misura sempre crescente nuove forme di welfare aziendale con l’obiettivo di coinvolgere in misura sempre maggiore i lavoratori negli obiettivi di produttività aziendali.
L’effetto di queste nuove forme di collaborazione, che spesso richiedono la diretta partecipazione dei lavoratori, è quello di porsi in contrasto con il modello tradizionale di lavoratore subordinato, basato sulla rigida contrapposizione degli interessi.
Forme nuove di lavoro subordinato, queste, che però convivono con altre, rese da lavoratori subordinati, poco specializzati, pochissimo pagati e facilmente intercambiabili. O rese da lavoratori che però non sono né del tutto autonomi, né del tutto subordinati.
La fattispecie della subordinazione sembra così perdere di unità. Sotto l’ombrello della subordinazione convivono ormai figure tradizionali, ma anche lavoratori dell’industria 4.0 e lavoratori della gig economy, o gli smart workers – molto diversi dai telelavoratori di questi tempi di emergenza - che reclamano spazi di autonomia e di flessibilità. Ma anche lavoratori regolari che nel settore di trasporti, della logistica, della cura alle persone hanno delle condizioni di sottoprotezione sociale che sono sconosciute ad altri lavoratori che pure si chiamano subordinati. O lavoratori soggetti a forme di controllo e di esecuzione della prestazione intense e stranianti, come accade nei casi in cui i controlli e i ritmi di lavoro sono imposti da un algoritmo. Di qui una serie di questioni nuove, riassunte dalla bella ed efficace espressione dell’ “ansia della fattispecie”.
Nel “Manifesto” si parla di una «nuova causa “collaborativa e partecipativa” del contratto di lavoro subordinato». Proposta in realtà poco chiara, impraticabile dal punto di vista tecnico, a meno di una radicale revisione della struttura stessa della nostra economia. E forse anche non del tutto condivisibile. Il contrasto tra “capitale e lavoro”, per utilizzare terminologie desuete, è immanente all’economia di mercato; è un dato fenomenico non occultabile da formule giuridiche. Altro discorso, poi, e qui riprende il filo della consonanza con il “Manifesto”, è come regolarlo e come affrontarlo
Ma il lavoratore è solo uno dei due termini della fattispecie.
C’è anche il secondo, e cioè il datore di lavoro.
Aspetto questo un po’ trascurato in Italia ( ed un po’ forse anche dal “Manifesto”), ma molto più presente nella letteratura anglosassone.
Due esempi per tutti.
Allorché l’interlocutore è una piattaforma con la quale si relaziona il lavoratore e dalla quale riceve le istruzioni che dovrà seguire nella esecuzione della sua prestazione la situazione presenta profili ambivalenti: i lavoratori sono infatti in una situazione di sottoprotezione sociale simile a quella di alcuni lavoratori subordinati: ed è questo l’aspetto che viene di solito in considerazione. Ma ce ne sono anche altri due da considerare: i lavoratori sono anche liberi di scegliere se presentarsi al lavoro o no. Compiono cioè delle scelte economiche ed agiscono come soggetti economici sul mercato, esercitando la loro libertà economica, aspetto questo che non può essere trascurato
E sono certamente sottoposti a delle forme di controllo, ma la prestazione di lavoro risponde non a direttive dell’imprenditore, ma deve conformarsi alle caratteristiche che deve avere il servizio commerciale offerto dal gestore della piattaforma. Il lavoratore svolge il servizio e lo svolge secondo le caratteristiche dell’offerta commerciale del gestore della piattaforma. È il servizio insomma che conforma la prestazione non l’esercizio del potere direttivo di volta in volta esercitato dal datore di lavoro. Difficile dire se, ed eventualmente quale rilievo possano avere entrambi i profili, ma certamente, almeno a parere di chi scrive, non possono essere semplicemente rimossi, come di fatto è avvenuto
All’altro capo vi sono le catene transnazionali di produzione, e cioè l’appalto di produzioni in paesi extraeuropei. In questi casi, chi è il datore di lavoro? Le prime cause sono state intentate in Germania, per risarcimenti per infortuni gravissimi intervenuti però a migliaia di chilometri di distanza, in una fabbrica che di una lunga catena di appalti internazionali era l’ultimo anello. Sono cause che innescano questioni delicatissime dal punto di vista giuridico e che tutte si riassumono nella necessità di individuare un datore di lavoro come soggetto responsabile. Ed è qui, più che in ambito europeo, che potrà giocare un ruolo, come in verità già è avvenuto per una notissima casa di produzione di abbigliamento spagnola, la contrattazione collettiva transnazionale, cui gli autori del “Manifesto” dedicano uno spazio che forse avrebbe meritato più attenzione.
Così come avrebbe meritato una maggiore riflessione la funzione protezionistica che assumono le legislazioni del lavoro nazionali nel mercato globalizzato, come bene insegnano notissimi casi portati alla ribalta da quattro sentenze della Corte di Giustizia.
Sono pochi e peraltro conosciuti esempi dei profondi mutamenti che hanno investito il mondo del lavoro, e molti altri ne elencano gli Autori. Ma la parte più interessante del “Manifesto” non è, ovviamente, quella della analisi di ciò che cambia o che è cambiato, ma delle risposte che occorre fornire.
Gli Autori non si sottraggono al compito, elencando una serie di proposte, davvero imponente, su cui non è possibile qui prendere posizione, molte delle quali, almeno per chi scrive, ampiamente condivisibili.
Così è per la legge sulla contrattazione collettiva, nodo ormai ineludibile per ordinare il sistema delle relazioni sindacali e dei rinvii alla contrattazione collettiva, oltre che per arginare il fenomeno della contrattazione collettiva pirata. E qui stupisce un po’ il silenzio serbato sul tema dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, la cui disciplina non potrebbe essere tenuta indenne dagli effetti di una legge sulla rappresentanza, e che comunque necessiterebbe di un’ ampia revisione per limitare il potere interdittivo delle innumerevoli corporazioni, piccole e grandi, che prosperano nella realtà italiana.
Ed anche sul tema della flessibilità in uscita ci si sarebbe aspettata una minore timidezza
Scontato il giudizio negativo sulla regionalizzazione delle politiche del lavoro, analogo giudizio coinvolge anche l’Anpal: l’errore in questo caso non é creare un organismo pubblico, ma farlo funzionare come un soggetto pubblico e non secondo logiche private, prendendo ad esempio il funzionamento delle Agenzie per il lavoro.
Anche sull’ ormai ingovernabile pluralità di regimi sanzionatori del licenziamento illegittimo, il giudizio non può che essere negativo, ma è dubbio che la via di uscita sia delegare alla giurisprudenza la soluzione dei molti ed intricati grovigli che si affastellano ormai l’uno sull’altro. Non spetta al potere giudiziario, per sua natura frastagliato e non uniforme, dare certezza in ordine al se, quando e come licenziare o alle conseguenze del licenziamento illegittimo. E infatti in questo scorcio di anni che ci separa dalla legge Fornero, certezze non ce ne sono state date.
Ma il valore del “Manifesto” non risiede (solo) nelle soluzioni avanzate, peraltro nella grande maggioranza condivisibili e condivise da chi scrive.
Il valore è soprattutto un valore culturale.
Si tratta infatti, come si è detto all’inizio, del primo organico tentativo di fondare il diritto del lavoro su valori altri rispetto a quelli tradizionali, anche se non necessariamente eccentrici rispetto a questi ultimi; di “laicizzarlo” si potrebbe dire, rendendolo un diritto che accetta pienamente, come avviene in altri rami del diritto, il contesto in cui si muove e cioè l’economia di mercato e con i valori che da essa derivano, tra cui quello dell’efficienza, non a caso inserito da Davidov tra gli ancillary goals del diritto del lavoro. Quella che i tre Autori propongono è una rimeditazione ampia e profonda dei valori del diritto del lavoro e del loro rapporto con il mercato. I primi non possono più essere considerati sempre e comunque prevalenti sui secondi, se non per un nucleo ristretto. Essi invece vanno intesi come valori relativi e soggetti ad un principio di bilanciamento con altri valori da cui possono essere limitati, primo fra tutti quello della libertà di iniziativa economica.
Sul punto la riflessione nel diritto del lavoro non richiede aggiornamenti, ma solo per la semplice ragione che una riflessione sul punto non c’è davvero mai stata.
Dopo le parole di Gustavo Minervini che tuonò - a ragione e con successo – contro la funzionalizzazione dell’impresa privata, della libertà di impresa non si è più parlato, identificando quest’ultima con il potere dell’imprenditore, e dunque sovrapponendo libertà (e tutela) dell’impresa con la libertà del singolo di prendere decisioni in materia economica.
Ma la libertà di impresa non è semplicisticamente riconducibile ad una libertà personale, è qualcosa di di più e di diverso. È la libertà di dare vita a delle organizzazioni di mezzi e persone improntate a principi ed obiettivi di efficienza e di profitto, che contribuiscono al progresso della società ed alla instaurazione di un mercato concorrenziale.
L’impresa insomma non (solo) come bene privato; diversamente non si spiegherebbe la modifica, ad opera del Cci, dell’art. 2086 c.c. che impone all’imprenditore una condotta diligente onde rilevare tempestivamente i segnali di una possibile crisi o della perdita della continuità aziendale, adottando tutte le misure necessarie a farvi fronte.
Ma l’impresa è anche un bene privato, votato all’efficienza ed al profitto, la cui garanzia è parte della tutela costituzionale della libertà di impresa nonché un elemento della concorrenza dei mercati e nei mercati. Valore questo non tutelato nella Costituzione, ma di rilevanza costituzionale. Tanto da indurre la Corte di Giustizia a due decise prese di posizione, nelle sentenze Vicking e Laval, in favore del valore della concorrenza ed a scapito (molto ragionevolmente, peraltro) del diritto di sciopero.
Si tratta, come si vede, di temi molto seri e complessi, che non dovrebbero essere ignorati e la cui ricaduta sul diritto del lavoro è tutta da verificare; ma che certamente non possono essere affrontati sempre comunque nell’ottica, diciamolo una volta per tutte, assai provinciale, del tradizionale, classico rapporto individuale di lavoro.
L’auspicio è che il “Manifesto” sia qualcosa di più del solito sasso nello stagno, ma che smuova le acque invero piuttosto stagnanti in cui versa la materia. Già solo per questo, ma non solo per questo, dovremmo essere grati alla intraprendenza dei tre Autori.

 

 

 

 

 

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