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«Il 30 gennaio 2020, in seguito alla segnalazione da parte della Cina (31 dicembre 2019) di un cluster di casi di polmonite ad eziologia ignota (poi identificata come un nuovo coronavirus Sars-CoV-2) nella città di Wuhan, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale l'epidemia di coronavirus in Cina. Il giorno successivo il Governo italiano, dopo i primi provvedimenti cautelativi adottati a partire dal 22 gennaio, tenuto conto del carattere particolarmente diffusivo dell'epidemia, ha proclamato lo stato di emergenza e messo in atto le prime misure contenimento del contagio sull'intero territorio nazionale».

Questa informazione è tratta dal sito del Governo Italiano.

È stata, quindi, adottata dal Consiglio dei Ministri la Delibera del 31 gennaio 2020 ( pubblicata nella G.U. n. 26 del 1° febbraio 2020), con la quale, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 7, comma 1, lettera c), e dell'articolo 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, è stato dichiarato, per sei mesi dalla data del suddetto  provvedimento, lo «stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili», che è stato prorogato più volte, con provvedimenti successivi, da ultimo sino al 30 aprile 2021( con D.L. 14 gennaio 2021, n. 2, pubblicato sulla G.U. n. 10 del 14 gennaio 2021).
Che ci siamo trovati, e tuttora ci troviamo, in uno stato di grave emergenza sanitaria, è indubitabile (anche se qualcuno, con molte approssimazioni e semplificazioni, all’inizio lo ha negato). L’adozione di questa forma di provvedimento da parte del Governo la reputa corretta? E quali sono le eventuali criticità che individua?

 

È seguito un groviglio di norme. Si sono innestate discipline attinenti alle emergenze con normative riguardanti la protezione civile, nonché relative alla materia sanitaria. Purtroppo, gli Autori di questa confusa massa di provvedimenti hanno dimenticato che avrebbero dovuto utilizzare e rispettare il testo unico delle leggi in materia sanitaria e la legge del 1978 sul Servizio sanitario nazionale, nonché la Costituzione. Ne sono derivate sia esondazioni di poteri a danno delle libertà e dei diritti, sia modificazioni dei rapporti tra Stato e Regioni. Pensi soltanto alle scelte fatte. In questo periodo la libertà di stampa è stata rispettata, non quella di culto e neppure il diritto di voto. È stata fatta una scelta. Qualcuno l’ha spiegata? O pensi agli atti adottati. Sono stati approvati numerosi atti, normativi ed amministrativi: decreti-legge, molti decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri; varie ordinanze del Ministro della Salute; poi ci sono le ordinanze adottate dalle Regioni e i provvedimenti dei Comuni.

Qualcuno ha parlato di “stato di eccezione”. Un ordinamento costituzionale come il nostro può tollerare uno stato di eccezione?

Nel nostro ordinamento non è previsto uno stato di eccezione. L'articolo 77 della Costituzione prevede che vi possano essere “casi straordinari di necessità ed urgenza”. Quindi, non vi sono ipotesi in cui l’ordinamento possa essere derogato, come nel caso dello stato di eccezione.

C’è quindi differenza tra lo stato di eccezione e lo stato di emergenza che stiamo vivendo. 

Lo stato di emergenza è certamente diverso da quello di eccezione. Esso è regolato ora dal decreto legislativo numero 1 del 2018.

La nostra Costituzione, che prevede lo stato di guerra deliberato dal Parlamento in seduta comune, non prevede lo stato di emergenza, che è invece regolato dalla legge ordinaria.

I Costituenti scelsero una strada molto chiara. Non vollero seguire l’esempio della Costituzione di Weimar, che consentiva di dichiarare uno stato di eccezione generale. Riconobbero e garantirono libertà e diritti e stabilirono uno per uno a quali limiti (e come) potevano sottostare. In generale, vollero che si procedesse con una legge, cioè attraverso il Parlamento. Poi fissarono particolari fini collettivi (incolumità, salute, sicurezza, buon costume, scopi fiscali), tassativamente fissati per ciascuna libertà. L’opera è stata completata dalla Corte costituzionale che, a partire dall’inizio della sua attività, ha fissato i limiti del potere di dettare ordinanze contingibili e urgenti: previsione in legge, determinazione degli atti amministrativi adottabili, determinazione dei modi di esercizio dei poteri, fissazione di un termine di durata. Per l’attuale pandemia, le norme costituzionali non sono state inizialmente osservate. Il primo decreto-legge, poi abrogato, non stabiliva un termine e consentiva ogni tipo di misura o limite. Poi la rotta è stata corretta, ma non completamente. I decreti-legge adottati successivamente sono a maglie troppo larghe e i successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri hanno travalicato i limiti propri degli atti amministrativi.

Insomma, autorità amministrative si sono arrogate il compito di dettare il diritto, non rispettando il sistema delle fonti del diritto (quello secondo il quale vi sono solo alcune autorità che possono “dettar legge”, ovvero esercitare potere normativo).

Nella prima fase, quella più acuta e più drammatica, dell’epidemia, abbiamo avuto la percezione che si fosse fermato non solo il paese, ma lo Stato. Una parte di cittadini al lavoro, per garantire i servizi essenziali a beneficio di tutti, gran parte a casa, talvolta con la scuola e al lavoro a distanza. Anche nella seconda fase dell’emergenza abbiamo avuto questa sensazione, nonostante i sensibili miglioramenti della vita sociale. Ci ha confortato leggere su Il Corriere della Sera del 19 marzo 2020 queste Sue parole: «Lo Stato non si ferma, non tollera ferie o malattie, in omaggio a uno dei suoi principi fondamentali, quello di continuità».

Nel primo periodo l’Italia è stata necessariamente divisa in due. Una parte chiusa in casa dal coprifuoco, in forzata attesa o al lavoro a distanza. Un’altra sul posto di lavoro, perché senza di essa non si andrebbe avanti. La Costituzione non tollera discontinuità, interruzioni, pause. Non si arrende alle malattie. Finché non si riuniscono le nuove Camere, sono prorogati i poteri delle precedenti. In caso di guerra, la durata delle Camere può essere prorogata. I poteri del Presidente della Repubblica sono prorogati se le camere sono sciolte. Il meccanismo stesso di rinnovo della Corte Costituzionale fa sì che non ci siano interruzioni o pause. Per antica e simbolica tradizione, il Ministro dell’Interno, a metà delle vacanze estive, il 15 agosto, si reca a visitare una sede delle forze dell’ordine. Per assicurarne il rispetto nei servizi pubblici essenziali, trent’anni fa, una legge limitò il diritto costituzionale di sciopero.

Quando al mondo c’erano solo i re, si diceva che il re non muore mai.

Sì, è così. Uno dei più grandi storici tedeschi, Ernst Kantorowicz, ha illustrato questo con l’immagine dei due corpi del re, uno naturale, soggetto a morte, l’altro mistico, innaturale, che non muore mai. Persino quando il bilancio degli Stati Uniti non viene approvato e termina l’esercizio provvisorio, la lampada della Statua della Libertà viene spenta, il Presidente ordina agli impiegati dei ministeri di abbandonare gli uffici e questi vengono chiusi, il centro di Washington si svuota, lo Stato non chiude i battenti, perché rimangono in attività organi costituzionali, forze armate e dell’ordine, servizi essenziali.

Ecco, ci siamo trovati in una di queste congiunture critiche. Gli organi costituzionali, gli apparati della difesa e dell’ordine pubblico, le persone addette ai rapporti con l’estero, chi gestisce i servizi essenziali, il circuito dell’informazione, per non parlare degli operatori sanitari, fanno parte di quel nucleo essenziale senza del quale non solo lo Stato stesso, ma la società tutta non potrebbero sopravvivere. Tra questi, in prima fila, il Parlamento, che quella società rappresenta, che ha ricercato, seppur timidamente, un modo per coniugare il rispetto del diritto alla salute dei cittadini e il dovere di far sentire la voce della società nelle istituzioni.

Alcuni diritti sono stati sospesi nelle fasi più acute della pandemia, anche quelli relativi a libertà costituzionalmente garantite.  Ritiene legittima questa limitazione? Quale equilibrio tra diritti e doveri?

L’articolo 2 della Costituzione dispone che, accanto ai diritti, la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Dobbiamo anteporre i diritti ai doveri, o fare il contrario? Oppure bilanciare diritti e doveri? Per esempio per far prevalere il diritto alla salute sulla libertà religiosa? Non ha fatto bene il Papa a evitare che si raccogliesse folla in Piazza San Pietro? Rispondo con la frase tratta dalle conclusioni di Jean Romieu in un caso francese famoso del 1902, dinanzi al “Tribunal des conflits”: «Lorsque la maison brûle, on ne va pas demander au juge l’autorisation d’y envoyer les pompier» (quando la casa brucia, non si va dal giudice per chiedere l’autorizzazione a inviare i pompieri). È il problema tanto discusso dei casi straordinari di necessità e d’urgenza di cui abbiamo detto sopra. Occorre contemperare doveri e diritti, nell’interesse collettivo e individuale, ma anche per rispetto di coloro che lavorano in prima fila, come gli operatori sanitari e gli addetti ai servizi pubblici essenziali. Basti ricordare che un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ha sospeso i congedi del personale sanitario e tecnico. Si è trattato di una specie di chiamata alle armi; il sistema sanitario era a rischio, come hanno osservato gli esperti. 

Per le restrizioni adottate nella vita di ogni giorno, che ci sono anche ora che il peggio (forse) è passato, qualcuno ha posto il problema della violazione dell’art. 13 della Costituzione. È così?

Questo è un altro punto critico. La libertà personale (art. 13) può essere limitata solo dal giudice, salvo casi eccezionali, ma per un tempo limitato. L’art. 13, che detta una norma residuale, per ogni tipo di libertà della persona (anche le norme sulla “privacy” trovano il loro fondamento in tale norma) è stato dimenticato, come se riguardasse solo l’alternativa libertà/arresto – imprigionamento. Neppure la più terribile delle dittature ha limitato la libertà di andare e venire, e di uscire da casa, per di più selettivamente limitata, per categorie di persone o a titolo individuale, indicate in atti amministrativi.

Prevale, quindi, il diritto alla salute, su tutto.

Sì, è il diritto alla salute che prevale. E i testi sia legislativi sia regolamentari sono stati formulati, sia pure frettolosamente e con qualche errore, in modo che tiene conto dei diversi “beni” che vengono limitati: spesso vietano, sospendono e chiudono; ma, in altri casi, “raccomandano” o “raccomandano fortemente”.

Il Servizio Sanitario Nazionale è stato, alcune volte anche duramente, criticato. Lei in proposto, in una delle interviste giornalistiche, ha citato l’esempio della “Prova d’orchestra” di Federico Fellini, come rappresentazione della disunione italiana. Ce lo vuole spiegare?

Ritengo che sia stato un errore criticare il Servizio Sanitario Nazionale, sia per la sua buona performance in questa “prova da sforzo”, sia per un motivo più generale, magistralmente messo in luce da Federico Fellini nel film del 1979 “Prova d’orchestra”, che ritengo il saggio più acuto sulla disunione del nostro paese. Gliene ricordo brevemente la semplice trama. Degli orchestrali, sotto la guida di un direttore con accento tedesco, iniziano una prova. Le note stonate che provengono dalla sala fanno notare il poco affiatamento. Il direttore viene contestato. Cominciano slogan populisti e sessantottini: «La musica al potere, no al potere della musica!». Il direttore è sconfitto, l’anarchia è totale. Ma, a un certo punto, una enorme palla demolisce uno dei muri della sala. Tra polvere e macerie, il direttore d’orchestra richiama allora gli orchestrali e dice loro, con forte accento tedesco: «Ognuno deve dedicare attenzione al suo strumento. Solo questo noi possiamo fare, adesso. Le note salvano noi, la musica salva noi. Aggrappatevi alle note, seguite le note, una dietro l’altra, così come le mie mani vi possono indicare. Noi siamo musicisti, voi siete musicisti, e siamo qui per provare. Niente paura, la prova va avanti. Ai vostri posti.». I musicisti, in piedi, tra le macerie, riprendono a suonare disciplinatamente. In questi momenti, nei quali ci rendiamo conto di quanto ciascuno di noi dipende dagli altri, individui, regioni, nazioni, salute, economia, l’orchestra deve dare prova di unità. 

Qualcuno, Lei stesso, ha evocato le «scelte tragiche» di cui parlavano Guido Calabresi e Philip Bobbit, in un famoso libro pubblicato anche in Italia (Milano, Giuffrè, 2006). La situazione descritta in quella indagine si è riproposta e potrebbe riproporsi anche nel nostro Paese. Basti pensare alla priorità nella scelta delle cure e della somministrazione del vaccino.

All’inizio abbiamo corso un pericolo, più immediato rispetto alla diffusione della epidemia e della sua trasformazione in pandemia: che il Servizio Sanitario Nazionale, per mancanza di mezzi e personale, fosse costretto a scegliere chi assistere, e fosse messo di fronte alla necessità di “scelte tragiche”. Per questo ho ricordato l’indagine con questo titolo dei due studiosi che Lei cita in cui si metteva in luce come negli ospedali italiani si affrontassero scelte da cui dipendeva la vita delle persone, quando, ad esempio, si doveva stabilire chi sottoporre a dialisi, con conseguenze mortali per quelli esclusi. Dovevamo evitare di trovarci in una situazione di questo tipo. Il problema si può riproporre anche ora, con la priorità delle cure solo per alcune categorie di persone e la scelta di chi sottoporre a vaccino. Tutti hanno diritto alla vita e all’integrità fisica, dispone l’articolo 2 della Costituzione tedesca. È uno degli articoli “eterni”, perché non modificabili. Come ha giustamente osservato Jürgen Habermas, se la saturazione del sistema sanitario costringe a fare scelte e a destinare qualcuno a morire, quel principio è violato. Dunque, si può prevedere che nel futuro cercheremo di non esser costretti a tali scelte tragiche, quindi a rafforzare il principio di precauzione e la sua realizzazione nella pratica amministrativa.

 «Convincimento, condivisione, concordia, unità di intenti» sono le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica nel messaggio del 3 marzo 2020. 

La dipendenza reciproca richiede tutto questo. Ho già evidenziato che il Presidente della Repubblica, così parco nell’esprimersi, ha messo in fila quattro sostantivi per comunicare lo stesso concetto. Quindi, i sovranismi che sono rispuntati, gli Stati che hanno bloccato la vendita di prodotti medicali all’estero hanno fatto male. E fanno male, ora, le misure di accaparramento dei vaccini poste in essere da alcuni Stai a scapito di altri. 

Sono esplosi gli istinti del sovranismo, in alcuni casi, e molte sono state, quasi sempre non costruttive, le critiche dei Presidenti di Regione e dei Sindaci. 

Si è trattato di interventi di profilassi internazionale, di competenza dello Stato, così come di competenza del Ministro della Salute sono gli interventi in materia di epidemie. Invece, da un lato si è consentito alle Regioni di dettare ordini, dall’altro, con i diversi atti statali, si è lasciato uno spazio a esse. Nei due modi è stato modificato il modello costituzionale e legislativo di riparto di funzioni. Le diverse voci dei Presidenti di Regione e dei Sindaci che si sono levate sono un segno positivo perché si sentono investiti del compito di esprimere aspettative e bisogni delle loro comunità; ma, al tempo stesso, negativo, perché simbolo di quell’“insigne faiblesse” (grande debolezza) che, secondo il grande studioso francese Fernand Braudel rappresenta il tratto caratteristico della storia italiana. Mi sembra un elemento positivo il fatto che in tutti, i molti, decreti approvati vi sia una norma che attribuisce le responsabilità esecutive ai prefetti. E questo è stato deciso senza battere ciglio dalle forze populiste che fino a ieri hanno criticato élite, casta, burocrazia. 

Abbiamo bisogno di un Paese (soprattutto) unito, omologato nelle scelte fondamentali che siamo chiamati a realizzare, o consapevole?

Abbiamo bisogno di ambedue. Un ordine giuridico unitario. Una unità (coesione) nella società. Solo in questo modo si riesce a evitare una dissociazione tra Paese legale e Paese reale.

I conflitti tra lo Stato e le Regioni sono esplosi, in alcuni casi anche con lo sviluppo di un contenzioso amministrativo. Considerata la gravità della situazione probabilmente era inevitabile.

Anche alla luce del dibattito parlamentare che si è avuto in occasione della discussione sui diversi provvedimenti, si è trattato di un vero e proprio conflitto tra forze politiche sull’interpretazione della Costituzione, che ha coinvolto non solo la maggioranza e l’opposizione, ma anche la maggioranza nel suo interno (oltre all’intervento di Matteo Renzi, che ha osservato che non abbiamo mai avuto un quadro derogatorio così ampio, rispetto ai principi e alle libertà costituzionali, nemmeno durante il terrorismo,   bisogna ricordare la proposta - poi approvata- di Stefano Ceccanti di “parlamentarizzare i dpcm”, sottoponendoli all’esame preventivo del Parlamento, e la lettera scritta da 50 deputati al presidente della Camera dei deputati il 27 aprile). Il primo problema è proprio quello della delibera del Consiglio dei ministri 31 gennaio, che ha fatto ricorso al decreto legislativo n. 1 del 2018 sulla protezione civile, riguardante calamità che richiedono mezzi e poteri straordinari per limitati e predefiniti periodi. Si pongono due domande: la pandemia ha un tempo predefinito o predefinibile? Le ordinanze di protezione civile giustificate dagli articoli 7.1 c) e dall’articolo 24.1 della norma del 2018 sulla protezione civile possono incidere sui diritti fondamentali costituzionalmente garantiti? Più in generale, aver dato la responsabilità alla protezione civile, invece che al ministero della Salute, ha portato in secondo piano la sanità territoriale, che avrebbe potuto agire fin dall’inizio da filtro (ce ne accorgiamo solo ora), e i piani di prevenzione di strutture ministeriali che avevano esperienza di precedenti epidemie ed avrebbero potuto interessarsi per tempo di unità di pneumologia, reparti di terapia intensiva e unità di rianimazione. C’è, poi, stato un errore iniziale, di fondo, sul quale non è stato fornito alcun chiarimento. L’articolo 117.2, q) della Costituzione riserva allo Stato la profilassi internazionale. Non doveva, quindi, provvedere unitariamente lo Stato, agendo in sede nazionale, dando prova di unione, invece che di disunione, a nome della Repubblica, non lasciando fare alla confederazione delle regioni? Poi, l’articolo 6 a) della legge 388 del 1978, che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, dispone che “sono di competenza dello Stato gli interventi contro le epidemie” e l’art. 32 che “il Ministro della Salute può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente in materia di igiene e di sanità pubblica con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni”. In più sono sempre in vigore gli articoli da 253 in poi del testo unico delle leggi sanitarie, del 1934, nonché il vecchio regolamento sanitario. Non aver tenuto conto di questa normativa, specialmente di quella costituzionale, ha provocato l’attuale stato di disunione: la Costituzione dispone che l’Italia è “una e indivisibile”, prima di riconoscere e promuovere le autonomie (articolo 5). Un osservatore straniero che venisse oggi in Italia potrebbe affermare con sicurezza che siamo una nazione? A tutto questo si aggiungono ora le decisioni dei giudici di pace e dei giudici ordinari, che stanno esaminando questioni relative alle sanzioni e mettendo in discussione l’impianto giuridico prescelto dal governo. Alcuni di questi hanno già adottato ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale.

Devono essere considerati anche i limiti degli interventi dei poteri pubblici quando incidono sulle libertà fondamentali.

Anche in questo caso il governo, agendo in solitaria, ha compiuto errori. Sul fronte dei poteri statali verso i privati, l’errore è stato di non considerare uno per uno i diritti limitati, visto che così fa la Costituzione, che non ha seguito il cattivo esempio dell’articolo 48 della Costituzione di Weimar, e ha dettato per ognuno le precauzioni da prendere: necessità di previa legge, temporaneità, fini determinati (sanità, sicurezza, incolumità, ecc.), in alcuni casi (libertà personale) intervento del solo giudice. Inoltre, le sentenze della Corte costituzionale n. 8 del 1956 e n. 127 del 1995 – per citarne solo due – hanno chiarito che la legge deve definire nel contenuto e nelle modalità di esercizio i poteri amministrativi, ciò che i decreti - legge non hanno fatto. Non tutti i molti dpcm erano urgenti: quello del 26 aprile, ad esempio, si riferiva al periodo che cominciava il 4 maggio e due giorni per consultare il Parlamento si potevano trovare. Anche sotto la pressione dell’urgenza, la condotta avrebbe potuto essere più razionale e rispettosa della Costituzione. Così non è stato. L’esecutivo si è fatto criticare anche per le mosse giuste, come quella di ricorrere a esperti con la costituzione dei cinque comitati. Presa la strada sbagliata della protezione civile invece di quella della sanità, ha accentrato tutto nelle mani di una persona, escludendo (salvo la conversione in legge dei decreti- legge e le informative) il Parlamento e persino il governo nella sua collegialità (salvo singoli ministri “sentiti” sui dpcm). Ha accavallato dpcm, ordinanze, regolamenti, circolari, FAQ, confondendo le idee, invece di chiarirle. Ha confuso chiarezza e trasparenza con verbosità, più preoccupato di elencare quello che i cittadini non possono fare, che di organizzare quello che lo Stato deve fare (il Presidente Luca Zaia si è invece mosso in questa giusta direzione).

Molte sono state le critiche di strisciante presidenzialismo, non solo nella fase precedente, ma anche in quella successiva, ad esempio da parte del Senatore Matteo Renzi, che ha rivendicato la sua decisione di non dare i pieni poteri a Matteo Salvini, dando vita al secondo Governo di Giuseppe Conte, per non  darli certamente a quest’ultimo. Qual è la Sua opinione in proposito?

La mia è una diagnosi diversa. Il neodiritto di Palazzo Chigi non nascondeva tentativi autoritari. Il Presidente del Consiglio dei ministri era persona prudente, non estremista, consapevole della necessità di muoversi con cautela. È stato viziato dalla politica, che l’ha spinto sul proscenio, facendogli balenare la possibilità di fare il prim’attore (anche per il “mondo gnomo” di una parte della classe politica attuale). Questo periodo critico di passaggio gli ha fatto balenare l’idea di poter entrare nella storia (non a caso uno dei sostantivi che adopera più spesso è “storia” e uno dei politici che gli sono cari è Churchill). Ma ha preferito interessarsi quotidianamente degli interventi di breve termine, invece di dedicarsi a definire gli obiettivi di medio e lungo termine, quali possono trarsi degli eventi in corso e dalla resilienza del Servizio sanitario nazionale.

Ritengo - come ho già detto – che aver affidato la risposta all’epidemia alla protezione civile invece che alla sanità abbia provocato conseguenze dannose, alle quali si sta cercando di porre riparo. Penso che sia stata scelta una interpretazione errata alla funzione del decreto-legge, inteso come una porta aperta, che consente tutto e dà spazio a dpcm, ordinanze, circolari, FAQ, scavalcando lo stesso governo come organo collegiale. Penso che si sia voluto, con dpcm, regolare troppo, finendo per regolare troppo poco. Non penso che si sia rispettato l’equilibrio tra poteri costituzionali, come affermato dal Presidente del Consiglio nell’intervista alla Stampa del 3 aprile 2020, altrimenti non vi sarebbero l’insofferenza e le critiche di parlamentari di opposizione e della maggioranza.

Come giudica il conflitto con la Regione Valle d’Aosta che ha portato la Corte Costituzionale, per la prima volta, a sospendere in via cautelare l’efficacia di una legge regionale (n. 11 del 9 dicembre 2020) che consentiva misure di contenimento della diffusione del contagio da Covid-19 diverse da quelle statali, confermata di recente dalla decisione di merito, come comunicato dall’Ufficio Stampa della Consulta il 24 febbraio 2021?

Per affrontare la pandemia, Governo centrale e Regioni devono cambiare rotta. Hanno finora agito come se operassero nella materia della sanità, che è ripartita tra Stato e Regioni. Invece si tratta della materia “profilassi internazionale", che spetta solo allo Stato. Questo ha stabilito la Corte Costituzionale con due pronunce a breve distanza l'una dall'altra, ambedue relative a una legge della Regione a statuto speciale Valle d'Aosta, impugnata dal governo. La prima pronuncia, del 14 gennaio scorso, ha sospeso in via cautelare l'efficacia della legge. Essa ha disposto che “la pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera q), Costituzione”. Con la seconda decisione, del 24 febbraio 2021 (della quale attendiamo la motivazione) il ricorso governativo è stato accolto, limitatamente alle disposizioni con le quali la legge impugnata ha introdotto misure di contrasto all’epidemia differenti da quelle previste dalla normativa statale. Per la Corte, la Regione, anche nell’ambito della propria autonomia speciale, non può invadere con una sua disciplina una materia come quella avente ad oggetto il contenimento della pandemia da Covid-19, diffusa a livello globale e perciò affidata interamente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a titolo di profilassi internazionale. La genesi e gli effetti di queste due decisioni della Corte costituzionale sono singolari. Il Governo Conte aveva impugnato la legge regionale della Valle d’Aosta per far valere la propria competenza. Ma, più che la Regione, è stato “bocciato" il Governo stesso. Esso aveva imboccato dall'inizio la strada sbagliata, dimenticando - nonostante fosse stato anche messo sull'avviso - che la Costituzione riserva alla competenza esclusiva dello Stato la profilassi internazionale. Si può dire che il governo, impugnando la legge regionale, si è dato la zappa sui piedi. L'errore iniziale dello Stato nell'imboccare la strada sbagliata ha prodotto una cacofonia di voci, un tira e molla tra centro e periferia, più tardi anche un gioco a scaricabarile, producendo una confusione che ha stupito l'opinione pubblica. Il Servizio Sanitario, da nazionale, è divenuto confederale, scoordinato, non comunicante. Basta notare con quale diversità di passo si sta procedendo nella vaccinazione, da regione a regione.

«Le grandi istituzioni dirette ad assicurare l’eguaglianza sostanziale (scuola, sanità, lavoro, pensioni) non tollerano diversificazioni, perché altrimenti diventano fattori di disuguaglianza.». Lo abbiamo letto nella Sua intervista, Lo Stato e il virus, pubblicata su Il Foglio del 16 giugno 2020.

È così. L’incerta collocazione della competenza a provvedere, tra Stato e Regioni, ha condotto a una contraddizione, accentuata dal fatto che una buona parte dei vari decreti-legge e Dpcm si concludeva con l’attribuzione di compiti esecutivi, di controllo e sanzionatorio ai prefetti. Quindi, il sistema binario, su cui Massimo Severo Giannini ha scritto belle pagine, ha ripreso quota. Con l’ulteriore conseguenza di non assicurare il coordinamento territoriale (Regioni e Prefetti non dialogano, se non altro per il diverso ambito territoriale delle loro competenze). Questo è un argomento che andrebbe esaminato, una volta usciti dalla fase dell’emergenza: le Regioni hanno comportato la collocazione di uno strato di personale politico – elettivo nell’ambito della linea che lega centro e periferia. Insomma, si è evidenziata una periferia non dialogante, divisa. Questo ha avuto conseguenze sui tempi di reazione, che non sono stati lenti, ma hanno mostrato assenza di prontezza.

È necessario, quindi, ripensare le strutture del sistema pubblico e non farsi trovare impreparati. È questa la lezione del virus?

Non conviene farsi trovare impreparati. È meglio avere istituzioni più efficienti e classi dirigenti capaci, per fronteggiare situazioni eccezionali, altrimenti il costo che si paga è molto alto. Un buon motivo per ripensare le strutture portanti del nostro esecutivo e dell’apparato giudiziario.

Abbiamo percepito, non solo nella fase più acuta della pandemia, l’assenza del Parlamento, che ha legiferato troppo poco, a scapito dell’accentramento dei poteri in capo al Governo, che però non ha dato prova di unità di comando, che spesso è mancata, come dimostrano, anche, l’inchiesta della Procura di Bergamo e le denunce, anche giornalistiche, sulla mancanza di un piano pandemico aggiornato ed efficace.

Innanzitutto, c’è stata una forte concentrazione di Stato e Regioni sulla pandemia, trascurando tutto il resto. Lo Stato, per il resto, è “andato in vacanza”. Il Parlamento ha funzionato a un decimo del suo ritmo. Il Governo ha trascurato tutti gli altri problemi. La giustizia si è fermata. L’amministrazione ha rinviato le decisioni. I dipendenti pubblici sono rimasti a casa, con quel che comportava il fatto che il telelavoro non era stato programmato; la digitalizzazione amministrativa carente; obiettivi, risultati e catene di lavoro nelle pubbliche amministrazioni poco definiti. La legiferazione parlamentare, già scarsa, è ancora diminuita. Il controllo parlamentare dell’esecutivo, funzione poco coltivata abitualmente, è divenuto quasi non esistente. Non legiferando il Parlamento, il Governo ha infilato ogni specie di contenuti nei numerosi decreti-legge. Quel che è peggio, lo stesso Governo come organo collegiale ha lavorato ben poco, mentre tutta l’attenzione si è accentrata nel suo presidente, il quale, invece di curare progetti e loro esecuzione, dirigendo l’attività del collegio, da un lato si è interessato di problemi troppo minuti, che entravano nella competenza del Ministro della Salute, dall’altro si è impegnato principalmente nel mantenere aperti canali comunicativi con la televisione e i giornali. La presenza ha sostituito l’azione, lo spettacolo i programmi. Con la conseguenza che, in pochi mesi, la stessa forza politica, il M5S, è passata dallo sbandierare la democrazia diretta al sostenere l’“uomo solo al comando”. E con l’altra conseguenza che è mancata l’unità di comando ed è divenuto persino incerto chi doveva fare che cosa. Questo è dimostrato dall’inchiesta della Procura di Bergamo, diretta prima alla Regione, poi allo Stato. Di tutta questa situazione si vedono le conseguenze: piano anti-pandemia insufficiente, inchieste giudiziarie (Bergamo), controversie dinanzi a molte corti.

La produzione normativa, primaria e secondaria, spesso affastellata, è stata criticata anche per il  susseguirsi di tanti provvedimenti e per i problemi interpretativi, talvolta di non facile soluzione, che hanno portato il Governo a intervenire, in molte occasioni, per fornire utili chiarimenti.

Gli interrogativi che il susseguirsi degli interventi pone sono molti. In primo luogo, una moltiplicazione della fase 2 (che si articola in “transizione iniziale”, “transizione avanzata”, “mantenimento della fase 2 B”, prima di passare alla fase 3 e alla fase 4), con possibilità di ritorni all’indietro. In secondo luogo, la presenza di divieti che è difficile classificare come limitazioni alla libertà di circolazione sulla base dell’articolo 16 della Costituzione: ad esempio, la possibilità di fare feste in abitazioni private. Il divieto di circolazione può riguardare anche le abitazioni private? Come possono essere controllate le feste? Terzo: il dpcm è stato emanato sentite le regioni attraverso il presidente della conferenza delle regioni e delle province autonome e dispone che le regioni stesse possono emanare solo norme più restrittive. Ma alcune regioni hanno già adottato misure meno restrittive (Veneto e Calabria). Quarto: perché consentire la vendita di fiori, l’attività assicurativa, quella professionale, e non la libertà di culto? Quinto: si può modificare il dpcm stesso con questionari precompilati (cosiddette FAQ)? Infine, quando ci si rivolge alla intera cittadinanza, non si avrebbe un obbligo di particolare chiarezza (mentre invece chi ha scritto il dpcm pare essersi limitato a incollare richieste di questo e di quello, senza coordinare, preoccuparsi di usare parole del vocabolario di base, chiarire)? Per colmo di disordine, pare che il decreto-legge debba al termine accorpare i dpcm, dando così una ulteriore spallata alla divisione dei poteri (atti amministrativi che vengono riprodotti in atto legislativo), con buona pace di Montesquieu. Ricordo quel che ha scritto qualche anno fa Carlotta Latini in un bel libro su “Governare l’emergenza. Delega legislativa e pieni poteri in Italia tra Otto e Novecento” (Milano, Giuffrè, 2005), sottolineando che la concessione dei pieni poteri indica uno spostamento di poteri dal legislativo all’esecutivo.

Difetti della comunicazione del Governo (conferenze stampa con una inevitabile sovraesposizione del Premier) e poca trasparenza?

La comunicazione è stata carente: molte prediche generiche e piene di buoni sentimenti, non documenti con dati sicuri, resi pubblici. Richieste di accesso agli atti che sono conseguite. È questa la trasparenza? È mancato anche un immediato chiarimento quando ha preso a circolare l’idea sbagliata che potessero essere disposti limiti in ragione dell’età.

Molti hanno criticato il mancato pieno coinvolgimento del Parlamento, una sorta di convitato di pietra nel corso della emergenza e della pandemia. È proprio così?

Non c’è dubbio che il Parlamento sia stato in letargo nel corso del 2020. Ha agito come organo di ratifica di decisioni prese dalle forze politiche di governo, talvolta bypassando lo stesso Consiglio dei Ministri.

Sul piano logistico ritiene corretta la gestione commissariale dell’emergenza e della pandemia, affidata, sostanzialmente ad una sola persona? E quali sarebbero state le possibili alternative?

L’alternativa era chiara ed è stabilita dalle norme, che prevedono l’intervento del Ministro della Salute e del Consiglio dei Ministri.

La Commissione coordinata da Vittorio Colao è finita presto nel dimenticatoio 

Il naufragio delle proposte, o meglio il loro accantonamento, sono la dimostrazione del fatto che erano più consultazioni di “teatro” che reali procedure di democrazia deliberativa.

Il ruolo della Commissione Tecnico – Scientifica è stato, e continua ad essere, importante. Ma le scelte del Governo devono essere necessariamente aderenti alle indicazioni e direttive di questa Commissione o devono rimanere ancorate alla discrezionalità politica?

Non penso che la politica si sia arresa. Penso che sia bene consultare gli esperti. Penso, anzi, che si doveva lasciare in misura maggiore la parola e le decisioni agli organi competenti: l’Istituto Superiore di Sanità e le direzioni generali del Ministero della Salute e dello Sviluppo economico.

In alcuni settori le misure adottate sono state drastiche. Ad esempio, per la scuola e l’università, in generale, è stato adottato il sistema della didattica a distanza, dopo il periodo di chiusura; mentre solo in parte viene consentita la didattica in presenza. Ritiene che, almeno oggi, si possa fare diversamente?

Una risposta la possono dare soltanto i tecnici. Tuttavia, l’esempio di altri Paesi, che non hanno chiuso scuole e università è significativo.

Abbiamo scoperto, e in alcuni casi anche apprezzato, il lavoro a distanza: una misura necessitata, all’inizio, che però si è manifestata anche come una opportunità. Molte sono state le polemiche sullo smart working nel settore del pubblico impiego, non regolamentato a sufficienza e in alcuni casi privo di controlli effettivi. Nell’immaginario delle persone è come se si fosse divaricato il confine tra i dipendenti pubblici, che vengono comunque retribuiti, a prescindere dalla effettività e utilità della loro prestazione lavorativa, e di dipendenti privati che non godono degli stessi benefici, soprattutto in periodi di crisi.

Le divaricazioni e le divergenze prodotte dal cosiddetto smart working sono state molte. Proprio per questo sarà difficile, in futuro, generalizzarlo. Penso principalmente alla differenza tra lavoro dipendente e lavoro autonomo

Manca, anche per il settore pubblico, una misura analoga alla cassa integrazione guadagni per il settore privato, che consenta la sospensione del rapporto di lavoro in caso di crisi o impossibilità della prestazione, con il riconoscimento di provvidenze in favore dei dipendenti. La ritiene possibile?

La ritengo possibile, ed anzi, sia pur timidamente, è stata più volte affacciata, scontrandosi sempre con la sostanziale stabilità della disciplina dell'impiego pubblico. Sarebbe anche conseguente alla cosiddetta contrattualizzazione del pubblico impiego (o, meglio del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni).

Ancora due domande in materia di lavoro. La prima riguarda le disposizioni sul divieto di licenziamento (a pena di nullità, trattandosi di clausola di ordine pubblico), più volte prorogato ed in via di ulteriore proroga dopo la prossima scadenza di fine marzo, per giustificato motivo oggettivo e di licenziamenti collettivi (mitigate dalla cassa integrazione guadagni Covid o rese possibili dalla cessazione dell’attività o da accordi sindacali incentivanti l’esodo). Le ritiene legittime, anche sul piano costituzionale e delle norme europee, anche di derivazione convenzionale?

Sono chiaramente misure straordinarie, destinate a durare brevemente. Un loro prolungamento certamente imporrebbe una verifica di costituzionalità, che credo si risolverebbe in una dichiarazione di illegittimità costituzionale.

La seconda riguarda l’estensione del perimetro della responsabilità del datore di lavoro per l’adempimento degli obblighi di sicurezza nella situazione di pandemia e del possibile esonero (qualcuno è arrivato ad ipotizzare anche uno “scudo” per la responsabilità penale). Come ritiene possibile, nel rispetto dei principi costituzionali, coniugare diritti e obblighi derivanti dal rapporto di lavoro?

 Valgono le osservazioni che ho fatto per il divieto di licenziamento. Sull’argomento Pietro Ichino ha espresso un’opinione molto ragionevole, fondata su un articolo del codice civile. Il datore di lavoro ha responsabilità nei confronti dei suoi dipendenti, che vanno considerate.

Come giudica la politica dei ristori con i quali si è cercato di attutire le conseguenze delle restrizioni imposte alle attività economiche e professionali?

Si tratta di interventi risarcitori, per i danni prodotti dall’azione pubblica di contenimento della diffusione del virus. Sono stati necessari, ma hanno prodotto anche forti divaricazioni tra quelli che ne hanno beneficiato e quelli che non ne hanno beneficiato.

Nemmeno nella politica dei buoni erogati a pioggia abbiamo brillato.

Siamo notoriamente grandi specialisti nelle politiche erogative, nella spesa corrente, mentre la spesa in conto capitale non viene realizzata. Ma anche nelle politiche erogative la pioggia statale finisce per distribuirsi in modo diverso

Qualche domanda sulla giustizia. Innanzitutto quella che da molti, soprattutto avvocati, è stata individuata come la maggiore criticità: l’assenza, per molto tempo ancora, dell’udienza pubblica e in presenza, sostituita (semplifico) dalla trattazione scritta e/o da remoto. È legittimo, anche in base al diritto costituzionale e convenzionale, tutto questo?

Più che di una vera e propria illegittimità costituzionale, penso che si tratti di un tradimento del principio consuetudinario relativo alla regola dell'oralità del processo.

Nella fase acuta della pandemia (con i decreti-legge nn. 11, 18 e 23, in rapida successione) gran parte dei processi sono stati sospesi (con il rinvio d’ufficio delle udienze  in tutti i procedimenti pendenti presso tutti gli uffici giudiziari) e sono stati sospesi i termini processuali, con non poche  incertezze interpretative, soprattutto all’inizio, derivanti dal riferimento alle udienze; con l’ulteriore previsione della sospensione della prescrizione nei procedimenti interessati dalla norma sul rinvio delle udienze che, come è stato osservato, attenendo a tutti i procedimenti pendenti, aveva una pari amplissima estensione. Era necessaria una scelta, più netta, anche per la decorrenza dei termini, sostanziali, di prescrizione e decadenza.

La pandemia ha prodotto squilibri ed asimmetrie di questo tipo. Meglio sarebbe dire che questi squilibri ed asimmetrie sono state prodotte dal modo disordinato in cui si è fronteggiata la pandemia. Ancor peggio è quello che è accaduto nella pubblica amministrazione, dove l'interruzione dell'attività amministrativa non è stata in alcun modo regolata. Si è proceduto sostanzialmente per inerzia. Bisogna distinguere tra sospensione legale, imposta dai termini processuali, dinanzi ai giudici e sospensione di fatto, per inerzia, dinanzi ad altri uffici pubblici. Purtroppo, l’una e l'altra hanno danneggiato fortemente l'utenza e non vengono rimediate nel periodo successivo.

Con riferimento alla sospensione della prescrizione dei reati in tempo di pandemia la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278 del 23 dicembre 2020, ha promosso la legislazione dell’emergenza facendo leva sull’art. 159 c.p. per escludere la violazione del principio di irretroattività, ribadendo al contempo la natura sostanziale della prescrizione, coperta dalla garanzia dell’art. 25, c.2, Cost. Lei condivide questa decisione?

La disciplina della prescrizione cura l'effetto, non la causa. Bisogna, innanzitutto, agire sulla durata dell'attività giudiziaria, per la quale occorrerebbe introdurre un termine entro il quale decidere, come negli Stati Uniti. Comunque, un ragionevole compromesso potrebbe essere quello - di cui si parla - di definire un ambito di fattispecie ristretto nel quale opera la sospensione, che dovrebbe comunque riguardare soltanto le persone condannate, non quelle assolte

Una domanda allo studioso e al Giudice Costituzionale Emerito, che scaturisce dalla sentenza sopra citata che ha visto la sostituzione del Giudice redattore originariamente designato, il Prof. Nicolò Zanon, che non ha fatto mistero della sua opinione dissenziente avendo rilasciato una intervista ad Andrea Fabozzi pubblicata su Il Manifesto del 29 dicembre 2020. È tempo che la Corte Costituzionale faccia conoscere l’opinione dissenziente?  

Quando ero alla Corte, sono sempre stato favorevole all'introduzione dell'opinione dissenziente. Ho organizzato anche un seminario sull'argomento. E ho scritto un articolo. La Corte Costituzionale ha discusso in tre occasioni il tema: il numero dei giudici favorevoli è costantemente aumentato. Si può prevedere che, in futuro, si arrivi anche in Italia a introdurre l'opinione dissenziente alla Corte Costituzionale.

L’Europa, per contrastare la crisi del Covid-19, ha agito da facilitatore con il programma PEPP di acquisti di titoli della BCE, con la sospensione delle regole di bilancio e con un programma di prestiti per sostenere gli sforzi dei governi nei due settori particolarmente piagati dalla crisi, sanità e mercato del lavoro. In buona sostanza, le istituzioni europee si indebitano a condizioni favorevoli per poi desinare i fondi ai paesi membri ad un tasso, in alcuni casi, inferiore a quello di mercato. Gli strumenti di solidarietà utilizzati, però, sono diversi. Per il mercato del lavoro è stato creato uno strumento nuovo il “SURE” (“Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency”), senza condizioni e forme di tutela per i paesi che vi fanno ricorso, che consente l’erogazione dei fondi vincolata esclusivamente al loro utilizzo per il sostegno al mercato del lavoro (in particolare la cassa integrazione). Per la sanità, invece, si è scelto di adattare il MES (la banca sovrana costituita nel 2012 per garantire la stabilità della zona euro per venire in soccorso dei paesi in difficoltà sui mercati finanziari), in considerazione dell’urgenza pandemica, che, di fatto non si sottrare alle condizionalità e alla sorveglianza finanziaria da parte delle istituzioni europee, anche se ritenuta improbabile. È corretta questa ricostruzione? Le polemiche e le riserve manifestate da alcuni su questo strumento, incidenti anche sulla stabilità della maggioranza governativa, che l’Italia non intende utilizzare (e invece, a differenza degli altri paesi, ne avrebbe bisogno, in ragione delle più onerose condizioni generali di indebitamento derivanti dalla crescita esponenziale del debito pubblico), sono giustificate?

La vera protagonista è divenuta l’Unione Europea, che, da accusata, ha acquisito un ruolo centrale. E ha dimostrato capacità di reazione notevoli, specialmente nel dotarsi di ciò che le mancava, il potere di spesa, sia pure ricorrendo alla raccolta sul mercato piuttosto che alla imposizione fiscale (anche se questa non è esclusa).

La decisione europea di istituire il Recovery Found rappresenta indubbiamente un cambio di passo sulla strada della solidarietà. E tuttavia le polemiche italiane sulle scelte strategiche del Recovery Plan e rallentano l’approvazione, fino a comprometterla. È solo un problema di gestione logistica delle risorse, che si è manifestato con la cabina di regia, originariamente ipertrofica, o anche, e soprattutto, di contenuti e di allocazione delle risorse? In situazioni come queste dove finisce l’apporto, necessario, a mio avviso, dei tecnici, e dove inizia la politica?

 Si sono posti due ordini di problemi. Il primo riguarda il contenuto del piano, e cioè l'allocazione delle risorse ai diversi obiettivi indicati dall'Unione Europea. Il secondo riguarda la gestione del piano. Le maggiori polemiche sono nate dalla proposta iniziale di affidare la gestione del piano ad una struttura esterna alla pubblica amministrazione.

L’emergenza Covid-19 ha messo alla prova la nostra democrazia. Molti hanno evidenziato che la crisi non è solo sanitaria ed economica, ma anche istituzionale, democratica. Qual è l’insegnamento che possiamo trarre da questa situazione per il futuro?

Non uno, ma molti insegnamenti. Primo: il Servizio Sanitario si chiama nazionale e deve essere nazionale, non una federazione di servizi regionali. In particolare, in presenza di epidemie, gli interventi devono essere decisi al centro. Secondo: quando vi sono emergenze, non ci si può inventare un diritto ad hoc dell’emergenza, mentre bisogna invece utilizzare gli strumenti esistenti, che ci sono. Terzo: si è evidenziato un chiaro squilibrio tra governo centrale e regioni, queste ultime con vertici eletti direttamente, il governo centrale con vertici scelti direttamente dal Parlamento. Quarto: si è messo in luce un evidente difetto di organizzazione di Palazzo Chigi, con esitazioni, contraddizioni, errori che si potevano evitare. Quinto: è apparso chiaro il carattere improvvisato di questa dirigenza politica, composta di persone da un lato inesperte, dall’altro con un “ego" troppo grosso (chi dice «la Storia ci giudicherà» pensa di esser entrato nella storia?). E potrei continuare, ma mi fermo auspicando che, appena usciti dalla pandemia, si ponga rimedio a queste deficienze istituzionali.

Abbiamo avuto la netta sensazione che i regimi autoritari abbiano reagito meglio alla crisi provocata dalla pandemia. È così?

 L’impressione diffusa che alle emergenze i sistemi totalitari resistano meglio delle democrazie è sbagliata, perché non si considerano i diritti compressi o soppressi e gli ulteriori danni che l’assenza di libertà di manifestazione del pensiero e di circolazione delle informazioni possono provocare.

Come insegna anche la storia, vi sono democrazie e regimi autoritari che hanno reagito in tempi rapidi  e con efficacia, mentre vi sono democrazie e regimi autoritari che hanno battuto  la fiacca. Insomma, la linea di distinzione  non corre tra regimi democratici e regimi autoritari, che si trovano da una parte e dall’altra.

Il quadro geopolitico internazionale, però, è cambiato a seguito della pandemia a vantaggio della Cina, che si impone al mondo con uno sviluppo economico al di sopra di ogni aspettativa. È la vittoria dei totalitarismi sulle democrazie?

 Penso che sistemi democratici e sistemi totalitari siano indipendenti dal tipo di risposta data all'emergenza. In altre parole, che vi sono stati sistemi democratici e sistemi totalitari molto efficienti, nonché sistemi democratici e sistemi totalitari poco efficienti. Quindi, l'efficienza è una variabile indipendente.

Pensavamo, senza ragione probabilmente, che la democrazia fosse un dato acquisito. Le recenti vicende americane ci hanno insegnato che va non solo costruita, ma anche mantenuta.

 E tuttavia la democrazia ha dimostrato sempre una buona capacità di ripresa.

«Pierre Manent sul Figaro del 24 aprile ha decretato la fine del bovarismo europeo, perché le nazioni sono rientrate a casa propria. In trenta giorni il mondo è cambiato». Lo abbiamo letto in una Sua intervista pubblicata il 28 aprile dello scorso anno su Il Corriere della Sera. Cosa insegna all’Europa questa emergenza? Cosa manca all’Europa?

«L’Europa vive di crisi», hanno detto due grandi europeisti, Helmut Schmidt e Jean Monnet. Questa crisi sarà la svolta. Perché l’Unione sia un potere pubblico completo, ad essa mancano due attributi: il potere militare e lo “spending power”. Il primo in questo momento è meno urgente. Il secondo lo è, perché solo attraverso il “potere della borsa” un’autorità pubblica può intermediare, sottrarre a qualcuno per dare a qualcun altro. Già i quattro interventi decisi muovono in questa direzione e nello stesso senso di marcia va il fondo di cui si discute. Naturalmente, questo è solo un primo passo. Bisogna ricordare che l’Unione ha poche entrate proprie, può quindi spendere solo prendendo a prestito. E non ha ancora la forza di condividere il debito pregresso (l’Unità d’Italia, quella vera, fu fatta quando, con una delle prime leggi del Regno, lo Stato italiano si accollò il debito di tutti e sette gli Stati preunitari).   

Anche il mondo di domani sarà diverso?

Sul breve periodo, si viaggerà di meno. Le imprese si assicureranno sistemi paralleli (le catene globali del valore hanno bisogno di ispirarsi alla teoria della ridondanza). Sul lungo periodo, ci si renderà conto che siamo uniti dallo stesso pericolo, tutti egualmente deboli. Quindi, non si potrà uscire da calamità di questo tipo da soli. Il populismo, che è necessariamente nazionalistico (non c’è ancora un popolo mondiale), si spegnerà lentamente. Si capirà che è illusorio rinchiudersi nelle frontiere e che i vari poteri neo – colbertisti, come il “golden power”, sono strumenti utili, forse, se temporanei.

Ora abbiamo il vaccino, non sappiamo ancora quanto sarà efficace, anche in considerazione delle varianti del virus, più aggressive, quanto meno sul piano della sua diffusione, che nel frattempo sono state registrate, anche in Italia. Viene prodotto, in autonomia, da diverse case farmaceutiche, con immancabili sovranismi nazionali per il suo accaparramento. L’Europa ha centralizzato gli acquisti e disposto un piano di distribuzione (anche se non mancano i problemi derivanti dalla distribuzione e dall’interpretazione di alcune clausole contrattuali), ma paga la mancanza di programmazione e di una politica comune della salute. Francesco Saraceno, su Domani, del 31 gennaio 2021 (“Il mercato non risolverà il caos vaccini: serve la mano pubblica”) ha scritto che di fronte a ritardi che le aziende non hanno interesse a ridurre, occorre che la mano pubblica intervenga nella produzione  come si è impegnata nello sviluppo e che i brevetti andrebbero sospesi temporaneamente, e la tecnologia di produzione resa disponibile a tutti i produttori in possesso delle necessarie competenze. Ritiene possibile una scelta di questo genere, in considerazione della grave situazione di pandemia che stiamo attraversando, accentrando anche la ricerca e la produzione e condizionando, in qualche modo, la politica dei brevetti e commerciale delle aziende interessate?

Un intervento pubblico è certamente possibile, anzi auspicabile. Tuttavia, può svolgersi solo entro taluni limiti. Il primo luogo, intervento dei poteri pubblici come acquirenti. In secondo luogo, come finanziatori della produzione. Altri interventi finirebbero per disincentivare la produzione privata di vaccini di cui vi sarà sempre più bisogno, in relazione alle mutazioni del virus.

 In base alla legislazione vigente, considerato il perimetro costituzionale segnato dall’art. 32, comma 2, Cost., e dalla l. 22 dicembre 2017, n. 219, sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (sul diritto alla libertà di cura possiamo richiamare, tra le ultime, le sentenze di Corte Cost. 22 novembre 2019, n. 242 e 16 novembre 2018, n. 207), la somministrazione del vaccino non può essere imposta. È proprio così?

L’indicazione della Costituzione è molto chiara: per imporla c’è bisogno di una legge. Vi possono essere, poi, vincoli di tipo privatistico: ad esempio, le strutture ospedaliere potrebbero non consentire lo svolgimento di attività sanitarie a medici che non si vaccinassero, perché in tal modo non possono svolgere un'attività di cura di altri.

Però nel recente parere del 27 novembre 2020 “I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione”, il Comitato Nazionale per la Bioetica, pur ribadendo il rispetto dell’autonomia individuale e della spontanea adesione, non esclude un’imposizione autoritativa del vaccino, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della di diffusione della pandemia lo consentano, ritenendo legittimi i trattamenti sanitari obbligatori in caso di necessità e pericolo per la salute delle singole persone e della collettività ( sul punto si possono richiamare le sentenze di Corte Cost. 22 giugno 1990, n. 307 e 23 giugno 119, n. 258). Nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, il Comitato ritiene inoltre che – a fronte di un vaccino validato e approvato dalle autorità competenti – non vada esclusa l’obbligatorietà, soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus. Tale obbligo dovrebbe essere discusso all’interno delle stesse associazioni professionali e dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo per la collettività. Ritiene auspicabile questa scelta legislativa per rendere obbligatorio il vaccino, quanto meno per selezionate categorie di soggetti?

 A quello che ho detto posso solo aggiungere che potrebbe richiedere ai propri dipendenti di vaccinarsi, perché quelli non vaccinati potrebbero essere un pericolo per gli altri, se contagiosi.

Qualche domanda, obbligata, di stretta attualità politica. La crisi di governo innescata dal leader di Italia Viva (un partito, è bene ricordarlo, nato da una costola del Partito Democratico), che pure si è prodigato per la costituzione del Governo Conte-2, pensavamo fosse l’ennesimo psicodramma tra due leader incompatibili e invece si è sviluppata come una crisi vera, da più parti ritenuta non opportuna in questo momento delicato che stiamo attraversando, che ha portato alle dimissioni di Giuseppe Conte. Qual è secondo Lei l’errore politico più grave commesso da Giuseppe Conte nella gestione di questa crisi?

Non avere chiari obiettivi politici e muoversi negoziando tra le varie parti.

Lei ha salutato con grande favore l’avvento del Governo di Mario Draghi dopo la decisione sofferta, ma necessitata, del Capo dello Stato, che ha chiamato tutte le parti politiche ad assumere scelte responsabili nell’esclusivo interesse della Nazione. Quali sono i compiti essenziali che questo nuovo Governo deve svolgere per mettere in sicurezza il nostro Paese?

Accelerare i piani di vaccinazione e redigere il piano di ripresa e di resilienza, dando ad esso attuazione.

Alla vigilia dell’insediamento del Governo Draghi, il Financial Times, del 12 febbraio 2021, ha pubblicato un articolo fortemente critico firmato dagli economisti Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo, che contestano la “narrativa tecno – keynesiana”, secondo cui Draghi sarebbe stato chiamato a gestire in modo ottimale la “enorme” somma di denaro che verrà dal Recovery Plan europeo e denunciano che, come è avvenuto nella storia recente delle precedenti crisi del 1992 e del 2011 l'avvento dei "tecnocrati" ha sempre svolto un ruolo opposto: «indebolire le forze parlamentari per aumentare l'autonomia del governo nella gestione delle poche risorse disponibili nel mezzo di gravi crisi economiche.». Peraltro non sarebbe casuale «che nel suo recente rapporto per il G30 Draghi abbia esortato i governi a sostenere la ‘distruzione creatrice’ del libero mercato: non certo Keynes, ma una versione ‘laissez-faire’ di Schumpeter». Qual è la versione di Sabino Cassese, che del Governo Ciampi è stato anche Ministro?

 Credo che sia una diagnosi sbagliata, fondata sono una misurazione errata: il piano di ripresa e di resilienza è dotato di 209 miliardi in sei anni. Si tratta di circa 35 miliardi per anno, che vanno comparati ai circa 850 miliardi del bilancio ordinario annuale dello Stato italiano.

Quali sono le linee di novità (e continuità) del nuovo Governo Draghi?

Un grande cambiamento nello stile di governo, con meno comunicazione e più informazione. Un cambiamento di rotta fondamentale nei rapporti con l’Unione Europea, molto più stretti. Una evidente maggiore attenzione ai piani di vaccinazione. Una chiara indicazione di politiche, con minore attenzione agli schieramenti. Una base parlamentare molto più ampia, anche se, naturalmente, più litigiosa.

Il Suo ultimo libro (“Una volta il futuro era migliore”. Lezioni per invertire la rotta, Milano, Solferino, 2021) è una grande lezione sul declino nazionale e sul futuro possibile. Racconta i grandi cambiamenti dell’Italia (e del mondo intorno a esso) nel corso di più di un secolo, rappresentando le luci e le ombre, e le speranze, della nostra storia recente. In estrema sintesi quali sono i punti di forza per una inversione di rotta?

Ce n’è uno fondamentale, la capacità di ripresa che, nei secoli, la penisola italiana ha sempre avuto. A questo si aggiungono alcuni punti di forza dal nostro sistema, tra cui la capacità delle università di produrre grandi cervelli, pur essendo il sistema universitario complessivamente poco efficiente.

Come è cambiata la nostra costituzione economica? Nell’ultimo capitolo, di cui è Autore, del fortunato manuale da Lei curato, giunto alla sesta edizione (“La nuova costituzione economica”, Roma-Bari, Laterza, 2021) c’è un intero paragrafo, il quarto, intitolato “ The era of small government is over”, dove affronta anche il tema della pandemia, e delle reazioni che si sono avute, e dei vecchi e nuovi strumenti di intervento statale.  

Si registra un maggior ruolo dello Stato, specialmente dello Stato finanziatore. Ma non credo che questo comporti un minore ruolo della globalizzazione, com’è dimostrato, d’altra parte, dai cospicui interventi dell'Unione Europea. Non bisogna dimenticare che l'Unione Europea, per reagire alla pandemia, ha fatto un enorme balzo in avanti, dotandosi di un potere finanziario che finora non aveva.

In conclusione, una domanda personale. Negli anni ‘50 Lei è stato allievo del prestigioso Collegio Medico-Giuridico (allora annesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa e poi inglobato nella Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant'Anna, che ha avuto come primo Direttore il nostro Maestro Francesco Donato Busnelli), si è laureato all'Università di Pisa e diplomato presso la Scuola Normale Superiore – Collegio giuridico. Così anche Suo fratello Antonio, illustre internazionalista, che per alcuni anni ha insegnato nella nostra Università. Il nostro Maestro Giuseppe Pera, al quale sono dedicate dai suoi allievi le Conversazioni sul lavoro, che da alcuni anni, ormai tradizionalmente, si tengono a Lucca, nel Convento di San Cerbone (questa volta a distanza, a causa dell’emergenza sanitaria) ci parlava spesso dei fratelli Cassese. Che ricordi ha di quei tempi? Come era la Facoltà giuridica pisana di quegli anni?

La Facoltà aveva pochissimi punti di forza. Uno era il Preside Giacomo Perticone, un bravo studioso, che, però, faceva poche lezioni. Un altro era la Professoressa Luisa Riva Sanseverino, nota non solo per i Suoi studi di diritto del lavoro, ma anche per i Suoi studi di carattere storico sulla dottrina sociale cristiana. Una terza persona molto interessante era Lorenzo Mossa, mente vulcanica, ma disordinata. Ma più di ogni altro, Massimo Severo Giannini, da poco reduce dalla Sua esperienza di capo di gabinetto di Pietro Nenni, Ministro della Costituente 

Grazie, Professore, anche per questo piccolo affresco di memoria. Andrà tutto bene?

Facciamo esercizi di futurologia, non di profezia. E per farli, bisogna partire da una diagnosi di quel che è accaduto. Non è la peggiore pandemia della storia del pianeta. Ma mai fenomeno è stato tanto immediatamente globale e globalmente vissuto e percepito, con tanto immediata partecipazione agli eventi e al dolore. Per la prima volta nella storia, la sperata vittoria (per la vita) sarà all’origine di una più cocente sconfitta (per l’economia). E la sconfitta sarà un danno auto inferto: siamo noi stessi che ce lo stiamo infliggendo, per evitarne uno peggiore. Per la prima volta anche paesi di antica formazione liberale hanno accettato limitazioni che neppure le più feroci dittature hanno imposto, come quelle alla libertà di circolazione, di andare e di venire, anche scegliendo le libertà sospese (ad esempio, quella di culto) e quelle rispettate (ad esempio, quella di stampa). Per la prima volta il mondo di ciascuno si è rimpicciolito: chi doveva essere domani a San Paolo, chi a Parigi, chi a San Francisco, si è trovato chiuso nella propria abitazione. Vedo un mutamento antropologico verso il valore della vita. Una volta sia il morire, sia la morte erano più facilmente accettati. Da ora si può dire che si è disposti a molti altri sacrifici, (la perdita di molte libertà, la nuova povertà che ci aspetta) pur di salvaguardare il valore della vita. Ci sarà una nuova richiesta sociale di sicurezza («Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case»: “Se questo è un uomo”, di Primo Levi), che si scaricherà necessariamente sugli Stati e che gli Stati scaricheranno su organismi mondiali, là dove essi non riescono ad arrivare. C’è da rallegrarsi per questo, ma anche da preoccuparsi, perché altri sacrifici dello stesso genere potrebbero domani esser richiesti o imposti. 

Sarebbe ragionevole pensare che la legittimazione di chi governa sarà più fondata sulla fiducia (“government by trust”), sul riconoscimento collettivo di appartenenza e di priorità. Pur essendo più lontani, restare più vicini. Dalla tua salute dipende la mia, e viceversa. Prevedo che da quello che stiamo imparando sui modi di reazione alla pandemia nel mondo verrà anche un altro insegnamento: calamità di questo tipo possono arrivare non previste e non ci si può far trovare impreparati nel senso di avere al vertice i Bolsonaro, i Trump, i Johnson. Bisogna fare attenzione a scegliere meglio chi ci governa. Se i posti di terapia intensiva erano in Italia meno di 6 mila e in Germania più di 28 mila (per poi rapidamente quasi raddoppiare), dipende anche da chi sta al governo e sa prepararsi per il futuro.

 

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