Testo integrale con note e bibliografia

1. Il ruolo assegnato alle parti sociali alla prova della crisi pandemica
La crisi socioeconomica derivante dalla pandemia da Covid-19 costituisce indubbiamente un’emergenza drammatica e dalle profonde ricadute sia sul piano produttivo e occupazionale, sia sui principali istituti del diritto del lavoro . In un contesto così globalizzato e iper-connesso come quello attuale, l’improvvisa necessità di sospendere temporaneamente la maggior parte delle attività economiche e di ridefinire le modalità, i luoghi e i tempi del lavoro per contenere la diffusione del virus ha infatti colto alla sprovvista il Paese, costringendo a ripensare i modelli organizzativi delle imprese, i sistemi di tutela dei lavoratori e la stessa disciplina lavoristica secondo un’ottica emergenziale .
In tale prospettiva, si sono resi necessari un complesso bilanciamento tra la tutela della salute pubblica e la libertà di iniziativa economica privata , nonché un’ampia e variegata serie di interventi finalizzati a preservare l’integrità del tessuto socioeconomico durante il periodo di maggiore criticità. Si riscontrano dunque, da un lato, l’implementazione di misure volte a rafforzare le disposizioni sanitarie in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro per salvaguardare adeguatamente i dipendenti , dall’altro, l’erogazione di sostegni al reddito dei lavoratori e ai profitti delle imprese in concomitanza con la temporanea sospensione delle attività produttive non essenziali e l’introduzione del blocco dei licenziamenti per motivi oggettivi .
In particolare, con l’entrata in vigore della l. n. 27/2020 (c.d. Decreto Cura Italia) si è progressivamente sviluppata in modo sempre più consistente un’apposita normativa lavoristica emergenziale , che, intervenendo su questioni urgenti come sicurezza, licenziamenti, lavoro a distanza e ammortizzatori sociali, ha inciso considerevolmente sull’autonomia delle parti collettive. Il Governo ha dovuto infatti limitare la consueta capacità decisionale degli attori sociali per affrontare rapidamente la crisi, incentivando tuttavia al contempo un maggiore ricorso al dialogo “concertato” per coinvolgerli nella definizione di alcuni aspetti regolativi; si pensi che per la limitazione del potere di recesso della parte datoriale in nome della tutela dei posti di lavoro esistenti si è ricercato comunque il consenso delle associazioni di categoria, le quali si sono pronunciate favorevolmente a fronte della contestuale decisione di alleggerire le imprese dalle conseguenze dirette della crisi pandemica con l’erogazione di sostegni alla liquidità e integrazioni economiche finanziate dallo Stato .
In tale ottica, tra i numerosi provvedimenti scaturiti spiccano indubbiamente per portata e singolarità gli interventi finalizzati alla salvaguardia dei livelli occupazionali, perseguiti principalmente mediante l’introduzione del blocco dei licenziamenti individuali e collettivi per motivi oggettivi fino al 17 marzo 2020 (art. 46) e l’erogazione per nove settimane di Cassa integrazione guadagni (CIG) per Covid-19 fino al 31 agosto 2020 (art. 22) . Tale misura congiunta – accompagnata anche da altre disposizioni per tutelare i lavoratori esclusi dal blocco, come la deroga sul lavoro a termine – costituisce uno dei principali cardini della normativa lavoristica emergenziale, essendo questa intervenuta in modo “invasivo” sull’autonomia decisionale della parte datoriale per impedire un’emorragia occupazionale nel breve periodo e preservare l’integrità del tessuto produttivo.
Pur costituendo una risposta pressoché inevitabile alla luce della gravità della situazione , appare opportuno soffermarsi sulla tortuosa evoluzione del suddetto divieto, dal momento che il continuo protrarsi della crisi pandemica ha portato a prorogarne la durata e l’efficacia anche nei mesi successivi; tale divieto, infatti, pare aver assunto con il passare del tempo una dimensione sempre meno provvisoria, finendo contestualmente per sollevare un ampio dibattito dottrinale circa la sua costituzionalità .
In particolare, mentre il modello “rigido” del blocco dei licenziamenti oggettivi – introdotto dal Decreto Cura Italia e poi prorogato con la l. n. 77/2020 (c.d. Decreto Rilancio) fino al 17 agosto – prevedeva un divieto pressoché assoluto, la successiva l. n. 126/2020 (c.d. Decreto Agosto) ha dato gradualmente spazio a margini di flessibilità con delle deroghe specifiche . Tale legge ha previsto innanzitutto un legame funzionale tra l’utilizzo degli ammortizzatori sociali Covid-19 e il suddetto divieto, andando a precludere le procedure di licenziamento oggettivo per tutte quelle imprese che non avessero prima fruito in toto delle ulteriori diciotto settimane di integrazioni salariali o, in alternativa, degli esoneri contributivi utilizzabili dal 17 luglio al 31 dicembre 2020. In questo modo, si è andati in concreto a vincolare l’efficacia del blocco alla preventiva e piena fruizione dei suddetti sostegni economici, lasciando così un apparente margine di discrezionalità alle imprese. Tuttavia, la previsione di un simile legame funzionale , seppur in grado di dissipare alcuni dubbi circa la costituzionalità del divieto, è venuta meno dapprima con la l. n. 176/2020 (c.d. Decreto Ristori) e la l. n. 178/2020 (c.d. Legge Bilancio 2021), mentre da ultimo con il d.l. n. 41/2021 (c.d. Decreto Sostegni); quest’ultimo ha infatti riconfermato il precedente “modello rigido” lasciandone invariate soltanto le deroghe previste e portando il termine al 30 giugno 2021.
Ad ogni modo, a prescindere dalla riflessione sulle modifiche nella disciplina del blocco dei licenziamenti oggettivi e sul relativo dibattito dottrinale, appare altrettanto necessario soffermarsi sulla significatività del provvedimento. Tale divieto costituisce forse l’esempio più chiaro della difficile mediazione tra le esigenze collettive che le parti sociali hanno svolto insieme al Governo per cercare di contrastare gli effetti della crisi pandemica . Infatti, pur continuando a evolversi per lasciare spazio a una versione gradualmente più flessibile, il blocco cerca di tenere conto al contempo delle differenti posizioni datoriali e sindacali: da un lato, la volontà di riorganizzare le proprie attività economiche senza essere costretti a tenere in vita rami o processi ormai destinati a essere soppressi, dall’altro, l’esigenza di mantenere una forma di tutela e l’accesso alle integrazioni salariali per permettere ai lavoratori di sopportare i danni della crisi nell’attesa di cenni di ripresa dall’economia e, di conseguenza, dal mercato del lavoro.
In tale prospettiva, la necessità di ricorrere sempre più al dialogo sociale per la codeterminazione del perimetro delle misure emergenziali può essere interpretata come un chiaro sintomo della gravità e complessità dell’attuale pandemia , i cui danni sono ormai di gran lunga superiori a quelli scaturiti sia dalla Grande Recessione, sia dalla depressione nell’immediato Dopoguerra. Del resto, la crisi pandemica, oltre che per le notevoli ricadute su ricchezza e occupazione, si contraddistingue anche per il profondo impatto sul piano sanitario e sociale, nonché per il complesso bilanciamento messo in atto tra la tutela della salute pubblica e l’integrità del tessuto produttivo e l’intensità della normativa speciale che ne è derivata.
Certamente il divieto dei licenziamenti oggettivi introdotto dal Decreto Cura Italia – e da ultimo prorogato con il Decreto Sostegni – potrebbe portare a un parallelismo con il blocco applicato nel Dopoguerra dal d.l.l. n. 523/1945, essendo anche quest’ultimo nato con lo scopo di preservare i livelli occupazionali e limitare l’impatto della crisi sulla sfera sociale . Tuttavia, tale versione trovava applicazione solamente per le imprese dell'Alta Italia e veniva meno nel caso in cui il lavoratore si fosse rifiutato di accettare un altro incarico lavorativo da parte del proprio datore di lavoro senza giustificato grave motivo ; tali elementi lo rendono dunque ben differente dalla sua attuale versione e, in senso più ampio, dalle misure emergenziali adottate oggi, essendo queste ultime maggiormente influenzate dal ruolo centrale della contrattazione collettiva .
Inoltre, il danno economico e produttivo derivante dalla pandemia è stato tale non solo da mettere in discussione l’efficacia degli attuali sistemi di tutela dei lavoratori e i modelli organizzativi delle imprese, ma anche da portare a richiedere un intervento statale sempre più netto nel privato, nonché un maggiore coinvolgimento degli attori sociali nel processo decisionale. A causa dell’emergenza, infatti, le spinte più neoliberiste maturate negli ultimi anni sembrano aver lasciato improvvisamente posto al desiderio di un intervento pubblico pressoché totale e volto ad assumere una figura quasi “provvidenziale” per risolvere i problemi derivanti dalla pandemia, seppur affiancato comunque da una maggiore inclusione delle parti collettive nella codeterminazione delle misure strategiche.
Di conseguenza, pur essendo questa una reazione immediata e fisiologica alla gravità dell’attuale crisi, appare necessario, oltreché doveroso, fondare la ripresa socioeconomica del Paese su forti riforme strutturali da parte dello Stato che siano frutto di un dialogo “concertato”.

2. Sfide e opportunità per il sistema delle relazioni industriali tra pandemia e post-pandemia
Alla luce del continuo protrarsi della situazione pandemica, il Governo si trova necessariamente impegnato a operare in contemporanea su due livelli: il fronte delle misure tempestive per contrastare le emergenze e quello degli interventi in un’ottica di medio-lungo periodo per attuare delle riforme strutturali. Se da un lato vi sono infatti questioni urgenti come il passaggio ormai prossimo verso un blocco dei licenziamenti selettivo e i rischi derivanti da una potenziale emorragia occupazionale , dall’altro si trovano allo studio numerosi provvedimenti volti a razionalizzare alcuni dei principali istituti del diritto del lavoro . Tra questi vi sono tra l’altro la necessità di ripensare il modello della Cassa Integrazione Guadagni – problematica particolarmente sentita nel corso degli ultimi anni e ulteriormente messa in evidenza durante la stessa pandemia – e definire un ammortizzatore sociale unico per contrastare la frammentarietà dei regimi di sostegno al reddito .
Tuttavia, come si è potuto osservare dai recenti sviluppi, l’obiettivo della ripresa e del rilancio nel post-pandemia non può prescindere non solo da interventi statali di ampio respiro, ma anche da una migliore valorizzazione delle relazioni industriali. D’altro canto, è proprio nei periodi di maggiore crisi che si possono identificare con chiarezza le debolezze intrinseche nel sistema vigente e, di conseguenza, coinvolgere le rappresentanze collettive nel ripensamento del quadro regolativo in un’ottica migliorativa . Infatti, sebbene l’emergenza pandemica abbia portato il Governo ad agire nell’immediato con maggiore autonomia decisionale , il continuo dialogo tra Stato e parti sociali si è dimostrato un elemento centrale per affrontare le varie criticità derivanti dalla crisi.
A tal proposito, appare doveroso sottolineare come le sfide presentatesi negli ultimi mesi abbiano nuovamente messo in luce sia l’importanza di un maggiore coinvolgimento delle associazioni sindacali e datoriali nel processo decisionale, sia le problematiche conflittuali già insite nelle relazioni industriali . La piena attuazione del tanto agognato “patto sociale” risulta infatti un compito difficile, soprattutto in un contesto di estrema fragilità come quello attuale. Ne sono prova in tal senso i momenti di confronto per la definizione dei protocolli condivisi di prevenzione del rischio per garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro , oltreché la complessa mediazione circa l’estensione e i limiti del blocco dei licenziamenti oggettivi e delle integrazioni salariali Covid-19 . Le stesse difficoltà nel concordare una visione comune tra la compagine politica e gli attori sociali sulle strategie di sviluppo e resilienza sembrano aver portato a momenti di inasprimento nella comunicazione.
Ad ogni modo, nonostante gli inevitabili momenti di conflittualità all’interno delle procedure di negoziazione , si può affermare che l’impatto della crisi sul piano socioeconomico e occupazionale sia stato in parte attenuato anche grazie alle prove di dialogo tra le parti sociali. Si riconferma dunque tanto attuale quanto necessario quel “diritto riflessivo” che, all’interno del bilanciamento tra le esigenze produttive e la tutela della salute, intende coinvolgere le associazioni collettive nella progettazione e codeterminazione degli interventi pubblici. Sempre in tale prospettiva si muove pure il documento programmatico recentemente pubblicato dall’OIL per contrastare l’impatto del Covid-19 sul tessuto socioeconomico , che suggerisce la promozione del coinvolgimento delle parti sociali tra le principali linee strategiche per favorire la ripresa .
Appare dunque chiaro come l’emergenza pandemica – rispetto alla quale l’Italia si è trovata inizialmente impreparata e il sistema di protezione sociale del nostro Paese ha rivelato forti debolezze strutturali – possa al contempo favorire la ripresa di un dialogo sociale più collaborativo e partecipato in funzione delle esigenze collettive , permettendo così al sistema delle relazioni industriali di rimarcare la propria fondamentale rilevanza nel panorama odierno. Centralità che risultava già osservabile – ancor prima dell’attuale crisi pandemica – nei cambiamenti dei modelli organizzativi e produttivi delle imprese scaturiti in seguito al forte impatto della digitalizzazione sul mondo del lavoro . Del resto, nonostante permangano ancora alcune delle precedenti criticità , pare potersi affermare che la crisi pandemica sia stata altresì accompagnata da una rinnovata valorizzazione delle relazioni industriali, avendo le parti collettive gradualmente visto un ricorso più frequente al confronto e, addirittura, a decisioni “concertate” .
In tale ottica, la centralità del dialogo sociale all’interno dell’azione regolativa nella fase emergenziale implica ora una maggiore responsabilità decisionale per le associazioni datoriali e sindacali, essendo chiamate contribuire più attivamente nella definizione delle misure per affrontare il complesso nodo dell’arresto della crescita economica. Tale problematica rappresenta infatti uno dei principali ostacoli al regolare funzionamento del mondo del lavoro, emergenza che richiede sforzi e soluzioni considerevoli per evitare una pericolosa emorragia occupazionale . Secondo recenti studi , la combinazione derivante dalla crisi pandemica e dall’effetto disruptive del progresso tecnologico porterà nei prossimi anni a un massiccio aumento della disoccupazione involontaria. In particolare, la pandemia costituisce – e costituirà – non solo la causa della frenata dell’economia su scala globale e del conseguente danno occupazionale ancora non del tutto quantificabile, ma anche il “fattore accelerante” della maggiore domanda di capitale umano altamente qualificato . Di conseguenza, essendo ormai il blocco dei licenziamenti destinato ad abbandonare gradualmente la sua connotazione rigida e a ridurre la sua portata , risulta necessario formulare netti interventi strutturali per affrontare l’inevitabile aumento del tasso di disoccupazione e di inattività.
A tal proposito, possono giocare un ruolo determinante la codeterminazione e la cogestione delle politiche attive incentrate sull’accrescimento e sulla riqualificazione professionale. Infatti, pur essendo stato necessario nel breve periodo dare priorità alla salvaguardia dei posti di lavoro mediante limiti alla libertà imprenditoriale e sussidi, la crisi pandemica ha evidenziato quanto sia indispensabile investire nella professionalità dei lavoratori per accrescerne l’occupabilità. In questo modo, il rafforzamento della professionalità potrebbe permettere di perseguire la tutela del posto di lavoro e di migliorare il processo di inserimento reinserimento nel mercato del lavoro grazie alle maggiori possibilità di reimpiego.
Pertanto, appare chiaro come le misure di accrescimento professionale debbano necessariamente potersi fondare su solide relazioni industriali, essendo le associazioni datoriali e sindacali i soggetti più idonei a determinare quelle che sono le specifiche esigenze settoriali e le competenze maggiormente ricercate all’interno del tessuto produttivo.

3. La rilevanza strategica della formazione per la ripresa del Paese
L’impatto generato dalla pandemia da Covid-19 sul mondo del lavoro, in aggiunta a quello derivante dal continuo progresso tecnologico, non può che essere mitigato mediante il ricorso a politiche attive più incisive e un’accelerazione verso la tanto agognata transizione digitale . Si prospettano infatti necessari degli interventi strutturali di ampio respiro – soprattutto ora che sussiste la possibilità di utilizzare le ingenti risorse europee per affrontare la situazione emergenziale e pianificare la ripresa – che prevedano una maggiore cooperazione tra Governo e parti sociali nella gestione comune degli obiettivi di sviluppo.
In particolare, si auspica un dialogo proficuo nella determinazione degli interventi per rafforzare l’occupabilità dei lavoratori, nonché delle soluzioni ancora allo studio per favorire l’accompagnamento e il reinserimento nel mercato del lavoro; vi rientrerebbero dunque le misure volte ad accrescere le competenze e la professionalità della forza lavoro, essendo queste mirate a contrastare gli effetti del massiccio incremento della disoccupazione involontaria.
In tale prospettiva, il sistema delle relazioni industriali potrebbe acquisire una maggiore centralità nella definizione e gestione degli strumenti per il rafforzamento professionale della forza lavoro, andando così a supportare soprattutto le fasce maggiormente penalizzate della popolazione come quella femminile e giovanile . Del resto, tale strada è stata recentemente indicata da Mario Draghi nella veste di ex-presidente della Banca Centrale Europea, che ha suggerito il superamento della logica dei sussidi – adatti principalmente come provvedimento di supporto iniziale – in favore di un approccio più proattivo e incentrato sull’accrescimento della professionalità .

3.1. Il rilancio della professionalità dei lavoratori nel Fondo Nuove Competenze
In tale prospettiva, assume particolare rilevanza la recente istituzione del “Fondo Nuove Competenze” da parte dell’art. 88 della l. n. 77/2020 , che intende promuovere specifiche rimodulazioni orarie per incentivare la formazione dei lavoratori «al fine di consentire la graduale ripresa dell’attività dopo l’emergenza epidemiologica» . Il fondo istituito presso Anpal – inizialmente dotato di 230 milioni di euro nel 2020 e successivamente potenziato dal Decreto Agosto per un stanziamento complessivo di 730 milioni per il biennio 2020-2021 – prevede in particolare la possibilità, previo accordo collettivo aziendale o territoriale tra le associazioni datoriali e dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di attuare una temporanea riduzione dell’orario lavorativo dei dipendenti scelti per svolgere dei percorsi formativi specifici .
In questo modo, le imprese possono predisporre dei piani di formazione individuale o collettiva (a distanza, training on the job, blended) della durata complessiva di 90 giorni , ricevendo al contempo la piena copertura da parte del Fondo dei costi del lavoro per i soggetti coinvolti ; sussiste, infatti, un incentivo a stipulare tali accordi per via dei netti benefici sia in materia di investimenti sul capitale umano, sia per la temporanea riduzione dei costi sul piano contributivo, previdenziale e assistenziale per la parte datoriale .
Tale dispositivo appare dunque un’interessante novità, che si rivolge ai datori di lavoro privati e intende coinvolgere tutti i lavoratori (dirigenti compresi) nei programmi di formazione attuabili. Risulta inoltre opportuno sottolineare come tale Fondo sia accessibile anche alle attività che al momento della domanda hanno dei dipendenti temporaneamente in cassa integrazione guadagni, enfatizzando così la natura inclusiva e proattiva dell’istituto; viene ad ogni modo precisato che i lavoratori sotto trattamento CIG non possano essere inclusi, dovendo questi terminare il periodo di sospensione dal lavoro e la fruizione delle integrazioni salariali prima di poter essere inseriti nei piani formativi.
Osservando la struttura del Fondo Nuove Competenze, si può constatare un forte coinvolgimento delle associazioni sindacali e datoriali nell’individuazione degli obiettivi di sviluppo e dei programmi da proporre. Tali accordi devono infatti essere ben dettagliati sul numero di dipendenti da includere, il monte complessivo di ore lavorative che si intendono richiedere (per un totale di 250 ore per individuo), il progetto formativo e il quadro puntuale delle modalità e degli obiettivi della formazione. Pertanto, le parti sociali sono chiamate a strutturare tali programmi formativi in relazione alle reali esigenze aziendali e in funzione dell’attuale fabbisogno professionale, incentivando così un migliore investimento nei processi di upskilling e reskilling del personale ed evitando di ricadere nella logica passiva dei sussidi. Del resto, tale strumento permette alle imprese di finanziare a costo zero le proprie politiche di sviluppo e crescita in materia di competitività del personale, organizzando i programmi in base alle proprie necessità .
Le parti sociali sono dunque chiamate dallo Stato a svolgere un ruolo centrale nella definizione dei progetti formativi sulla base delle esigenze tecnico-organizzative, in quanto ritenute i soggetti più indicati per contribuire al rafforzamento della professionalità e dell’occupabilità dei lavoratori . Vengono incaricate in questa fase di transizione di gestire al meglio le risorse disponibili – con la possibilità di incrementare la dotazione con altri fondi (Paritetici Interprofessionali, Pon, Por) – soprattutto alla luce della dimensione meno provvisoria e più duratura che il Fondo sembra star acquisendo. Infatti, per incentivare la produzione di ulteriori accordi è stato esteso il termine per presentare le domande di accesso al Fondo dal 31 dicembre 2020 al 30 giugno 2021 in seguito al d.i. 22 gennaio 2021 del Ministero del Lavoro e del Ministero dell’Economia e delle Finanze (recepito da Anpal mediante il d.d. n. 69/2021) , dimostrando la natura non perentoria dei termini inizialmente stabiliti.
In prospettiva del passaggio dalla situazione pandemica al post-pandemia, l’utilizzo del Fondo Nuove Competenze può dunque ritenersi un’interessante soluzione di riqualificazione e accrescimento professionale, soprattutto per i lavoratori maggiormente a rischio di disoccupazione; questo si pone infatti come misura in grado di incidere concretamente sull’occupabilità dei beneficiari, nonché come un ulteriore freno al ricorso ai licenziamenti economici e organizzativi da parte delle imprese . Di conseguenza, tale strumento rappresenta un argine al rischio di un’emorragia occupazionale, andando ad affiancare il blocco dei licenziamenti per motivi oggettivi ora in fase di progressiva disapplicazione.
Si può inoltre dire che il Fondo Nuove Competenze si sposi perfettamente con il graduale passaggio dalle misure passive di assistenzialismo alla maggiore attenzione per le politiche attive che si ritrovano nella Legge di Bilancio 2021. Del resto, il sistema dei sussidi risulta più appropriato per intervenire per compensare la perdita del reddito in una logica di breve periodo, mentre le misure occupazionali e di accrescimento professionale devono essere predilette per quanto concerne i processi accompagnamento al lavoro.
Pur essendo ancora presto per valutare l’efficacia del nuovo strumento per l’accrescimento professionale, nonché la risposta complessiva da parte degli attori coinvolti, risulta tuttavia incoraggiante osservare il grado di adesione dimostrato dalle imprese. Stando infatti ai primi dati rilasciati da Anpal , agli inizi del 2021 il Fondo Nuove Competenze aveva già coinvolto circa 106 imprese per un totale di 50.459 lavoratori e finanziato 4.782.209 ore di lavoro dedicate alla formazione. Sono stati infatti già siglati importanti accordi collettivi per sostanziosi programmi formativi, spaziando dalle PMI alle grandi imprese.
Tra quelli presentati ad oggi, si possono prendere ad esempio le intese recentemente formulate dalle grandi compagnie delle telecomunicazioni , che hanno dimostrato di poter dare seguito a forme di dialogo responsabile tra le associazioni sindacali e datoriali per sfruttare il potenziale insito nel Fondo . Nel caso di Sirti S.p.A. – importante azienda operante nel campo della progettazione e dello sviluppo delle reti delle telecomunicazioni – è stato predisposto, in accordo con i sindacati, il progetto “New skills to build future”, che intende includere circa 1.100 lavoratori per oltre 290.000 ore di formazione; il percorso di riqualificazione e accrescimento professionale qui previsto andrà soprattutto a interessare le nuove tecnologie digitali, adottando un approccio volto a contrastare l’inevitabile processo di obsolescenza tecnologica. Sempre sulle 290.000 ore si attesta il programma “Empowering the Future” di WindTre, che tuttavia assume una particolare rilevanza per via del modello di formazione basato su moduli e piattaforme digitali di apprendimento aziendale .
In una simile direzione si muove anche Vodafone, che ad oggi ha pianificato un progetto di reskilling volto a coinvolgere circa 6.000 dipendenti per oltre 300.000 ore di formazione in tema sia di soft skills, sia di hard skills (cloud computing, big data, IOT, ecc.) per soddisfare le esigenze produttive e organizzative . Tuttavia, è nel caso di Tim che si assiste al più massiccio ricorso al Fondo per iniziative di upskilling e reskilling, avendo tale compagnia predisposto un piano formativo in grado di conciliare conoscenze tecniche e digitali con competenze organizzative e manageriali per circa 37.000 dipendenti. Appare dunque incoraggiante osservare come il settore delle telecomunicazioni abbia dimostrato un approccio molto positivo all’istituto, cogliendo il forte beneficio derivante dalla cogestione con le organizzazioni sindacali degli obiettivi di sviluppo.
Per quanto riguarda l’istituto del Fondo Nuove Competenze, appare opportuno soffermarsi su due ulteriori considerazioni: in primo luogo, è possibile constatare come il meccanismo qui introdotto possa richiamare alla mente gli accordi introdotti dall’art. 2103 c.c., co. 6 per il conseguimento di una diversa professionalità o la conservazione dell’occupazione. In particolare, si può riscontrare in entrambi i modelli l’intenzione del legislatore di responsabilizzare gli attori sociali nell’adozione di tutte le soluzioni possibili volte non solo a scongiurare il licenziamento, ma anche a tutelare la sfera professionale secondo l’interesse del lavoratore. Partendo da questa prospettiva, si può forse dire che il Fondo intende adottare un approccio proattivo, andando a rafforzare la professionalità mediante incentivi e strumenti di flessibilità oraria e introducendo un legame ancor più funzionale tra l’investimento nell’occupabilità dei beneficiari e la tutela del posto di lavoro.
In secondo luogo, appare rilevante evidenziare come un eventuale intervento volto a rendere il Fondo Nuove Competenze un istituto stabile nel quadro giuridico italiano potrebbe incidere concretamente sul concetto di repêchage nelle procedure di licenziamento oggettivo . In particolare, nonostante non vi sia alcun obbligo per la parte datoriale di trovare una posizione lavorativa alternativa che sia compatibile con il profilo professionale del lavoratore, il suddetto Fondo potrebbe rafforzare indirettamente il principio di extrema ratio del licenziamento.
Tale strumento, infatti, non presentando alcun costo aggiuntivo per le imprese, costituisce una valida alternativa al recesso, nonché un’occasione per definire le competenze necessarie al dipendente per assumere un altro ruolo di interesse all’interno dell’attività. In questo modo, il soggetto che si ritrovi in sede di “ripescaggio” a valutare le alternative possibili al recesso potrebbe mettere in evidenza la possibilità di essere adibito a un periodo formativo mediante il Fondo Nuove Competenze per acquisire la professionalità desiderata dall’impresa o, in caso di mancata attivazione della parte datoriale ad accedere a tale strumento, sottolineare una potenziale condotta inadempiente verso l’onere del repêchage. Del resto, la programmazione di percorsi di formazione trimestrali finanziati dallo Stato per i lavoratori professionalmente più deboli costituisce una possibilità da tenere in considerazione prima di poter affermare di aver considerato ogni alternativa possibile al recesso e aver così assolto al principio di extrema ratio .
Naturalmente il Fondo Nuove Competenze non è da intendersi come uno strumento obbligatorio per la parte datoriale e da impiegare in alternativa al licenziamento oggettivo, essendo tale concezione in netto contrasto con la libertà d’iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. Di conseguenza, non si potrebbe certo forzare in sede di giudizio il datore di lavoro a adottare decisioni incompatibili con le proprie esigenze organizzative e produttive . Ad ogni modo, se tale Fondo dovesse abbandonare il suo carattere eccezionale per il biennio 2020-2021 e assumere una dimensione strutturale nei prossimi anni, sarebbe allora interessante valutare le possibili implicazioni che tale strumento potrebbe avere sulle procedure di licenziamento e, in particolare, sul repêchage.
In conclusione, pare potersi affermare che il Fondo Nuove Competenze costituisce un’incoraggiante e nuova misura a sostegno dell’occupazione, che intende responsabilizzare maggiormente le parti sociali nell’accrescimento professionale dei dipendenti. Nel contesto d’incertezza socioeconomica e occupazionale del post-pandemia sarà pertanto necessario che il sistema delle relazioni industriali trovi in tale strumento un elemento di unione e che gli attori sociali si assumano l’importante incarico di promotori della valorizzazione della professionalità. In questo modo, potrebbero attivamente intervenire sull’adattabilità dei dipendenti alle nuove competenze richieste dai cambiamenti del mercato del lavoro.
3.2. Gli interventi di sostegno all’occupazione nel post-pandemia: quale ruolo per le parti sociali
La necessità di intervenire concretamente sulla struttura delle politiche attive del lavoro – esigenza ulteriormente accentuata in seguito alla crisi pandemica – sta recentemente portando alla definizione di misure di sostegno all’occupazione sempre più vincolate ai percorsi di accrescimento professionale della forza lavoro . Oltre che all’interno del modello innovativo del Fondo Nuove Competenze, è infatti possibile riscontrare una maggiore centralità dell’occupabilità dei lavoratori nei recenti provvedimenti per il reinserimento e il ricambio occupazionale introdotti dalla Legge di Bilancio 2021. In particolare, la l. n. 178/2020 ha previsto con l’art. 1, co. 324-327, una dotazione finanziaria per il 2021 di circa 500 milioni di euro per costituire il “Fondo per l’attuazione di misure relative alle politiche attive rientranti tra quelle ammissibili dalla Commissione europea nell’ambito del programma React EU”, che intende sia incidere concretamente sul rafforzamento delle politiche attive e occupazionali, sia riorganizzare gli ammortizzatori sociali vigenti.
Tuttavia, sembrerebbe trattarsi di un intervento statale e centralizzato in collaborazione con i centri dell’impiego e le agenzie del lavoro, in cui il ruolo delle parti sociali appare pressoché marginale o nullo. Da un lato, infatti, il 53,4% dello stanziamento complessivo andrà a riformare l’assegno di ricollocazione, ovvero un credito compreso tra i 250 e i 5000 euro da utilizzare presso i centri per l’impiego e le altre agenzie per il lavoro abilitate per ricevere assistenza e supporto nella fase di reinserimento occupazionale. Tale istituto – inizialmente introdotto dall’art. 23 del d.lgs. n. 150/2015 per i titolari della NASpI da oltre quattro mesi e successivamente riservata ai soli percettori di cassa integrazione o di Reddito di cittadinanza (AdRdC) – pare dunque acquisire ora una nuova dimensione, andando a estendere la propria fungibilità ed efficacia. Senza dubbio è possibile accogliere tale novità come un segnale positivo, o meglio come un primo passo verso il consolidamento dei servizi dell’orientamento al lavoro.
Non avendo tuttavia tale strumento riscontrato particolare successo negli anni passati , risulta auspicabile che le prime modifiche da parte della Legge di Bilancio vengano seguite da ulteriori interventi volti a rafforzarne il legame funzionale con gli ammortizzatori e a eliminarne la natura volontaristica. Appare comunque incoraggiante constatare come siano già stati cancellati da subito i vincoli stringenti sui requisiti dei percettori introdotti dall’art. 9 della legge n. 26/2019, aspetto che lascia presupporre un ampliamento della platea dei beneficiari in funzione della nuova centralità dello strumento.
Dall’altro, i restanti 233 milioni di euro andranno invece a finanziare il c.d. Programma “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (GOL), che intende occuparsi dei servizi e delle politiche attive del lavoro. Pur non essendo ancora a oggi noti i dettagli, tale piano mira a promuovere una serie di interventi per favorire l’inserimento e il reinserimento occupazionale mediante politiche attive ad hoc e tarate sulle specifiche esigenze dei beneficiari. Si possono dunque intravedere le basi per una profonda riforma del sistema dei servizi all’impiego ex art. 20 del d.lgs. n. 150/2015, che pare voler rendere più funzionale il legame tra la percezione dei sussidi e gli interventi di accrescimento professionale.
Prima di poter trarre ulteriori valutazioni circa l’efficacia degli strumenti predisposti e le riforme strutturali annunciate nel suddetto Fondo sarà comunque necessario attendere sia i dettagli da parte di Anpal circa la nuova struttura dell’assegno di ricollocamento, sia il d.i. del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministero dell’Economia e delle Finanze riguardo i beneficiari, i piani di riqualificazione professionale e le misure del programma GOL.
È invece all’art. 1, co. 349, della Legge di Bilancio che si può riscontrare una misura in cui la codeterminazione degli obiettivi e delle strategie aziendali risulta prettamente in capo agli attori sociali, aspetto che lascia sperare in una maggiore rilevanza e attenzione per la contrattazione collettiva. In particolare, il contratto di espansione – inizialmente introdotto con l’art. 41 del d.lgs. n. 148/2015 come “contratto di solidarietà espansiva” e riformato poi dall’art. 26 della l. n. 58/2019 (c.d. Decreto Crescita) – trova ora una nuova dimensione con il “contratto di espansione interprofessionale”, che conferma la proroga anche al 2021 dello strumento previsto in via sperimentale per il biennio 2019-2020.
Come nella precedente formulazione, sussiste ancora il fondamentale coinvolgimento delle compagini datoriali e sindacali per garantire nuovi inserimenti in organico a fronte degli scivoli pensionistici agevolati: si richiede infatti che tale contratto preveda la definizione di un piano di riconversione aziendale, dettagliato altresì con le tempistiche per le nuove assunzioni e i profili professionali richiesti. Inoltre, nel caso in cui non sia possibile attuare dei prepensionamenti, è necessario concordare il piano formativo e di riqualificazione per il personale già assunto da porre momentaneamente posto in cassa integrazione guadagni straordinaria .
Tuttavia, a differenza delle precedenti versioni, il nuovo contratto di espansione si contraddistingue per un requisito dimensionale di accesso nettamente inferiore , prevedendo il ricorso anche per le aziende con 500 dipendenti e, in caso di prepensionamenti per lavoratori a non oltre 60 mesi dalla pensione, anche a quelle con 250 addetti. È dunque grazie all’estensione della platea delle imprese interessate dal provvedimento che tale istituto può acquisire una maggiore rilevanza nel panorama produttivo odierno; la stessa programmazione sia dei profili professionali necessari da assumere, sia dei progetti formativi di riqualificazione dei lavoratori già presenti costituisce un momento per coinvolgere direttamente i rappresentanti sindacali e la parte datoriale in un una cooperazione proficua, permettendo così di definire in sede governativa i propri obiettivi e perseguire migliori occasioni di sviluppo.
Appare dunque incoraggiante constatare il graduale processo di flessibilità attraversato dal contratto di solidarietà espansiva, che ha cercato di estendere la propria fungibilità a una platea maggiore di imprese. Del resto, come è ben noto, dalle recenti indagini di Unioncamere per il 2019 si può osservare tra le circa 6.091.971 attività presenti in Italia una netta predominanza le PMI a fronte di una scarsa presenza di grandi imprese . Pertanto, seppur l’iniziale requisito dimensionale del contratto di solidarietà espansiva ne precludesse un ampio ricorso, il nuovo contratto di espansione interprofessionale intende includere anche le imprese di minori dimensioni, andando così a coinvolgere sempre più le parti sociali nella cogestione delle strategie di sviluppo.

4. Osservazioni conclusive
A ormai più di un anno dall’insorgere della pandemia e dalla nascita della relativa normativa emergenziale, risulta possibile delineare con maggiore chiarezza quelle che sono state, e quelle che saranno, le principali sfide per il mondo del lavoro . Se da un lato, infatti, le urgenze del breve periodo hanno immediatamente richiesto provvedimenti volti a garantire l’integrità del tessuto socioeconomico e la sicurezza sui luoghi di lavoro, dall’altro le criticità già insite nel sistema produttivo hanno dato modo di accrescere il dibattito circa le possibili riforme strutturali dei modelli regolativi vigenti .
Tale emergenza, unita agli effetti derivanti dal progresso tecnologico sul mondo del lavoro, ha funzionato da “acceleratore del cambiamento”, rendendo ancor più urgente una complessiva riforma, tra i tanti istituti, degli ammortizzatori sociali, delle misure per la conciliazione vita-lavoro e delle politiche attive occupazionali. Del resto, l’occasione della crisi ha consentito di poter riflettere su soluzioni più ambiziose per ridefinire il quadro giuridico intorno al mondo del lavoro, nonché sulla possibilità di attuare iniziative in grado di coinvolgere Governo e parti sociali nella condivisione, cogestione e codeterminazione degli obiettivi di sviluppo .
Indubbiamente, quest’ultima ipotesi, seppur contraddistinta da non poche difficoltà di attuazione per via della natura conflittuale che ha spesso contraddistinto le relazioni industriali in Italia, potrebbe essere il pilastro fondamentale per affrontare sia le urgenti criticità sul piano socioeconomico nel breve periodo, sia le future avversità del post-pandemia. Un clima più cooperativo permetterebbe infatti di garantire anche una migliore efficacia delle nuove politiche attive per il reinserimento occupazionale e una più ponderata razionalizzazione dell’attuale sistema degli ammortizzatori sociali, andando così a fornire maggiori tutele direttamente all’interno del mercato del lavoro .
In tale prospettiva, si ritiene che nuove forme di dialogo sociale cooperativo possano emergere dalla sfida della valorizzazione della professionalità, che già in seguito al forte impatto della digitalizzazione aveva maturato una propria centralità per via del suo effetto sul sistema delle relazioni industriali . Se infatti il progresso tecnologico aveva già inciso profondamente sui modelli organizzativi e produttivi delle imprese andando a creare nuove competenze, mansioni e profili lavorativi altamente qualificati , la pandemia da Covid-19 ha ulteriormente riportato all’attenzione collettiva tali aspetti, rimarcando l’esigenza di investire sulla professionalità della forza lavoro per accelerare il processo della transizione digitale in corso.
Gli strumenti per tutelare la sfera professionale della forza lavoro stanno del resto accrescendo la loro rilevanza a fronte della crisi pandemica, avendo quest’ultima dimostrato l’importanza di una piena padronanza delle competenze digitali e tecniche nel poter continuare a svolgere processi produttivi e attività lavorative a distanza o in condizioni particolarmente complesse.
Pertanto, si auspica che, alla luce dei danni ormai generati al tessuto sociale e produttivo del Paese, si possa ora ripartire da un sistema di relazioni industriali più coeso, in cui le politiche condivise nel post-pandemia riescano a dare al tema dell’occupabilità dei lavoratori una sua dimensione sempre più strutturale e meno teorica.

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