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 1.Nelle recenti giornate di studio dell’AIDLASS dedicate alla “Libertà e attività sindacale dopo i cinquant’anni dello Statuto dei lavoratori”, si sono registrate posizioni concordanti circa la praticabilità, e anzi l’opportunità, di una disciplina legislativa della rappresentatività sindacale, mirante a completare il passaggio dalla rappresentatività cd. “presunta” a quella “misurata”; posizioni più articolate, e comunque caute, si sono registrate invece circa la portata delle ricadute funzionali e finalistiche di una siffatta riforma.
Da un lato, collocandosi in una prospettiva pluriordinamentale, si è prefigurato, sia oure problematicamente, il rilancio della concertazione e della contrattazione delegata grazie alla rinnovata sensibilità sociale dell’Unione Europea, di cui è espressione la proposta di direttiva sul salario minimo, ma soprattutto l’epocale piano europeo di rilancio, basato sul Recovery and Resilience Fund da quasi 250 mld di euro, nonché sul Recovery Assistance for Cohesion and the Territories of Europe.
E’ astrattamente plausibile che, dopo il prosciugamento della concertazione negli ultimi decenni del secolo scorso, vi sia acqua per far nuotare nuovamente non solo la concertazione, ma anche la contrattazione: come tempestivamente rivendicato dalle centrali confederali, le quali, nel commentare lo schema di modello di governance multilivello previsto dal PNRR, hanno osservato come il loro “ruolo” non fosse “esplicitato adeguatamente”, né fossero definiti e garantiti i livelli di negoziazione”. In particolare, le organizzazioni sindacali hanno chiesto che tutti gli interventi, anche di sostegno alle imprese, prevedano “l’applicazione dei contratti collettivi sottoscritti dalle OO.SS. maggiormente rappresentative a livello nazionale”.
Nel prospettare una riforma di sistema che possa supportare tale passaggio, si è, così, invocata l’attuazione della 2° parte dell’art. 39 Cost., nel quadro di un sostegno istituzionale alla partecipazione del sindacato alla governance del piano di ripresa e resilienza.
E tuttavia, è significativo che, in chiave propositiva, l’accento sia caduto su uno specifico profilo funzionale della contrattazione collettiva: quello attinente all’esercizio di poteri ottriati dalla legge; mentre è stato solo sfiorato il tema dell’efficacia erga omnes del contratto collettivo stipulato iure proprio, cioè come atto di autonomia negoziale (costituzionalmente garantita se e in quanto esercitata mediante l’organizzazione sindacale [(Tursi 1996, 26 ss., 37; Romagnoli 2000, 7, 37, 44]), e non in virtù di una delega (lato sensu) normativa.
Focalizzando l’aspetto strutturale della rappresentatività misurata, infatti, Pellacani indica prioritariamente le “funzioni pubbliche o la cura di interessi generali”, e quindi l’esigenza di “individuare il contratto collettivo di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 cost.”, ovvero “ai fini dell’applicazione di una clausola sociale di fonte normativa o in forza di uno dei molteplici rinvii legali”; e osserva che un siffatto intervento non rappresenterebbe certo “l’en plein della quaterna costituzionale”, “limitandosi a individuare il contratto collettivo rilevante per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali obbligatori, il contratto collettivo da applicare ai fini del riconoscimento dei benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa vigente, e più in generale i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative tutte le volte in cui la legge fa ad essi richiamo”.
Il tema della finalizzazione della riforma della rappresentanza rispetto al contrasto della contrattazione “pirata”, e quello, più generale, “della futura eventuale introduzione anche nel nostro ordinamento dell'efficacia erga omnes almeno della parte salariale dei contratti collettivi di lavoro”, è solo accennato; quasi che l’erga omnes sia funzionale alla delega (in senso ampio) di poteri alla contrattazione collettiva, nel contesto di una nuova stagione concertativa.

La relazione di Varesi, dal canto suo, è a tal punto sensibile al nesso inscindibile tra la misurazione e certificazione della rappresentatività, e i suoi profili funzionali, che egli, una volta focalizzato l’aspetto strutturale della rappresentatività come criterio selettivo, si astiene ex professo dal varcare il confine oltre il quale si consumerebbe il definitivo trasloco della rappresentatività (misurata), sul piano dell’efficacia o addirittura della legittimazione al contratto collettivo.
Invero, la acclarata diversificazione funzionale della rappresentatività, se per un verso impone la netta distinzione tra maggiore rappresentatività e rappresentatività comparativamente maggiore (chiarendosi, finalmente, che la rappresentatività “maggiore” è frutto di una selezione rispetto a una soglia, mentre la rappresentatività “comparativamente maggiore” è frutto di una comparazione tra più soggetti già selezionati); per l’altro pone il dilemma della definitiva trasfigurazione della rappresentanza in rappresentatività (A.I.D.LA.S.S. 1989).
Ad ogni modo, anche Varesi focalizza alcune funzioni parapubblicistiche di primario rilievo - quali la costituzione di r.s.a., l’individuazione del minimale contributivo, l’assegnazione di benefici normativi e contributivi, l’attuazione di deleghe legislative - ; ma quando incrocia il tema della legittimazione o dell’efficacia del contratto collettivo, subentra la cautela, rilevandosi esplicitamente come l’ostacolo rappresentato dalla cd. “perimetrazione” delle cdd. “categorie” sia tutt’altro che superato.
In effetti, pur senza teoricamente escludere un utilizzo della rappresentatività “comparativamente maggiore” a fini contrattuali - sì da rompere quello che Ghera (Ghera 2021) ha chiamato il “silenzio” dello Statuto - , la proposta si sofferma pensosa sulla soglia della capacità, da parte di sindacati genuini (altro il problema se si trattasse di sindacati di comodo), ma privi di rappresentatività “qualificata”, di stipulare accordi collettivi idonei quanto meno a produrre effetti di diritto comune, per concentrarsi, prudentemente, sulla contrattazione delegata a fini di flessibilizzazione tipologica o funzionale, ovvero assunta come fonte-fatto per la produzione di effetti meta-contrattuali (per es., previdenziali).

2. Vero è che dal finire degli anni ‘80 del secolo scorso tende a prevalere l’idea secondo cui, una volta venuti meno i presupposti contingenti sui quali il sistema sindacale post-costituzionale di fatto si basava (allora, il venir meno dell’unità d’azione dei grandi sindacati confederali e il proliferare dei sindacati cdd. “autonomi”; oggi la proliferazione delle rappresentanze datoriali e conseguentemente dei contratti collettivi), sarebbe necessario un intervento regolativo finalizzato a ridefinire le condizioni della rappresentanza e/o dell’efficacia dei contratti collettivi.
Dietro a questa idea sta una concezione del diritto sindacale - frutto a mio avviso dell’ipostatizzazione della teoria ordinamentale di Giugni - , che colloca il diritto sindacale, e in particolare quello della contrattazione collettiva, in una dimensione che dovrebbe essere “altra” rispetto al diritto dei contratti: un “vero” diritto sindacale, sempre atteso e annunciato ma sempre rinviato; un diritto al quale solo “per necessità” e con approssimazione si ricorre nelle aule giudiziarie, in mancanza di quello “buono” che manca.
L’agognata Santiago de Compostela (F. Carinci, 2014) dovrebbe allora consistere nel regolare la rappresentatività superando la logica promozionale statutaria, per ingabbiare un pluralismo malato.
Ma basta davvero il dato della proliferazione dei contratti collettivi per giustificare un intervento regolatore che, sotto l’usbergo banalizzante della cd. “perimetrazione” delle aree contrattuali, predetermini, o autorizzi un’autorità terza a predeterminare, non solo, e non tanto, i soggetti collettivi abilitati, quanto gli ambiti della contrattazione ? Perché è chiaro - per fare un esempio di fantasia - che, se attribuisco efficacia erga omnes al ccnl stipulato dalla coalizione sindacale comparativamente più rappresentativa per la categoria della logistica e dei trasporti, quale individuata dalla medesima coalizione, sto affermando, innanzi tutto e prima di tutto, che esiste una categoria della “logistica e dei trasporti”, e che quindi non può avere efficacia erga omnes (o addirittura non può esistere), un ccnl stipulato per una categoria che intersechi, o costituisca un sottosettore, o viceversa ricomprenda in sé, quella della “logistica e dei trasporti”, quale, in ipotesi, rispettivamente, quella delle sole grandi imprese di logistica, o delle sole cooperative di padroncini, o delle sole cooperative di qualunque settore merceologico; con l’ulteriore conseguenza che la misurazione della rappresentatività dovrà effettuarsi con riferimento alla prima “categoria” e non alle altre.
Del resto, lo stesso Varesi ci ricorda che nel parere del CNEL del 1960 vi era unanime consenso sull’opportunità che, anche dopo l'attuazione dell'art. 39 della Costituzione, i sindacati, sia non registrati che registrati, potessero stipulare contratti collettivi di diritto comune, e che in caso di coesistenza, per le medesime categorie, di contratti collettivi ad efficacia generale con contratti collettivi di diritto comune, questi ultimi dovessero prevalere, per gli iscritti, soltanto qualora contenessero disposizioni più favorevoli.
E proprio la recente storia sindacale ci insegna che il problema non è tanto quello di distinguere tra una rappresentatività asseritamente “presunta” ed una “provata”; ma di comprendere quali siano gli ambiti in cui misurare la rappresentatività: problema che, a ben vedere, trova la sua genesi nella proliferazione delle organizzazioni datoriali, più che di quelle dei lavoratori; e quindi, in una domanda di flessibilità che, volente o nolente, è fortemente presente nel frastagliatissimo modo imprenditoriale.

Diverso discorso è da farsi in relazione all’utilizzo del criterio selettivo della rappresentatività comparativamente maggiore ai fini della contrattazione ottriata, delegata, o assunta come parametro per la determinazione del minimale contributivo, o della retribuzione equa ex art. 36 Cost.: qui è l’ordinamento statuale a dettare le regole, le loro finalità, e il loro campo di applicazione; allora il problema dell’articolo 39 della Costituzione, né nel 1° né nel 2° comma, non si pone; siamo nell’ambito di quella che mi piace chiamare auxiliary legislation (Tursi 2012, 677 ss.).
Un ambito nel quale, peraltro, una volta chiarito l’equivoco che confonde il criterio selettivo della maggiore rappresentatività, con quello della rappresentatività comparativamente maggiore, non ha più ragione di porsi il problema della presunta differenza tra il rinvio ai contratti collettivi stipulati dai piuttosto che dalle associazioni sindacali (comparativamente) più rappresentative: il contratto è, per definizione e per effetto del rinvio legale, unico.

3. Secondo Varesi, un ambito nel quale l’intervento legislativo s’impone, è quello delle rappresentanze sindacali aziendali: e l’opinione è da condividere.
Ritengo anzi che questo sia uno dei temi più urgenti da affrontare, perché il pasticcio derivante dal corto circuito innescato dal combinato disposto del referendum abrogativo del 1995 e delle sentenze della Corte costituzionale che hanno salvato e poi manipolato il testo di risulta, sia davvero incommestibile e non razionalizzabile.
Il cuore del problema non sta tanto nella assurda equiparazione della partecipazione alla trattativa, alla stipula del contratto, ma, in radice, nella confusione tra il reciproco riconoscimento e la rappresentatività, che ha portato a considerare il fatto compiuto della stipula del contratto, per un verso, come la “prova provata” della stessa rappresentatività - che a sua volta dovrebbe servire a sostenere il sindacato onde esso possa conquistarsi il potere negoziale - , e dall’altro, come una forma di cd. “accreditamento unilaterale” del sindacato ad opera del datore di lavoro (Tursi 2012); donde il disperato avvitamento logico della pretesa assimilazione tra stipula del contratto e negoziazione, che ha condotto qualche giudice sbrigativo a tagliar corto attribuendo la titolarità della r.s.a. al sindacato maggiormente rappresentativo tout court, così chiudendo il cerchio della commedia degli equivoci.
Non si tratta di avventurarsi in una polemica con fatti e soggetti istituzionali del passato; si tratta di auspicare invece pro futuro un intervento legislativo di riordino e parziale ritorno al passato, ossia alla maggiore rappresentatività (questa volta misurata) come criterio di legittimazione concorrente con quello del reciproco riconoscimento (la stipula dell’accordo); ciò che costituirebbe a mio avviso rimedio utile a risolvere anche il problema, attualissimo e in crescita, della costituzione di r.s.a. in unità produttive ove non trovi applicazione alcun contratto collettivo.

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