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Il diritto del lavoro continua a connotarsi per la sua specialità, quale sistema normativo che dal diritto civile discende, ma che ad esso deroga, al fine di offrire una protezione alla parte debole del rapporto, che tale continua ad essere o, meglio, ad essere ritenuta in ragione della forte sperequazione del mercato del lavoro e delle sue peggiori storture. In questo suo essere un diritto speciale, quello del lavoro continua ad essere praticato da avvocati specializzati o, comunque, sufficientemente esperti.
L’avvocato generalista che si trovi a trattare la questione di lavoro chiede spesso il supporto e/o l’affiancamento a mandato del collega specialista perché la specificità della materia e la specialità del rito – nell’eventualità che il contenzioso sfoci in esito giudiziario – rendono l’Avvocato lavorista un “addetto ai lavori” il cui contributo è per lo più irrunciabile.
L’esigenza di specializzazione, oltre che da ragioni proprie del mercato, per l’Avvocato lavorista è spesso anche l’esigenza di appagare un bisogno suo proprio, quando il percorso professionale è l’esito e la continuazione di una passione che si snoda tra scienza giuridica e diritto valoriale.
Perché il diritto del lavoro nasce e resta un diritto dei valori.
Quando ho iniziato a frequentare le aule giudiziarie, nel 1998, il processo del lavoro aveva i miei stessi anni: 25! Eravamo, quindi, ragazzi. Ho fatto in tempo a conoscere i Pretori del lavoro che, di lì a poco, sarebbero diventati giudici monocratici delle sezioni lavoro dei tribunali di primo grado, in molti casi lasciando le sedi territoriali (ex preture) più vicine ai lavoratori e alle aziende, per concentrarsi nelle sedi di circondario.
I primi magistrati del lavoro che ho incontrato non facevano certo mistero della loro posizione, ideologica quasi mai, ma valoriale sempre. Il loro ruolo era chiaro: il processo doveva servire a riequilibrare un rapporto diseguale e la conduzione dello stesso andava in quella direzione.
Quando la domanda del lavoratore appariva compromessa, supplivano ampiamenti i poteri istruttori d’ufficio; e dove essi non sanavano ho assistito ad estenuanti tentativi di conciliazione nei quali si includeva sempre e comunque il contributo alle spese per il lavoratore.
Erano tempi in cui i giudici del lavoro esercitavano la consapevolezza dell’insufficienza di un diritto sostanziale a supporto del lavoratore ove l’applicazione giurisprudenziale di esso, nel processo, non fosse stata “sbilanciata” a favore del lavoratore.
Ho assistito poi ad un passaggio generazionale. A mano a mano che i “vecchi” Pretori del lavoro si spostavano verso le Corti, nel naturale avanzamento di carriera, ho incontrato i “nuovi” Giudici del lavoro, più formali, più tecnici, sempre meno disposti all’utilizzo dei poteri officiosi in funzione sanante dei difetti dell’atto introduttivo, sempre più propensi all’applicazione del principio dispositivo.
Mi è parso, quindi, di ritrovare nel processo quel giusto equilibrio tra le parti contrapposte, che deriva necessariamente dall’applicazione al caso concreto del diritto sostanziale, a condizione che esso sia correttamente dedotto e provato.
Tale maggiore rigore di certo ha imposto anche all’Avvocatura del lavoro maggiore accortezza e maggiori oneri difensivi. Ma ritengo abbia anche sensibilmente aiutato la possibilità di percorrere strade definitorie stragiudiziali, dovendo anche l’Avvocato del lavoratore mettere in conto la possibilità di una soccombenza, senza che fosse più scontata la compensazione delle spese processuali di lite.
La questione della regolazione delle spese, infatti, è questione che necessariamente incide sulle valutazioni prognostiche che l’Avvocato è obbligato a formulare al proprio cliente. Le cause di lavoro, se confrontate con la stragrande maggioranza delle cause civili, restano cause “povere”. In applicazione dei parametri l’onorario medio per un giudizio di primo grado si attesta intorno ai cinquemila euro.
Chiaro che, nella prospettazione fatta al cliente, avviso sempre un datore di lavoro che la causa non è mai una strada conveniente, soprattutto quando il riconoscimento di un diritto – di non grande peso economico – potrebbe dipendere dalla soluzione di una questione tecnica non piana.
Il dispendio di energie processuali, e degli avvocati e dei giudici, l’imprevedibilità della decisione, strettamente legata all’imprevedibilità degli esiti istruttori, dovrebbe condurre a preferire una strada conciliativa, soprattutto quando il valore economico della controversia (che non necessariamente è dirittamente proporzionale al valore del diritto preteso) si attesti sulla decina di migliaia di euro.
Preventivare il costo di tre gradi di giudizio, prospettare anche la possibilità concreta di un esito vittorioso ma con compensazione delle spese legali, porre a confronto il costo della gestione stragiudiziale della lite, molto spesso conduce alla convinzione del cliente per la soluzione conciliativa preventiva.
Ciò che consente anche all’Azienda di controllare il costo e il tempo – che nell’impresa può rappresentare esso stesso un costo – della lite.
E questo ritengo sia il miglior modo di esercitare la funzione sociale dell’Avvocato: lasciare cioè al magistrato il ruolo di compositore del conflitto solo in via di extrema ratio.
La prevedibilità delle decisioni, d’altro canto, è però essenziale affinché noi Avvocati possiamo agevolmente dedicarci al ruolo di facilitatori di soluzioni conciliative stragiudiziali, con effetti positivi anche sulla celerità delle decisioni, per effetto della deflazione del contenzioso.
Almeno idealmente la sentenza celere è sempre quella più giusta.
Emblematico mi pare il caso, definito per i più in Cassazione in questo inverno (con qualche strascico primaverile), con numerose ordinanze, affidate a relatori diversi, contro le medesime resistenti: affermato il principio per cui, pur a fronte di formali e distinti datori di lavoro, quando il rapporto è intercorso alle dipendenze di un soggetto unitario, il licenziamento collettivo disposto da un solo datore di lavoro è illegittimo per violazione dei criteri di scelta se la posizione del lavoratore licenziato non è stata adeguatamente raffrontata ai dipendenti di altro formale datore di lavoro, appartenente al medesimo centro unitario di imputazione degli effetti, le decisioni hanno affermato il diritto del lavoratore ad essere reintegrato alle dipendenze non del datore di lavoro formale, bensì di quello effettivo.
Peccato che dell’unitario centro di imputazione degli effetti, nelle more, non esistesse più che “qualche brandello di muro”, come delle case di San Martino del Carso nella lirica di Giuseppe Ungaretti.

 

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