Testo integrale con note e bibliografia

 1. La rivista mi invita, ci invita a proporre qualche riflessione sulla figura del giudice del lavoro, indicando una griglia di argomenti caldi su cui soffermare l’attenzione.
Il dibattito ospitato nel primo numero del 2022 è già molto ampio e co-pre un panorama di opinioni che riflettono le esperienze individuali dei vari protagonisti.
Lungi dal potere esaurire i tanti argomenti proposti mi limiterò ad esa-minarne alcuni secondo un percorso personale e dunque arbitrario, fin dalla scelta dei temi.
Una questione che periodicamente si ripresenta all’attenzione degli ope-ratori, ma ancor prima all’opinione pubblica e su cui la rivista ci invita a riflettere è quella della prevedibilità delle decisioni e quindi, in buona so-stanza, della certezza del diritto.
Dico subito che, ai tempi delle grandi riforme del diritto del lavoro (gli anni settanta), chi scriveva saggi o monografie doveva, per prassi inval-sa, dedicare almeno una noticina alla questione della certezza del diritto, liquidandola in poche battute come un dogma, tardivo lascito del positi-vismo legalistico, non più in linea con le nuove esigenze di giustizia che promanavano dalla società civile.
Confesso di aver peccato anch’io. Più avanti però mi sono reso conto che sul terreno della certezza del diritto si gioca una partita di civiltà. Ricordava Norberto Bobbio che il diritto o è certo o non è diritto. Un diritto non prevedibile lede il principio di eguaglianza, in quanto la dif-formità di decisioni su casi simili implica che due situazioni uguali ven-gano trattate in modo difforme. La certezza del diritto è insomma, per Bobbio, ma anche per altri, il fondamento dell’eguaglianza e della legali-tà.
Possiamo ritenere dunque che per la sensibilità del giurista contempo-raneo (per tacere degli economisti…) una certa prevedibilità delle deci-sioni costituisce un dato acquisito. Semmai ciò su cui è opportuno in-terrogarsi sono piuttosto le cause dell’incertezza e – per il nostro dibattito – l’eventuale possibilità di attribuirne la responsabilità ad una classe giudiziale capricciosa e volubile o, peggio, ispirata surrettiziamente a presupposti ideologici.
Sgombriamo anzitutto il campo dall’aspetto della questione che ha a che fare con il nuovo diritto, quello cioè introdotto ex novo nell’ordinamento. Rispetto ad esso la funzione nomofilattica della Cassazione è in astratto sufficiente ad assicurare una certa prevedibilità delle decisioni, certa-mente al netto di mutamenti di giurisprudenza, che però possono essere risolti con l’intervento delle Sezioni Unite.
Vi sono invece altre situazioni ed altri contesti per i quali esiste una sor-ta di imprevedibilità strutturale. È tale l’imprevedibilità che deriva necessa-riamente dall’applicazione delle clausole o norme generali, con buona pa-ce della legislazione apertamente rancorosa nei confronti dei giudici del lavoro come quella del Collegato (e già prima in alcuni passaggi dei d.lgs. 368/2001 e 276/2003), con cui si è cercato di ancorare le scelte giudiziali, che passano attraverso il richiamo a «clausole generali», ad un controllo di mera legittimità e non di merito dell’esercizio dei poteri da-toriali (un risultato oltretutto da tempo acquisito dalla giurisprudenza).
Chi si occupa professionalmente di diritto (e non solo di diritto del la-voro) sa bene che la missione che si è assunta il legislatore nel 2010, ol-tre che inutile è soprattutto impossibile.
Le clausole generali o i concetti indeterminati o le norme in bianco o le norme generali (il giustificato motivo soggettivo, la giusta causa, il giu-stificato motivo oggettivo, la nozione di licenziamento per riduzione di personale, la causale giustificativa del contratto a termine, etc.), come la buona fede o la correttezza costituiscono indicazioni legislative che rin-viano, a loro volta, ad altri concetti aperti: la fiducia, l’intuitus personae, la produzione, l’organizzazione, l’iniziativa economica. Rispetto ad esse è lo stesso legislatore che ha costruito una sorta di indeterminatezza in-tenzionale, con la volontà di sospendere il giudizio e rinviare la soluzio-ne ad una diversa autorità (quella giudiziale appunto).
Pretendere di imporre pregiudizialmente valutazioni precostituite urta contro il comune buon senso prima che contro la razionalità giuridica. In materia non si può far altro che affidarsi alla tipizzazione giurispru-denziale che, nel tempo, appagherà quelle esigenze di uniformità che consentono, a loro volta, di assicurare una certa prevedibilità della deci-sione e, conseguentemente, la certezza del diritto. Come dire che la me-diazione fra i contrapposti interessi delle parti deve necessariamente es-sere operata sul campo e con riferimento ad una specifica fattispecie.
Esiste poi una seconda specie di imprevedibilità che deriva dal legislato-re stesso, in particolare quando quest’ultimo non ha la forza politica di operare un taglio netto e preciso su una determinata posizione o su un determinato istituto. Esemplare è quanto è avvenuto e sta avvenendo sotto i nostri occhi a seguito delle riforme del 2012 e del 2015 in mate-ria di licenziamenti.
Pensiamo alla questione di costituzionalità innescata, in seno all’art. 18 dello statuto, dall’alternativa lasciata aperta dal legislatore del 1992 fra i verbi servili “può” e “deve” con riferimento all’applicabilità della san-zione della reintegrazione nel caso di licenziamento economico viziato da “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del medesimo.
È a tutti nota la storia interna della riforma. La scelta politica radicale di riconoscere una tutela solo indennitaria nei confronti dei licenziamenti economici illegittimi si scontrò con le proteste di una parte del parla-mento e delle forze sociali. Si decise così una soluzione di compromesso – dovuta come è noto ad un intervento diretto del Presidente del Con-siglio Mario Monti – con cui si riconosceva il diritto alla reintegrazione in casi di illegittimità del recesso al limite della frode, lasciando però al giudice la scelta se applicare, in quei casi, la tutela reale o quella inden-nitaria.
Come si vede qui l’alternativa incerta è innescata da un nodo politico non risolto a monte e non trovo scandaloso che il giudice delle leggi, al-la luce del crisma della ragionevolezza, l’abbia dichiarata incostituziona-le.
Poi c’è un ultimo terreno su cui si gioca la partita fra prevedibilità ed imprevedibilità. Mi riferisco al d.lgs. n. 23 del 2015 che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, che altro non è se non una sostanziale mo-netizzazione delle conseguenze del licenziamento illegittimo, fatte salve ipotesi residuali. Orbene in questo caso il legislatore ha creduto di poter esorcizzare l’imprevedibilità della sanzione economica rispetto al licen-ziamento illegittimo stabilendo delle regole rigide e meccaniche di calco-lo basate esclusivamente sul criterio dell’anzianità di servizio del lavora-tore.
Sennonché preso atto – come un giurista-interprete non può non fare – della volontà legislativa resta il quesito se tale scelta non sia per avven-tura dotata di scarsa ragionevolezza.
La risposta è ovviamente positiva e se ne è fatta carico la Corte costitu-zionale, come è ben noto.
Secondo la Consulta questo meccanicistico tentativo di esorcizzare l’imprevedibilità dei giudizi si scontra proprio contro la ragionevolezza, perché – come dire – vengono trattate nella stessa maniera posizioni completamente diverse: pensiamo in particolare al parametro della giu-sta causa rispetto al quale ci possono essere licenziamenti davvero pre-testuosi, che vengono trattati alla stessa maniera di licenziamenti che si trovano sul crinale fra legittimità e illegittimità. Questa è un’irragionevole disparità di trattamento e trovo che da questo punto di vista, appunto, la Consulta abbia fatto bene a ricostituire un minimo di coerenza complessiva dell’ordinamento.

2. Ci si chiede, ci si è chiesti se per avventura il giudice del lavoro non abbia sviluppato, rispetto alle riforme (almeno) dell’ultimo ventennio, una sorta di resistenza passiva che lo conduce se non a rifiutarle certa-mente ad attenuarne la portata all’apparenza dirompente rispetto al di-ritto del lavoro classico.
Non vi è dubbio che la legislazione lavoristica abbia da tempo mutato il proprio punto di vista, manifestando sempre maggiore attenzione verso le esigenze dell’impresa, considerata fonte di ricchezza (di valore ag-giunto come dicono i dotti) ed agevolandone lo sviluppo nella speranza che tale atteggiamento possa essere foriero di un allargamento dell’iniziativa economica, degli investimenti e quindi dell’occupazione.
Il tema è di estrema delicatezza perché mette in gioco non solo o non tanto il ruolo dei giudici del lavoro e della loro coscienza di sé, quanto soprattutto i delicati processi interpretativi interni ad un universo giuri-dico perennemente in transizione verso un futuro di cui non sono deli-neati con chiarezza i contorni.
Il punto è che il giudice del lavoro si trova proprio all’incrocio tra gli scopi perseguiti dal legislatore (i fini) e le tecniche concretamente utiliz-zate per raggiungerli (i mezzi). E tutti sappiamo che sovente fra mezzi e fini si pone un latente conflitto che il giudice del lavoro deve arbitrare, servendosi degli strumenti che l’ordinamento gli conferisce e fondamen-talmente della leva interpretativa.
In questo contesto sotto accusa si trova spesso il metodo, talvolta ado-perato dai giudici del lavoro, che fa capo al “costituzionalismo”.
L’idea di costituzionalismo ha molte sfaccettature. Si rivolge al legislato-re che può (o deve) promuovere i principi-valori cristallizzati nella Carta fondamentale. Costituisce per converso un limite alla legislazione che viola quei principi. Si prolunga infine sul piano della gestione della sin-gola controversia – ed è questo il punto che ci interessa – proponendo argomenti interpretativi utili per risolvere il singolo caso: si parla allora di interpretazione costituzionalmente orientata.
È questo lo snodo più delicato, perché è indispensabile stabilire un chia-ro regolamento di confini fra il giudice ordinario ed il giudice costitu-zionale. Occorre cioè avere piena consapevolezza del punto oltre il qua-le il giudice ordinario (del lavoro) non può spingersi senza invadere il campo del giudice delle leggi. Se si superano quelle Colonne d’Ercole si sconfina in una vera e propria riscrittura dei dati normativi ad uso e consumo di un’interpretazione preconfezionata e che quindi confonde e sovrappone ruoli e funzioni diversamente preordinati dal sistema.
Il costituzionalismo, per non essere un orpello buono per ogni uso, de-ve essere integrato nel sistema. È quasi superfluo ricordare che i principi della Costituzione non hanno a che fare direttamente con il diritto posi-tivo ma lo vincolano a «valori metalegislativi… a misure di “diritto giu-sto”, a principi regolativi dell’attività di formazione delle leggi e dell’attività giurisprudenziale di sviluppo del diritto positivo per la solu-zione di nuovi problemi di decisione», come scriveva Luigi Mengoni.
Ne deriva che il sistema oggi deve leggersi come un insieme aperto al nuovo senza perdere la memoria del passato, che è cristallizzato nella tavola dei valori costituzionali.
In questa complessa e delicata attività di ricucitura il ruolo del giudice del lavoro è ineliminabile, perché il giudice del lavoro costituisce l’estremo terminale della giustizia ed è un essenziale mediatore sociale.
Un primo terreno di mediazione fra i contrapposti interessi che con-traddistinguono il contratto di lavoro fa capo alla tecnica del bilanciamen-to. Può essere – ragioniamo per amore di ipotesi – che il legislatore ab-bia deciso in modo inequivocabile di spostare in avanti, a favore dell’impresa, la frontiera mobile fra capitale e lavoro. In tal caso il giudi-ce del lavoro non può che prenderne atto e procedere al bilanciamento secondo le nuove indicazioni legislative.
Ma può anche accadere che la conseguenza descritta non sia enucleabile con chiarezza dal diritto positivo ed è in questo contesto che potrebbe farsi strada la tentazione di utilizzare la facile scorciatoia dell’interpretazione costituzionalmente orientata anziché rimettere la decisione alla Corte costituzionale. E sarebbe una tentazione tanto faci-le quanto discutibile. Il suo limite è infatti costituito dalla coerenza della scelta interpretativa con il sistema complessivo del diritto del lavoro, proprio allo scopo di misurare quanta distanza vi sia fra innovazione ri-spettosa del sistema integrato diritto positivo/costituzione e proposi-zione di nuovi modelli normativi difficilmente integrabili in quel siste-ma.
Ancora una volta per esemplificare è utile riferirsi alla disciplina dei li-cenziamenti. Rispetto all’art. 18 dello statuto per ben due volte un giu-dice ordinario si è giustamente rifiutato – sia rispetto all’alternativa san-zionatoria centrata sull’uso dei verbi servili “può” o “deve” sia con rife-rimento alla nozione di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o.” – di utilizzare la facile scorciatoia dell’interpretazione costituzionalmente orientata, come pure da qualche parte si proponeva, ed ha rinviato la questione alla Consulta, con l’esito che tutti conosciamo.

3. Può essere di un qualche interesse concludere queste brevi riflessioni segnalando il solco che si sta progressivamente scavando nell’ambito della cultura giuslavoristica fra una parte della dottrina militante e la giurisprudenza, considerata nel suo insieme e ricomprendendovi anche le alte Corti (nostrane e non). È ovvio che non può parlarsi di un con-flitto dichiarato e conclamato non foss’altro perché la dottrina si può legittimamente occupare di avanzare proposte di riforma della materia, laddove la giurisprudenza è chiamata in causa dalle parti con lo scopo di risolvere specifici conflitti di interessi.
Ciononostante in quest’ultimo ambito si fa strada una tendenza che è più un metodo che una inammissibile presa di posizione per così dire politica. Proviamo a verificare su quali basi sta emergendo la contrap-posizione.
Negli ultimi anni sia fra i giovani giuslavoristi scalpitanti che fra i più navigati capitani di lungo corso si è diffusa l’idea che il sistema giuridico del lavoro debba essere sostenibile. Si parte dalla domanda «cosa può fare il diritto del lavoro per una ripresa sostenibile o per la sostenibilità del valore sociale dell’impresa?» e, attraverso molti passaggi intermedi, si arriva al punto di formulare proposte di riforme complesse ad articolate «per un diritto del lavoro sostenibile».
Il lettore attento coglierà la differenza fra le due opzioni. Con la prima formula si auspica una maggiore collaborazione fra le parti sociali (nella forma della partecipazione e/o del patto fra antagonisti) con l’intento di pervenire all’obiettivo comune di una sostenibilità, per così dire condivi-sa. La seconda declinazione – se mi si passa la brutale semplificazione – ci porta invece di filato verso un conflitto fra economia e diritto nel quale si è già deciso che l’economia debba prevalere sulle regole giuridi-che cioè che il mercato debba prevalere sul diritto.
Il limite di queste operazioni mi è sempre sembrato che sia l’artificiosa contrapposizione che così si ingenera fra una scienza economica asettica ed un diritto del lavoro che gronda di valori. In realtà gli effettivi termi-ni della contrapposizione si pongono fra i valori dell’economia (efficien-za, competitività) ed i valori di cui è portatore il lavoro (solidarietà, giu-stizia distributiva): lo scontro è quindi l’eterno scontro tra efficienza e solidarietà, fra economia e stato sociale.
È ovvio che le scelte politiche dirette a modificare a favore dell’impresa la frontiera mobile fra capitale e lavoro non possono essere contestate in quanto tali. Mi permetto solo di insinuare qualche dubbio sulla loro percorribilità, a partire dal pensiero, non di un seguace un po’ demodée del filosofo di Treviri, ma del padre dello stereotipo della “mano invisi-bile” del mercato (Adam Smith): «i nostri mercanti e i nostri padroni manifatturieri si lamentano molto dei cattivi effetti degli alti salari nell’elevare i prezzi dei loro prodotti e quindi nel diminuirne la vendita all’interno e all’estero, ma non dicono niente dei cattivi effetti degli alti profitti. Tacciono degli effetti perniciosi dei propri guadagni e si lamen-tano solo dei guadagni altrui».
Il grande economista è quindi consapevole del carattere non neutrale degli enunciati della scienza economica (come del resto hanno fatto i giuslavoristi a partire dalla spietata analisi di Giovanni Tarello), tanto da instillare qualche dubbio sulla ineccepibilità del comportamento dell’homo oeconomicus, conducendo ad accrescere il convincimento secon-do cui un ordinamento ben oliato pone al proprio centro le regole e dunque pone al centro il diritto come ordinatore e mediatore sociale.
Su tutt’altro versante mi pare si collochino le tendenze più recenti della giurisprudenza: in questo diverso ambito all’idea di sostenibilità si con-trappone quella di ragionevolezza, una ragionevolezza che invade spazi sempre più ampi, talvolta anche praeter legem.
Pensiamo, fra i tanti esempi possibili, all’impulso dato dalla Corte di Giustizia UE che ha sanzionato l’omessa previsione, nell’ordinamento italiano, di “soluzioni ragionevoli” dirette a facilitare il lavoro dei disabili e che ha costretto il patrio legislatore ad intervenire con una disposizio-ne specifica (il d.lgs. 28 giugno 2013, n. 76, che ha introdotto il comma 3-bis all’art. 3 del d.lgs. 216/2003, con cui, allo scopo di garantire la pa-rità di trattamento delle persone disabili, si è imposto ai datori di lavoro per l’appunto di «adottare accomodamenti ragionevoli» nei luoghi di lavoro), allargando così gli spazi di interlocuzione del giudice del lavoro, con il potere di soppesare, nel merito, l’onerosità delle varie scelte organizza-tive datoriali ed escludendo solo quelle troppo onerose (in tema v. ad es.: Cass., 9 marzo 2021, n. 6497).
Pensiamo ancora all’impiego del criterio della ragionevolezza che si af-faccia talvolta nella verifica della legittimità dei licenziamenti economici.
E pensiamo soprattutto alla giurisprudenza costituzionale sulle riforme in materia di licenziamento degli anni 2012/2015. Il conflitto fra soste-nibilità, che fa proprie le ragioni dell’economia, e ragionevolezza, che fa propria la prospettiva regolatioria del diritto del lavoro, è bene esempli-ficato dai criteri di monetizzazione dell’indennizzo dovuto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nel regime delle “tutele crescenti”. È questo il punto-chiave della disciplina del d.lgs. 23/2015, in particolare avendo riguardo all’idea di fondo di determinare a priori con aritmetica precisione quale debba essere il costo di un licenziamento illegittimo per l’impresa, rendendo il licenziamento un’entità “calcolabile”, alla stregua di quella linea di pensiero che, come abbiamo visto, ritiene che i diritti possano essere oggetto di valutazione in termini economici.
In realtà, se ben si guarda, l’incertezza che la legge intende esorcizzare non è tanto relativa all’entità della sanzione quanto piuttosto quella in ordine al controllo sulla giustificazione. È ovvio che un datore di lavoro pro-bo e rispettoso dei parametri che l’ordinamento costruisce per poter de-finire giustificato un licenziamento non dovrebbe avere nulla da temere dall’entità di una sanzione economica, posto che il costo di un licenzia-mento giustificato è pari a zero. Peccheremmo di ingenuità a ragionare così; fra il dire ed il fare ci sono di mezzo le variabili interpretative con-nesse con la valutazione giudiziale delle ragioni del recesso. Come dire: dato che la condanna in caso di impugnazione del licenziamento (di un qualsiasi licenziamento) è quasi certa è preferibile, come male minore, che il datore conosca ex ante il costo della condanna.
È evidente l’eterogenesi dei fini al fondo del ragionamento. Si propone infatti uno scambio fra i poteri valutativi del giudice intorno alla giusti-ficazione e l’apparato sanzionatorio standardizzato, cercando di disinne-scare i primi attraverso il secondo, con il presumibile e paradossale ef-fetto di fornire al giudice del lavoro un incentivo (o un alibi) alla dere-sponsabilizzazione.
Il limite – uno dei più rilevanti limiti – della sanzione forfetizzata nei confronti dei licenziamenti ingiustificati è quello di trattare allo stesso modo atti di recesso datoriale profondamente distanti fra loro, come sono quelli sorretti da giustificazioni soggettive, da una parte, e giustifi-cazioni oggettive, dall’altra. Tale semplice rilievo non solo vale a scardi-nare una critica che appare pressoché esclusivamente rivolta nei con-fronti del controllo sulle scelte imprenditoriali, ma soprattutto a ricon-durre la questione nel suo giusto alveo, che è, e non può non essere, la dimensione negoziale dell’esercizio del potere unilaterale di recesso.
Si tratta di anfibologie e contraddizioni che la Corte costituzionale (con la nota sentenza n. 194 del 2018) ha ben posto in luce, a partire dal ri-lievo secondo cui il licenziamento è una vicenda che coinvolge la perso-na del lavoratore e di questa realtà, per così dire, “personalizzata”, non può non tener conto l’interprete, quale che sia il presupposto, oggettivo o soggettivo, della giustificazione del recesso. E per converso, ritengono i giudici della Consulta, «la previsione di una misura risarcitoria unifor-me, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei li-cenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omo-logazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse». In sostanza la personalizzazione del danno rispetto alla specifica vicenda che è all’attenzione del giudice del lavoro, costitui-sce un’ineliminabile esigenza imposta dal rispetto del principio di egua-glianza, in un contesto in cui il giudice ha il compito di riequilibrare la rottura dell’assetto contrattuale, sia pure dovendo tener conto dei limiti (minimi e massimi) segnati dal legislatore.
Come dire che sanzione e giustificazione si pongono in corrispondenza biunivoca, così che l’ordinamento deve poter assicurare una congrua ri-sposta giuridica alla “giustezza” della rottura dell’equilibrio negoziale. In tal modo il tema della deterrenza o della dissuasività della sanzione esce fuori dal limbo dell’indistinto, in cui lo confinava una valutazione astrat-ta sulla base di parametri univoci e immodificabili, per assumere una dimensione più legata alla specificità del caso.
Concludendo: non vi è dubbio che la giurisprudenza (anche quella costi-tuzionale) nel procedimento interpretativo debba aver presente e valo-rizzare la ratio normativa e le finalità che il legislatore si è proposto va-rando questa o quella riforma. Ma è altrettanto indiscutibile che tale va-lorizzazione debba essere filtrata attraverso una necessaria verifica degli strumenti utilizzati per perseguire il risultato voluto. In sostanza non è sufficiente far capo al fine che il legislatore si proponeva, ma è indispen-sabile, nel processo interpretativo-ricostruttivo, confrontare quel fine con il mezzo, volta a volta, utilizzato.
Ed è a questo punto della ricognizione che si inserisce il processo di ve-rifica della congruenza/conseguenzialità del mezzo al fine proposto, condotto al lume del principio di ragionevolezza. Certo – si dirà – il riscon-tro di ragionevolezza è il più “politico” dei riscontri, ma esso esprime quel tanto di valutativo che consente alla Corte costituzionale di essere un giudice sui generis, in quanto giudice delle leggi. Un giudice cioè il cui oggetto di interesse è proprio la compatibilità della specifica disciplina con una tavola di valori ad essa esterna e di cui la Corte stessa è il ga-rante.
Non a caso anche gli osservatori più critici della recente giurisprudenza costituzionale in materia di licenziamenti non possono fare a meno di segnalare la necessità di manutenzione e fors’anche di correzione degli interventi degli anni 2012/2015.
È proprio questo il punto: il senso delle decisioni della Consulta sui provvedimenti in materia di licenziamento sta tutto nel segnalare al de-cisore politico che si possono fare tutte le riforme che si vogliono, ma che il loro tessuto interno deve essere coerente con le finalità divisate: è questo il succo del controllo di ragionevolezza.

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