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Nel panorama giuridico non esistono analisi e indagini statistiche sulle sentenze della sezione lavoro della Cassazione che aiutino a comprendere in modo sistematico chi vi ricorra e con quali risultati. Abbiamo cercato di scoprire con mezzi assolutamente artigianali, nel tentativo di comprenderne gli indirizzi e avere un aiuto nelle nostre attività professionali.
I nostri strumenti d’indagine sono assai modesti ma, con un po’ di fantasia, e molta buona volontà e curiosità, abbiamo cercato di rimediare a questa debolezza.
Abbiamo analizzato le sentenze pubblicate dalla sezione lavoro della Cassazione , sul suo interessante e pregevole sito web, per un totale di quindici giorni. I critici subito diranno: troppo pochi. Sicuramente hanno ragione. Avremmo voluto far di più, ma l’impegno è notevole e richiede risorse e tempi non sempre disponibili. Per il momento abbiamo analizzato questi quindici giorni, presi a campione, in un arco temporale che va dal mese di settembre 2018 a gennaio 2019. Le sentenze analizzate sono state in totale 276. Sicuramente poche se rapportate a un intero anno. Non abbiamo considerato quelle estinte o abbandonate.
In futuro, nulla esclude che questa ricerca possa essere affinata, prendendo in esame un campione molto più largo. Potremmo dividere questo lavoro e assegnarlo a collaboratori di buona volontà, con una distribuzione programmata delle sentenze e dei giorni da esaminare.
Pur nei suoi naturali e riconosciuti limiti, quest’indagine offre comunque degli utili elementi di conoscenza che porgiamo all’esame e alla riflessione benevola di tutti coloro che hanno a cuore il diritto del lavoro e l’amministrazione della giustizia.
L’indagine, ovviamente, ha a oggetto le cause dei rapporti di lavoro privato e quelli di diritto pubblico. Abbiamo escluso le cause previdenziali perché non erano pertinenti alla specifica curiosità del nostro lavoro.
I numeri assoluti li abbiamo tramutati in percentuali. Le percentuali sono quelle che vi riportiamo con i grafici finali per una più immediata lettura.
Il risultato della nostra indagine è così sintetizzabile.
1) A proporre il ricorso principale in Cassazione in maggioranza sono i lavoratori con il 59,05% contro il 40,95 dei datori di lavoro. Il ricorso incidentale è proposto nella percentuale del 5,79%. I lavoratori sono coloro che lamentano in maggioranza la erroneità delle sentenze delle Corti di Appello e confidano nella loro riforma rivolgendosi alla Corte di Cassazione , ultima istanza delle loro aspettative.
2) I lavoratori, pur essendo coloro i quali promuovono il maggior numero di ricorsi, vincono solo nella misura del 22,69%. Meno di un quarto dei loro ricorsi. I datori di lavoro, quando agiscono in via principale, vincono, invece, nella misura del 31,85%.
3) I lavoratori, vincono, complessivamente, tra ricorsi promossi e ricorsi subiti, nella misura del 38,33 e i datori di lavoro nella misura del 61,66. Questo risultato finale è inequivocabilmente a favore del soggetto forte del rapporto di lavoro. Sicuramente le condizioni economiche dei datori di lavoro garantiscono migliori difese tecniche e risultati.
4) Il fatturato lordo interno della liquidazione delle spese si divide nella misura del 38,47 % a favore degli avvocati dei lavoratori e nella misura del 61,53% a favore degli avvocati delle aziende. Il dato statistico è omogeneo alla proporzione tra cause vinte e cause perse tra i 2 contrapposti soggetti protagonisti. Il dato statistico è stato tratto dal totale delle somme liquidate dalla Corte, divise dal totale parziale riconosciuto a ciascuna delle parti (parte datoriale e parte lavoratore). I lavoratori, anche la semplice domestica, hanno lasciato sul campo mesi e mesi di retribuzione per pagare l’avvocato del datore di lavoro.
5) Il 41,25% del totale delle cause decise presenta motivi di inammissibilità, totale o parziale, investendo il merito della controversia o essendo privi di autosufficienza. I ricorsi totalmente inammissibili sono pari al 19,16% (ricorsi che hanno già superato la sezione filtro). I ricorsi dichiarati totalmente inammissibili promossi dai lavoratori sono pari al 20,8%, mentre i ricorsi dichiarati totalmente inammissibili presentati dai datori di lavoro sono pari al 10,6%. In generale, tra tutti i ricorsi, quelli dichiarati totalmente inammissibili colpiscono maggiormente quelli dei lavoratori. Il dato statistico va letto certamente come insufficienza difensiva dei lavoratori che non sanno usare in modo corretto lo strumento processuale avanti la Corte di Cassazione . I datori di lavoro appaiono essere più bravi rispetto ai lavoratori, perché si muovono meglio tra i principi dell’autosufficienza e i motivi che coinvolgono il merito della controversia, gestendoli con maggiore sapienza.
6) Le spese processuali a favore della parte vittoriosa sono state liquidate dalla Cassazione meccanicamente, con la sola e mera soccombenza. Le spese sono state compensate solo nei casi di mancata costituzione della parte intimata rimasta vittoriosa o di reciproca soccombenza per il rigetto sia del ricorso principale e del ricorso incidentale.
Solo in un caso le spese di lite sono state compensate per la complessità delle questioni giuridiche sottoposte all'esame della Corte. Si tratta della sentenza n. 274/2019. Mai nelle sentenze esaminate la Corte ha fatto richiamo ai principi affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 77 del 2018. L’impressione generale che si ricava dall’esame delle sentenze della Cassazione è la totale irrilevanza dei principi affermati dalla richiamata sentenza della Corte Costituzionale.
7) Le cause decise con rinvio rappresentano la percentuale del 22,91%. La Cassazione non ha mai deciso una sola controversia nel merito, perché, in caso di riforma della sentenza impugnata, ha sempre rimandato la decisione finale al giudice del rinvio, in ogni caso.
8) A ogni sentenza di rigetto, sia del ricorso principale che del ricorso incidentale, è sempre conseguita la condanna al pagamento del doppio contributo di iscrizione a ruolo. Questo doppio contributo è subito dai lavoratori che lo devono pagare nel 77,31% dei ricorsi da loro promossi. Considerato, inoltre, il valore medio di euro 1.518,00 del costo di iscrizione a ruolo (più dello stipendio medio di un operaio metalmeccanico specializzato), il sacrificio economico per ricorrere in Cassazione non è indifferente. Occorre rischiare quasi tre mesi di retribuzione media.
L’indagine eseguita non ha la pretesa di essere scientifica e di fornire dati certi, ma il sia pur modesto e parziale scoperchiamento di questo vaso di Pandora può offrire utili spunti di riflessione. Sicuramente fa porre degli interrogativi, almeno sui seguenti punti:
1) Necessità di una maggiore professionalità e maestria da parte degli avvocati che agiscono in Cassazione . Avere il 42% delle cause viziate da motivi inammissibili deve indurre a riflettere seriamente sulle modalità di redazione degli atti.
2) Eliminazione dei tecnicismi processuali che, con il richiamo ai principi dell'autosufficienza dell'atto, determinano tante volte il rigetto di ricorsi principali o incidentali, che, invece, potrebbero essere positivamente esaminati e accolti, rendendo effettiva giustizia.
3) Riflessione sulla condanna da parte della Cassazione al pagamento delle spese processuali contro la parte ontologicamente debole del rapporto di lavoro anche dopo la pronuncia della sentenza della Corte Costituzionale n. 77/2018. Solo in un caso la Cassazione ha compensato le spese processuali per motivi legati alla complessità della questione giuridica trattata (Cass. n. 247/2019). In tutti gli altri casi ha condannato la parte soccombente, applicando meccanicamente il principio della mera soccombenza. Con questo criterio si ha il sospetto che si voglia colpire economicamente chi perde per scoraggiare la proposizione dei ricorsi in Cassazione . In questa prospettiva, a essere maggiormente colpito, ovviamente, sarà il soggetto economicamente più debole. Se così fosse, avremmo la violazione dei principi costituzionali del giusto processo (art. 111 Cost.) e dell’accesso alla giustizia (art. 24 Cost.). Non si può non tener conto dello squilibrio della forza economica dei due contendenti in campo. Forse sarebbe opportuno che il legislatore ripristinasse la vecchia formulazione dell’art. 92 cpc, ante riforma del 2005, cancellando anche i successivi interventi modificativi della norma. Trattare in modo uguale chi uguale non è, significa sicuramente consumare un’ingiustizia.

 

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