Testo Integrale con note e bibliografia

Sommario:
1. I rapporti di lavoro con le imprese pubbliche: un fenomeno ambiguo di difficile classificazione. – 2. Dal binomio diritto privato/diritto pubblico al binomio diritto comune/diritto speciale. – 3. Il regime misto privato/pubblico e la “naturale” tendenza espansiva del diritto speciale. – 4. La tecnica della preliminare della (ri)qualificazione della natura del datore di lavoro. 4.1. (segue) Le imprese pubbliche e le prassi “più realiste del re”. – 5. La tecnica dell’applicazione analogica del diritto speciale (e un’ipotesi di lavoro da approfondire).

1. I rapporti di lavoro con le imprese pubbliche: un fenomeno ambiguo di difficile classificazione.
L’intervento pubblico nell’economia detiene un ruolo rilevante in Italia, perciò il tema dei modelli organizzativi d’impresa attraverso i quali esso si realizza è sempre stato scottante . La disciplina dei rapporti di lavoro nelle imprese pubbliche non fa eccezione; anzi, l’analisi dei suoi contenuti e delle sue caratteristiche ha rappresentato in passato un esercizio utile a comprendere meglio il fenomeno stesso dell’impresa pubblica tout court .
Quando si dice che il tema del rapporto di lavoro con l’impresa pubblica è scottante non si allude ad una sua trattazione particolarmente diffusa da parte dei giuristi: se la dottrina ha speso energie importanti nello studio dei due poli opposti rappresentati dal lavoro nell’impresa privata e dal lavoro con la pubblica amministrazione (ovvero con quegli enti pubblici che non svolgono attività d’impresa), le questioni poste dai rapporti lavorativi che si svolgono nella terra di mezzo rappresentata dai vari modelli di impresa pubblica sono semmai di nicchia o, quantomeno, risultano note a (e scandagliate da) settori non ampi della dottrina . Questa circostanza è confermata anche dalle scelte tematiche dei più diffusi manuali di diritto del lavoro: quasi tutti riservano una loro parte al lavoro nella pubblica amministrazione, nessuno, invece, accenna alla disciplina del lavoro nelle imprese pubbliche, se non in termini di mero rinvio. Eppure le problematiche emergenti quando si guarda ai fenomeni lavoristici nell’impresa pubblica sono del tutto peculiari, rappresentando un ostacolo concreto per gli operatori del diritto che si trovano ad affrontare il tema a partire dai casi pratici di rilievo lavoristico – quantitativamente non irrilevanti – e offrendo perciò un’occasione piuttosto allettante per comprendere meglio i meccanismi di funzionamento del sistema giuridico al confine fra privato e pubblico.
Innanzitutto è opportuno chiarire i termini teorici del problema. L’intervento pubblico nell’economia, nella forma dell’impresa, pone problemi giuridici concreti anche perché la diffusa forma mentis degli interpreti impegnati ad analizzare il fenomeno è contraddistinta dall’alternativa secca pubblico/privato , un binomio totalizzante che caratterizza da sempre anche la formazione dei giuristi e la produzione legislativa. Essa, fra le altre cose, favorisce una separazione netta fra ciò che attiene alla sfera pubblica – in quanto inerisce la soddisfazione di interessi generali – e ciò che riguarda la sfera privata, perché riguarda il perseguimento di interessi individuali o di gruppo, come il lucro. Questa logica binaria, ovviamente, caratterizza anche la cultura dei giuslavoristi. Ebbene, in questo contesto culturale, l’intervento pubblico nell’economia nella forma d’impresa rappresenta un fenomeno ambiguo e ambivalente, dunque problematico. Ciò perché esso consiste nell’esercizio di un’attività tipicamente afferente alla sfera privatistica, come è l’attività economica finalizzata alla raccolta e alla divisione degli utili, la quale è svolta però da un ente pubblico istituito per perseguire, in vario modo, interessi generali potenzialmente confliggenti con quelli individuali o di specifici gruppi sociali. In pratica, di fronte ad un fenomeno di tal fatta si fronteggiano i due grandi universi del diritto privato e di quello pubblico, e dunque, le loro rationes e i loro regimi, a volte incompatibili e spesso non facilmente sovrapponibili. Nell’ambito del diritto del lavoro, il problema del rapporto fra regole di diritto pubblico e regole di diritto privato emerge sotto numerosissimi profili, ma il culmine è rappresentato dall’applicazione (o meno) delle ipotesi legali di trasformazione/conversione giudiziale dei contratti di lavoro “non standard” invalidi stipulati con imprese pubbliche, ovvero con datori di lavoro che devono fare i conti, invero in modo e in misura diversa, con i limiti posti all’esercizio della libertà di reclutamento, in virtù dell’art. 97 Cost. e/o di leggi ordinarie attuative del principio costituzionale (cfr. infra §§ 4 e 5).
Non è facile venire a capo delle numerose questioni enucleabili, soprattutto se l’analisi rimane confinata entro il perimetro della materia lavoristica. Ad avviso di chi scrive, infatti, per raggiungere soluzioni coerenti in questo ambito, è necessario coltivare un approccio interdisciplinare che favorisca un più profondo dialogo con (almeno) un altro ramo dell’ordinamento “assillato”, per antonomasia, dal problema dello storico binomio pubblico/privato: il diritto amministrativo (ma anche quello commerciale).
Con il presente scritto, pur rinviando ad altre sedi per una più approfondita analisi , si intende allora rispondere alle seguenti domande: 1) in che misura e in che modo il nostro ordinamento, almeno sotto il profilo lavoristico, risponde alla risalente tendenza culturale di descrivere la realtà alla luce del binomio pubblico/privato? 2) Quale regime normativo è applicabile ai diversi modelli di impresa pubblica? 3) La dottrina e la giurisprudenza tendono, di fronte al fenomeno dell’impresa pubblica, a privilegiare la sua dimensione privatistica o quella pubblicistica? Come e perché?
Si vuole, in questo modo, evidenziare e spiegare sia l’esistenza di una propensione – a volte presentata, con troppa enfasi, come inevitabile – ad estendere l’applicazione di alcune regole di diritto pubblico del lavoro oltre i confini che il diritto positivo disegna, a nostro avviso, molto chiaramente, sia l’esigenza di un intervento del legislatore teso a sciogliere nodi altrimenti difficili da sbrogliare.

2. Dal binomio diritto privato/diritto pubblico al binomio diritto comune/diritto speciale.
Non è possibile svolgere, in questa sede, un excursus completo sulla storia e sul significato del binomio pubblico/privato nel diritto . Possiamo, però, limitarci ad evidenziare che una parte importante della dottrina innanzitutto amministrativistica, approfondendo la questione della natura (pubblica o privata) delle persone giuridiche, ha evidenziato come “alle certezze delle letture dicotomiche si sostituisce la continua e sempre mutevole ricostruzione di istituti a geometria variabile” . A questa presa di coscienza, dovuta in primo luogo all’analisi del diritto positivo e, in particolare, del concreto variegato atteggiarsi dell’intervento pubblico in economia, si accompagna, più in generale, la netta “sensazione” che lo sguardo binario sul mondo del diritto sia insoddisfacente, anche solo sul piano descrittivo, e in via di superamento . Tuttavia, questa “percezione” non sembra per il momento aver influenzato in radice l’approccio dei giuristi al problema, ovvero quella forma mentis degli interpreti (e del legislatore) cui abbiamo accennato supra: ancora oggi, infatti, la questione del rapporto fra pubblico e privato assume una valenza ideologica importante che favorisce la polarizzazione delle posizioni degli interpreti: la logica dominante del libero mercato pone l’interesse privato e il diritto che ne tutela il soddisfacimento in una posizione di tendenziale primazia, a scapito, secondo le letture più critiche del liberismo mainstream, dell’interesse generale e della tutela dei beni comuni . La portata ideologica (e quindi culturale) della dicotomia pubblico/privato, come è naturale, influenza l’interpretazione del diritto positivo e, in certi casi, addirittura, sopravanza la lettera della legge (peraltro non sempre sufficientemente chiara in questo ambito) conducendo a delle conclusioni a volte discutibili.
In ogni caso, come si è anticipato, il diritto italiano offre, almeno sotto il piano formale, delle indicazioni generali sufficientemente univoche. Se guardiamo, in particolare, alle regole (contenute nel nostro codice civile e al di fuori di esso) che governano i rapporti fra discipline privatistiche e pubblicistiche nel settore del diritto del lavoro, possiamo trarre dei dati chiari che dovrebbero agevolare la soluzione delle questioni concrete poste dal fenomeno dell’impresa pubblica. Il nostro ordinamento, in particolare, considera sia la natura del datore di lavoro sia l’attività da esso svolta e, alla luce di queste due variabili, “dosa” l’intervento normativo privatistico e quello pubblicistico seguendo la logica del rinvio, più o meno esteso per l’appunto, ad una disciplina speciale, nonché del rinvio suppletivo al diritto codicistico (o a quello extracodicistico) dedicato alle persone e alle imprese private. Abbiamo così un diritto privato sempre applicabile (il diritto comune), a meno che non sia derogato da regole di diritto pubblico (diritto speciale/derogatorio). Riscontriamo questo schema di “governo” del regime normativo in relazione agli enti pubblici che svolgono l’attività della pubblica amministrazione, agli enti pubblici che svolgono attività economica (gli enti pubblici economici), nonché alle società private controllate da enti pubblici (“società pubbliche”).
Seguendo un ordine crescente rispetto alla misura e alla rilevanza delle deroghe al diritto comune effettivamente previste dal legislatore, alla luce della disciplina attualmente vigente, possiamo riassumere che:
1) ai rapporti di lavoro instaurati con enti pubblici economici si applicano in via suppletiva le disposizioni del Libro V del Codice civile (ai sensi dell’art. 2093), le disposizioni dello statuto dei lavoratori (art. 37) e del rito processuale speciale (art. 409 n. 4 c.p.c.), nonché l’intera disciplina extracodicistica del lavoro applicabile alle imprese private, di regola richiamata dalle leggi e/o regolamenti e/o statuti istitutivi di ogni ente pubblico economico; sono però fatte salve – ex art. 2093 comma 3 cod. civ. - le norme speciali/derogatorie espressamente previste dal legislatore. Attualmente tali norme speciali non sono numerose e sono difficilmente reperibili perché non sono mai state sistematizzate e hanno spesso un campo d’applicazione molto limitato, ovvero relativo ad un singolo ente pubblico economico . Agli enti pubblici economici, dunque, si applica la più ampia parte del diritto del lavoro privato .
2) ai rapporti di lavoro instaurati con le “società pubbliche” si applicano “le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato” (art. 1 comma 3 d.lgs. n. 175/2016) e, in particolare, le disposizioni del capo I, titolo II, del Libro V del Codice civile (artt. da 2082 a 2134 cod. civ.), le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali e i contratti collettivi (art. 19 comma 1 d.lgs. n. 175/2016); anche in questo caso, viene fatto salvo quanto previsto dallo stesso d.lgs. n. 175/2016 e da altre leggi speciali ivi espressamente richiamate. In sostanza, la disciplina speciale è stata riordinata con il c.d. testo unico del 2016 perché si presentava sempre più estesa e caotica. Il grado di specialità, infatti, è decisamente più alto del caso precedente, come dimostrano, in ambito lavoristico, i limiti posti alla libertà di reclutamento (art. 19 e, fino al 30 giugno 2018, art. 25) o quelli relativi alla retribuzione (art. 11 comma 6), già previsti in altre discipline ora abrogate.
3) ai rapporti di lavoro instaurati con la pubblica amministrazione tout court si applicano, ai sensi dell’art. 2129 c.c., le disposizioni della sez. III capo I titolo II del Libro V (artt. da 2096 a 2128 c.c.) “salvo che il rapporto sia diversamente regolato dalla legge” e, ai sensi del “rinvio indietro” contenuto nel d.lgs. n. 165/2001, b) le “disposizioni del capo I, titolo II, del Libro V del codice civile [artt. da 2082 a 2134] e (..)le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa” (art. 2 comma 2 del d.lgs. n. 165/2001); anche in questo secondo caso, ovviamente, sono fatte salve le discipline speciali contenute nello stesso decreto legislativo e in qualunque altra fonte di legge speciale che abbia il medesimo campo di applicazione. In questo caso il grado di specialità è quello massimo, incidendo su quasi tutti i tipici poteri datoriali: dal reclutamento, allo svolgimento del rapporto (si pensi allo ius variandi disciplinato dall’art. 52 d.lgs. 165/2001), alla cessazione del rapporto (si pensi alla disciplina rimediale in caso di recesso datoriale illegittimo prevista ora all’art. 63 comma 2 d.lgs. 165/2001), fino alla disciplina in materia di lavoro non standard (artt. 7 e 36 d.lgs. 165/2001) .
Questo quadro sinottico, innanzitutto, dimostra che, sul piano formale, il c.d. diritto privato conserva ancora oggi pienamente il ruolo di diritto c.d. comune, mentre il diritto pubblico assume le funzioni di diritto speciale/derogatorio e, inoltre, che l’ampiezza (o meno) delle deroghe al diritto privato, non autorizza a disconoscere questa impostazione di fondo, a prescindere dalla tendenza culturale a tenere separati l’universo privatistico da quello pubblicistico . Questa ricostruzione implica, in definitiva, una concezione del diritto pubblico “come sovrastruttura mobile dell’ordinamento giuridico” e una visione del diritto privato come “un fondamento difficilmente mutabile” , anche quando è ridotto a sfondo di una disciplina speciale invasiva. In sostanza, essa prefigura un diritto privato comune a tutti i soggetti e fenomeni e un diritto pubblico che è tale in quanto si differenzia dalla disciplina comune in virtù del perseguimento di un interesse pubblico/generale che, in mancanza della deroga, sarebbe travolto dal soddisfacimento degli interessi individuali o di gruppo, nel caso contrastanti e inconciliabili .
In secondo luogo, il quadro sinottico evidenzia una situazione in qualche misura contraddittoria: se, come è nella logica delle cose, la disciplina speciale del lavoro nella pubblica amministrazione deroga il diritto comune con la massima estensione riscontrata, viceversa la normativa speciale applicabile al lavoro nelle società pubbliche prevede delle deroghe al diritto privato ben più rilevanti di quelle applicate agli enti pubblici economici. Quindi questi ultimi, pur non avendo natura privata, a differenza delle società, sono concretamente soggetti ad un regime lavoristico molto più simile a quello di una impresa privata . Questo tratto singolare, per certi versi contraddittorio, è probabilmente dovuto al fatto che, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secondo scorso, il legislatore ha rivolto la propria attenzione verso il modello di impresa pubblica dominante, quello della società controllata, ignorando le esigenze di regolazione dei declinanti enti pubblici economici. Tuttavia, la singolarità evidenziata merita di essere affrontata anche de iure condendo: gli enti pubblici economici, infatti, anche se nel recente passato sono stati in buona parte sostituiti da società pubbliche, non sono mai scomparsi, sono diffusi soprattutto a livello locale e, oggi, vedono interrompere la loro tendenza declinante , in parallelo con l’esaurimento della parabola ascendente conosciuta dalle società pubbliche , rendendo più urgente un adeguato intervento del legislatore .

3. Il regime misto privato/pubblico e la “naturale” tendenza espansiva del diritto speciale.
Il nostro ordinamento lavoristico, per ciò che si è detto nel paragrafo precedente, autorizza espressamente a declinare il binomio teorico privato/pubblico nell’alternativa diritto comune-suppletivo/diritto speciale-derogatorio. Fra i vari effetti che questa ricostruzione produce, almeno uno assume una valenza potenzialmente positiva: il sistema normativo, così delineato, dovrebbe infatti presentare l’evidente vantaggio di essere autosufficiente, perché dovrebbe tendere a colmare le lacune grazie alla funzione suppletiva del diritto comune.
Le cose, come è noto, non sono sempre così semplici e lineari. Anche se la costruzione del sistema nel senso più sopra descritto è accolta dai più, come abbiamo anticipato, non è raro riscontrare la tendenza – sia in dottrina che in giurisprudenza o addirittura guardando alla prassi degli operatori economici medesimi – di applicare ai casi concreti di rilievo lavoristico norme di diritto speciale/pubblico, anche in mancanza di una esplicita disciplina che deroghi al diritto comune. Difficilmente, invece, si osserva il fenomeno opposto.
Ciò, però, non accade di solito in virtù di una arbitraria applicazione estensiva del diritto speciale. Anche se queste scelte esegetiche, possono muovere, come è naturale, da opzioni ideologicamente connotate – peraltro in senso, di volta in volta, diverso –, esse si fondano, nella maggior parte dei casi, su due argomenti principali.
Il primo argomento riguarda l’analisi preliminare della natura dei soggetti coinvolti nei rapporti di specie – nel nostro caso, in particolare, del datore di lavoro – da cui dipende il problema conseguente della individuazione della norma applicabile. Attraverso la riqualificazione soggettiva l’interprete risolve una questione “in favore” del diritto speciale.
Il secondo argomento viene speso quando una norma di diritto comune, non espressamente derogata, risulta di incerta o irragionevole applicazione in conseguenza della applicazione di un’altra norma speciale inerente a un profilo diverso della vicenda concreta, ma evidentemente ad esso sistematicamente collegato. In sostanza, in questo secondo caso, l’estensione del diritto speciale è una possibile conseguenza del mixage che si verifica quando il legislatore speciale, invece di formare un regime giuridico speciale tendenzialmente autosufficiente e dunque completamente sostitutivo del diritto comune , sceglie di disciplinare solo certi profili di un rapporto giuridico, lasciando al diritto comune il compito di svolgere la sua funzione suppletiva prevista dalle regole generali che abbiamo visto supra.

4. La tecnica della preliminare (ri)qualificazione della natura del datore di lavoro.
Consideriamo ora il primo argomento spesso adoperato per giustificare l’applicazione, non scontata, di una norma speciale a scapito del diritto comune.
Abbiamo già notato che il particolare regime giuridico applicabile ad un rapporto di lavoro si individua in dipendenza – oltre che del tipo di attività esercitata (economica o non economica) – della “natura” pubblica o privata del datore di lavoro .
Nonostante il progressivo avvicinamento dei poli opposti rappresentati dal lavoro nella pubblica amministrazione e dal lavoro nell’impresa privata, la qualificazione del(la natura del) datore di lavoro è ancora oggi un momento determinante ai fini dell’applicazione o meno di una regola o di un istituto, e ciò malgrado la dicotomia pubblico/privato applicata alla natura degli enti sia in grave crisi, come insegnano in primis gli amministrativisti . Pertanto, il più delle volte, l’oggetto del contendere in causa non è, di per sé, l’applicazione di una disciplina speciale al posto di una norma di diritto comune, quanto la natura pubblica o privata del datore di lavoro – o il fatto di svolgere o meno un’attività economica/imprenditoriale.
Se la questione della natura giuridica di un ente è complessa e, come abbiamo detto, sostanzialmente irrisolta, in ambito lavoristico è stata, in parte, sdrammatizzata. In primo luogo, in virtù dell’art. 1 comma 2 d.lgs. 165/2001 che ha fissato esplicitamente l’ambito di applicazione della disciplina speciale, definendo, ai propri medesimi fini, il perimetro della categoria “pubblica amministrazione” coinvolta dall’intervento legislativo ; in secondo luogo, la soluzione della questione è agevolata dal “testo unico” in materia di società partecipate da enti pubblici (d.lgs. 175/2016), che ha chiarito alcuni profili problematici legati al modello d’impresa pubblica rappresentato dalla società controllata, in particolare – per quel che riguarda la questione che stiamo trattando – riconducendo nell’alveo delle altre società controllate anche quelle particolari società, c.d. in house providing (cfr. art. 16) , considerate una longa manus della pubblica amministrazione e per questo, in passato, assoggettate, forse un po’ frettolosamente, al regime pubblicistico tout court .
Tuttavia il benefico effetto chiarificatore dei succitati interventi legislativi non ha certo sciolto tutti i nodi , perché fra i poli opposti rappresentati dal datore di lavoro pubblico o privato tout court, si collocano altre forme giuridiche che complicano l’operazione di qualificazione.
Si pensi alla categoria dell’organismo di diritto pubblico, creata dalla giurisprudenza europea , o a quella, cui abbiamo già fatto cenno più volte, dell’ente pubblico economico che, per espressa previsione legislativa, non ricade nell’ambito di applicazione del d.lgs. 165/2001 , per via del tipo di attività esercitata, né in quello del d.lgs. 175/2016, per la sua natura pubblica.
Peraltro, le problematiche inerenti la qualificazione della natura dei datori di lavoro non sono agevolmente risolvibili nemmeno de iure condendo, perché l’operazione di qualificazione di un ente spetta innanzitutto all’interprete e quindi, in definitiva, al giudice. Ciò è vero, addirittura, anche quando un ente viene formalmente qualificato dal legislatore. I nomina fissati da quest’ultimo, infatti, – come delle “etichette” – possono non corrispondere al “contenuto”, cioè possono non essere coerenti con la natura effettiva di un ente. Natura effettiva che solo un interprete può cogliere e individuare tutto considerando, ovvero vagliando sia l’eventuale qualificazione legislativa formale, sia gli altri indici offerti dalla disciplina sostanziale . Infatti, secondo un autorevole orientamento dottrinale , che ha avuto una discreta fortuna anche in giurisprudenza , le qualificazioni legali non vincolano l’interprete, quindi, pur svolgendo un ruolo esegetico, più o meno centrale – e ciò secondo le sensibilità di ogni operatore — non rappresentano un criterio interpretativo indiscutibile e definitivo a proposito della natura di un soggetto giuridico . Questa considerazione, osservata da un’altra angolazione, significa che il legislatore, almeno secondo questa prospettazione teoria, non è infallibile e può commettere “errori ” (ma solo) di qualificazione, che spetta all’interprete scorgere e correggere .
Infine, si consideri anche che non è possibile nemmeno contare sull’assunto secondo cui un ente privato non possa essere qualificato contestualmente anche come pubblico, visto che lo stesso legislatore ha addirittura istituito un ente “nella forma di società per azioni con personalità di diritto pubblico” .
Guardando ora all’atteggiamento della giurisprudenza e alle prassi degli operatori economici, si può osservare come sia proprio a partire da queste considerazioni, a volte implicite, sulla incerta natura degli enti datori di lavoro che sono stati ritenuti applicabili istituti e norme dedicate ai rapporti di lavoro con la pubblica amministrazione, sia a delle società di capitali che a degli enti pubblici economici.
Si consideri, a titolo di esempio, Corte cost., 22 ottobre 2015, n. 209 (in Giur. cost., 2015, 5, p. 1643) e Corte cost., 10 marzo 2017, n. 55, (in De jure) che hanno dichiarato inammissibili le questioni di costituzionalità sollevate in relazione ad una legge che prevede il trasferimento del personale da ANAS s.p.a. ad un ufficio interno al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in considerazione del fatto che il giudice remittente non aveva valutato se ANAS S.p.A. “dovesse considerarsi, o non, « pubblica amministrazione » ai fini dell’applicazione dell’art. 31 del d.lgs. n. 165/2001” che, come noto, disciplina il passaggio di personale fra enti pubblici o da enti pubblici verso persone giuridiche private, ma non il passaggio da enti privati (come formalmente è ANAS S.p.A.) a soggetti pubblici . O, ancora, si consideri il caso di Agenzia delle Entrate – Riscossione, il nuovo ente pubblico economico che, in virtù di una precisa disposizione di legge (l’art. 1 comma 15 del d.l. n. 193/2016), ha beneficiato dell’immissione in ruolo del personale delle ex società private del gruppo Equitalia, senza dover predisporre procedure concorsuali: ebbene la giurisprudenza amministrativa, per ora solo in sede cautelare, ha avanzato l’ipotesi, da vagliarsi nella fase di merito del giudizio, che nel caso concreto il trasferimento di personale dovesse realizzarsi tramite concorso, come se l’ente di destinazione fosse una pubblica amministrazione tout court .
A parere di chi scrive, comunque stiano le cose, solo una lineare ed argomentata operazione esegetica che conduca a (ri)qualificare la natura dell’ente - datore di lavoro, sulla base di circostanze univoche di fatto e di diritto, può giustificare l’applicazione di una norma di diritto speciale formalmente destinata ad enti di natura diversa. Viceversa, il tentativo, a volte portato avanti, di ampliare l’ambito di applicazione di una norma speciale oltre i suoi confini espressamente definiti, in virtù di una sua interpretazione estensiva o addirittura analogica – che valorizzi, ad esempio, la supposta ratio della legge – è criticabile perché in contrasto con la logica in cui si radica il sistema normativo (cfr. supra § 2) .

4.1. (segue) Le imprese pubbliche e le prassi “più realiste del re”.
Come si diceva, la tendenza ad estendere la disciplina speciale anche laddove manchi una deroga effettiva al diritto comune, si riscontra anche nella prassi invalsa fra gli operatori economici, prassi certamente influenzata anche dagli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali di cui sopra. Vediamo perché e in che modo, prendendo in considerazione la materia del reclutamento, su cui ci intratterremo brevemente anche nel paragrafo successivo.
Secondo l’art. 97 comma 4 Cost., agli “impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge” (anche regionale) . Per un verso, possiamo affermare che rientrano nella categoria delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 97 Cost. solo gli enti qualificati come tali dal legislatore ordinario, ovvero i soggetti di cui all’art. 1 comma 2 d.lgs. n. 165/2001; per altro verso, anche a voler riconoscere alla nozione di “pubblica amministrazione” adoperata dal costituente una sua “autonomia”, magari per allargarne i confini, si deve comunque riconoscere come sia nella facoltà del legislatore ordinario di derogare (cfr. art. 97 comma 4 ultima parte, Cost.) alla regola concorsuale, anche restringendo il suo ambito di applicazione originario. Dunque, in ogni caso, l’applicazione della regola costituzionale del concorso, dipende dalle previsioni della legislazione ordinaria . Ebbene, come si sa, originariamente, il concorso era obbligatorio solo per gli enti che oggi rientrano nell’elenco dell’art. 1 comma 2 d.lgs. 165/2001. Successivamente, i princìpi ispiratori della regola del concorso sono stati estesi alle società private controllate da enti pubblici, prima con l’art. 18 d.l. n. 112/2008 , nella versione in vigore fino al 23 settembre 2016 e, oggi, con l’art. 19 del d.lgs. n. 175/2016 . Invece non sono rintracciabili nell’ordinamento leggi speciali vigenti, nazionali o regionali, che estendano, relativamente all’intera categoria di enti pubblici economici o a rilevanti gruppi di essi, la regola del concorso pubblico, ferma l’incontestabile impossibilità di applicare ad essi il d.lgs. 165/2001. Stando a quando chiarito supra, quindi, agli enti pubblici economici non può che applicarsi, salva l’eventuale individuazione di norme dedicate a singoli enti appartenenti alla categoria, la disciplina di diritto comune, in virtù della quale essi possono esercitare liberamente la loro facoltà di reclutamento, mentre alle società pubbliche dovranno applicarsi i soli principi ispiratori del concorso pubblico.
In questo contesto, è stato osservato che le società controllate da enti pubblici si sono, in molti casi, adeguate alla disciplina speciale ad esse applicabile con un atteggiamento “inerziale e passivo” , ovvero adottando in sostanza tutte le regole di reclutamento previste per la pubblica amministrazione, invece di applicare solo i principi ispiratori richiamati dalla legge (ora dall’art. 19 d.lgs. 175/2016); allo stesso modo, anche gli enti pubblici economici si sono “autovincolati”, con diverse gradazioni di rigore, ad una disciplina limitativa della libertà di reclutamento che ricalca quella prevista per le società pubbliche, se non addirittura alla disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni in senso stretto .
Nulla naturalmente impedisce ai datori di lavoro di vincolare la propria libertà di reclutamento, esercitandola, per così dire, in negativo. Ma sotto il profilo giuridico è necessario tenere distinto il caso del concorso disciplinato da norme speciali stabilite dalla legge (in applicazione, in questo caso, dell’art. 97 Cost.), dal caso del concorso previsto da fonti sub-legislative, unilaterali o convenzionali. Il primo è convenzionalmente definibile “concorso pubblico”, il secondo “concorso privato” . La violazione delle rispettive discipline, infatti, lede interessi diversi – quelli all’imparzialità e al buon andamento, da un lato, e quelli alla parità di trattamento dei lavoratori dall’altro – e può comportare effetti giuridici dissimili.

5. La tecnica dell’applicazione analogica del diritto speciale (e un’ipotesi di lavoro da approfondire).
Come abbiamo anticipato, esiste un secondo argomento che conduce all’applicazione di discipline speciali nei confronti di enti-datori di lavoro cui, sotto il profilo rigorosamente formale, esse non andrebbero applicate. Questo argomento viene speso quando il regime giuridico speciale/pubblico applicabile ad un datore di lavoro e dunque al rapporto di lavoro da questi instaurato – invece di sostituirsi completamente al diritto comune – non è, di per sé, autosufficiente e, quindi, chiama in causa quest’ultimo a svolgere effettivamente la sua funzione di supplenza. In questi casi, infatti, è naturale che il mix di regole di ispirazione privatistica e pubblicistica possa provocare delle incompatibilità logico-giuridiche e/o degli esiti interpretativi irragionevoli, soprattutto quando la qualità della legislazione speciale non è buona . Ebbene, quando ciò effettivamente si verifica a “farne le spese” è, anche in questo caso, il diritto comune, non invece il diritto speciale.
Il caso più eclatante riguarda, ancora una volta, la disciplina del reclutamento del personale ma, in questo caso, in relazione all’eventuale applicazione, a tutela dei lavoratori, della conversione (rectius, trasformazione) giudiziale dei contratti di lavoro flessibili invalidi .
Quando, infatti, l’assunzione dei lavoratori è condizionata – nell’interesse generale tutelato dall’art. 97 comma 4 Cost. – all’espletamento di un concorso pubblico, l’applicazione della disciplina privatistica che impone la “conversione” di un rapporto di lavoro per sanzionare la violazione dei limiti legali fissati in materia di rapporti lavorativi non standard, si tradurrebbe in un’elusione della regola concorsuale.
Nei casi più gravi la fattispecie potrebbe celare finanche una vera e propria collusione fra le parti del rapporto di lavoro coinvolte: in tal caso, l’unico interesse leso meritevole di tutela sarebbe quello pubblico; più in generale, però, ad essere minacciati dall’applicazione di tali regole di diritto comune, sarebbero due interessi contrapposti ma meritevoli di adeguate misure rimediali: da un lato, l’interesse generale allo svolgimento del concorso, dall’altro il diritto del lavoratore a non svolgere lavoro “precario” oltre i confini fissati dalla legge .
I casi di “conversione” previsti dalla legge sono, invero, meno diffusi, dopo il jobs act, ma mantengono la loro centralità e non sembrano certo destinati a scomparire del tutto. La questione dunque è ancora attuale. Si pensi ai casi di “conversione” del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato , del contratto di lavoro intermittente , del contratto irregolare di somministrazione di lavoro o, inoltre, ai casi del contratto di appalto non genuino, del distacco transnazionale non “autentico” e, più in generale, al divieto di interposizione illecita di manodopera — che è un principio immanente al sistema lavoristico —, e, ancora, ai casi di dissimulazione del contratto di lavoro subordinato realizzati attraverso la simulazione di rapporti di lavoro autonomo o parasubordinato, rispetto ai quali i giudici sono tenuti a riqualificare il rapporto in modo da applicare le discipline legali inderogabili dettate per il lavoro subordinato (arg. ex artt. 1414 e 1362 cod. civ.) ; si pensi, infine, alle previgenti ipotesi di conversione del rapporto previste nell’ambito della disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto e della disciplina sulle collaborazioni dei titolari di partita IVA, abrogate dal d.lgs. n. 81/2015 .
Ebbene, il legislatore che ha regolato, con disciplina speciale, le modalità di reclutamento tramite concorso pubblico, si è preoccupato di risolvere il potenziale problema esegetico solo in riferimento al pubblico impiego, stabilendo che “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione” .
Invece, in riferimento alle società pubbliche, il legislatore del d.lgs. 175/2016 (come già quello del d.l. 112/2008) ha omesso di prendere posizione sul punto, lasciando all’interprete il compito di trovare, caso per caso, la soluzione al problema. Ed anche in relazione agli enti pubblici economici – rispetto ai quali, come abbiamo visto, non esiste un generale obbligo legale di reclutamento tramite concorso pubblico, anche se l’utilizzo dello strumento del concorso privato è ampiamente diffuso – è sorto un contenzioso giudiziale a proposito dell’applicabilità o meno delle ipotesi legali di “conversione” dei rapporti di lavoro invalidi di cui sopra.
In questo contesto normativo (più) “antinomico” (che lacunoso), la dottrina e la giurisprudenza, nei modi e nei limiti che andiamo subito a precisare, hanno ritenuto, il più delle volte, non applicabili le ipotesi legali di conversione previste dal diritto comune/privato del lavoro, pure in mancanza di una deroga legale esplicita.
In particolare, in relazione alle società pubbliche, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie tendono ad individuare ed applicare la regola del divieto di conversione dei rapporti di lavoro , anche se non mancano letture, invero molto caute, che considerano possibile (e auspicabile) una conclusione opposta nell’interesse dei lavoratori e più coerente, almeno sotto il piano formale, con il rinvio al diritto comune, ora esplicitato nel d.lgs. 175/2016.
Diversamente, in relazione agli enti pubblici economici, la soluzione al problema dipende dal fatto che venga reperita o meno una disciplina legale speciale o singolare (cioè applicabile ad un unico ente pubblico economico) che imponga lo svolgimento del concorso pubblico. Quando questa manchi, come accade il più delle volte, la giurisprudenza ammette, a quanto consta unanimemente, la conversione dei rapporti di lavoro . Ciò è accaduto sia nei casi delle collaborazioni coordinate e continuative illegittime , sia in caso di illegittima apposizione del termine , sia, infine, in caso di interposizione illecita di manodopera . All’opposto, la giurisprudenza tende a rigettare le domande di “conversione” del rapporto di lavoro con un ente pubblico economico e a riconoscere solo un risarcimento del (comprovato) danno al lavoratore, quando l’ente coinvolto nel giudizio sia soggetto, come invero accade raramente, ad una disciplina speciale che imponga la regola del concorso pubblico per l’assunzione del personale .
Volendo segnare la differenza rispetto all’argomento di cui al § 4, nei casi considerati da ultimo dottrina e giurisprudenza ricavano la regola derogatoria del diritto comune a seguito di una deduzione logico-giuridica che scaturisce (a loro dire, inevitabilmente) dall’applicazione di un’altra norma speciale (quella del concorso pubblico) esplicitamente posta dal legislatore e applicabile al datore di lavoro.
In questi casi, quindi, l’interprete non procede ad una preliminare riqualificazione soggettiva del datore cui segue una (lineare) applicazione della disciplina speciale, ma sviluppa una particolare esegesi della regola del concorso pubblico che conduce a ricavare una diversa norma (implicita): quella del divieto di conversione dei rapporti non standard invalidi instaurati con società pubbliche o enti pubblici economici vincolati alla regola del concorso.
In sostanza, questa scelta esegetica si traduce in una applicazione, diretta o per analogia, della regola speciale fissata espressamente dall’art. 36 comma 5 d.lgs. 165/2001 solo nei confronti della pubblica amministrazione (ovvero degli enti pubblici non economici).
Questa tecnica interpretativa tuttavia entra in inevitabile tensione con il principio generale di rinvio al diritto comune previsto sia per le società pubbliche (artt. 1 e 19 del d.lgs. 175/2016) che per gli enti pubblici economici (art. 2093 c.c.), poiché esso impone un’interpretazione non estensiva né tantomeno analogica e, di conseguenza, una applicazione “stretta” del diritto speciale (art. 14 preleggi).
Più in generale, inoltre, anche in questo orientamento assolutamente maggioritario l’antinomia individuata nell’ordinamento viene risolta in ogni caso attraverso la disapplicazione del diritto comune e quindi tramite il sacrificio dell’interesse dei lavoratori alla “conversione” del rapporto, mai invece tramite il sacrificio, per lo meno in certi casi, della regola concorsuale. Eppure, quest’ultima non tutela un interesse sempre assolutamente prevalente rispetto a quello dei lavoratori, come la Costituzione chiarisce senza ombra di dubbio: sia per la sua generale impronta “lavorista”, sia perché l’art. 97 Cost. autorizza il legislatore, non solo a disegnare con margini di discrezione i confini della “pubblica amministrazione” vincolata alla regola concorsuale, ma anche a stabilire delle eccezioni ad essa. Eccezioni che potrebbero essere individuate anche nelle ipotesi in cui il giudice si trovi nella situazione di dover preservare, oltre all’interesse pubblico, anche il diritto dei lavoratori a non subire le violazioni datoriali delle leggi in materia di lavoro flessibile. È chiaro che la “conversione” del rapporto, quando sia ipotizzabile una connivenza del lavoratore “precario”, rappresenterebbe un nonsense, ma essa potrebbe tornare in auge quando la collusione del lavoratore coinvolto può essere esclusa, nonché quando la spesa pubblica possa sopportare il costo della sanzione, anche rivalendosi sui dirigenti responsabili.
Quanto fin qui detto, ad avviso di scrive, dimostra che la posizione ampiamente maggioritaria emersa in giurisprudenza e in dottrina, pur essendo fondata su argomenti convincenti, non è indiscutibile perché è il frutto di un percorso logico-giuridico solo apparentemente ineludibile, come dimostrano i possibili argomenti di segno contrario che qui si è provato ad esporre e su cui è certamente opportuno svolgere ulteriori approfondimenti.
Tutto quanto si è detto conferma l’urgenza di un intervento chiarificatore del legislatore ma dimostra, a nostro avviso, che tale intervento non deve necessariamente limitarsi a “consacrare” le soluzioni prevalse nel diritto vivente, ma potrebbe condurre a delle soluzioni non scontate, finalizzate a bilanciare meglio gli interessi in gioco, fra loro contrastanti ma tutti di rilievo costituzionale.

 

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