Testo Integrale con note e bibliografia

1. Introduzione
Le società a partecipazione pubblica costituiscono un fenomeno antico, tanto che già il codice civile del 1942 le contemplava, prevedendo, come evidenziato nella relazione di accompagnamento, che la presenza dell’ente pubblico nella compagine sociale non alterasse, in linea generale, le regole di funzionamento della società.
Parimenti non è certo nuovo il fenomeno dell’intervento nell’economia degli enti locali che, già a partire dall’inizio del XX secolo, avevano fatto ampio ricorso allo strumento delle aziende speciali, le cosiddette municipalizzate, che, a far tempo dagli anni 80, sono state progressivamente sostituite dalla partecipazione a società di capitali.
Le ragioni del cambiamento dello strumento di intervento vanno ricercate, sostanzialmente, nella volontà di superare le regole di azione di diritto pubblico, alle quali dovevano comunque attenersi le aziende speciali, nel convincimento, all’epoca dominante, che l’assoggettamento alle regole del mercato potesse assicurare maggiore efficienza nell’erogazione dei servizi e consentire il raggiungimento di risultati che si pensava fossero stati in qualche modo ostacolati dalle rigidità e dai formalismi propri dell’agire pubblico.
In assenza di una specifica regolamentazione, infatti, l’attività poteva essere svolta dalla società di capitali al di fuori dell’applicazione delle regole di contabilità e finanza pubblica.
Il fenomeno delle cosiddette privatizzazioni, quindi, ha comportato, non soltanto la cessione in favore di soggetti privati di partecipazioni societarie prima appartenenti allo Stato o ad altri enti pubblici, ma anche la trasformazione di organismi pubblici, destinati a svolgere pubbliche funzioni, in società configurate secondo gli schemi del diritto privato, delle quali, poi, lo Stato o altri enti pubblici hanno assunto la veste di soci.
L’ampia discrezionalità concessa in relazione al reclutamento ed alla gestione del personale, alla nomina degli organi di amministrazione, all’acquisto di beni e servizi, non ha, però, prodotto gli esiti sperati, perché si è dovuto prendere atto, non solo del mancato raggiungimento degli stessi quanto alla maggiore efficienza dei servizi, ma anche della circostanza che non di rado il ricorso allo schema privatistico aveva comportato perdite economiche e situazioni di insolvenza, destinate ad incidere negativamente sui bilanci pubblici, posto che erano comunque riferibili all’ente pubblico le risorse utilizzate per la gestione del soggetto privato.
Si è così assistito ad un’inversione di tendenza che ha caratterizzato la legislazione più recente, intervenuta in materia con la finalità evidente di limitare la possibilità del ricorso alle società partecipate e di introdurre regole di funzionamento che tenessero conto del capitale pubblico impiegato e, quindi, non solo delle necessità di finanza pubblica, ma anche dei principi costituzionali fissati dall’art. 97 Cost..
La Corte Costituzionale, infatti, già a partire dalla sentenza n. 466/1993, aveva osservato che il solo mutamento della veste giuridica dell’ente non è sufficiente a giustificare la totale eliminazione dei vincoli pubblicistici, ove la privatizzazione non assuma anche «connotati sostanziali, tali da determinare l'uscita delle società derivate dalla sfera della finanza pubblica». Per la Corte occorre distinguere la privatizzazione sostanziale da quella meramente formale, ed in relazione a quest’ultima vengono comunque in rilievo i principi sanciti dal richiamato art. 97 Cost.
Si comprende, allora, perché in dottrina ed in giurisprudenza il tema dell’inquadramento giuridico delle società a partecipazione pubblica sia stato sempre particolarmente controverso e lo sia divenuto ancor più allorquando il legislatore, tra l’altro in modo frammentario e disomogeneo, ha dettato norme speciali, con le quali non si è limitato ad indirizzare la condotta dello Stato o dell’ente pubblico azionista, bensì ha disciplinato le modalità organizzative delle società partecipate, limitandone l’autonomia organizzativa e la capacità d’agire, introducendo, come è stato detto, “massicce dosi di diritto pubblico” nella regolamentazione dei rapporti facenti capo alle società partecipate.
Non è possibile dare qui conto delle diverse opinioni espresse dalla dottrina e degli orientamenti, non sempre coerenti fra loro, della giurisprudenza amministrativa, contabile e di legittimità . Basterà dire, in via di estrema semplificazione, che si sono contrapposte tesi che hanno valorizzato la natura pubblica del socio rispetto alla veste giuridica di diritto privato e tesi che, al contrario, hanno ritenuto che non possa essere svalutata la qualificazione data al soggetto giuridico dal legislatore, necessariamente prevalente anche rispetto alla natura degli interessi curati e del capitale impiegato.
È in questo contesto che interviene il d.lgs. n. 175/2016 che quanto alla “specialità” delle società partecipate ed al rilievo, in termini di inquadramento, delle deroghe rispetto al diritto comune societario ed al diritto del lavoro, opta per la tesi privatistica, giacchè sia al comma 3 dell’art.1, sia al comma 1 dell’art. 19, richiama rispettivamente “le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato” nonché “le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali”, ove non derogate dalle disposizioni dello stesso decreto.
Rispetto alla regolamentazione del rapporto di lavoro, che è quella che qui interessa in modo specifico, la tecnica utilizzata ricalca quella del d.lgs. n. 165/2001 perché anche in questo caso, così come per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, si dettano regole derogatorie della disciplina generale del lavoro privato, inserendole in ambito privatistico, al quale occorre fare riferimento per individuare la norma applicabile alla singola fattispecie, ove non espressamente disciplinata dallo stesso decreto.
A fini esegetici e sistematici, quindi, il comma 1 dell’art. 19 ha valenza determinante, perché pone il rapporto di regola/eccezione fra la disciplina generale del rapporto di lavoro nell’impresa e quella dettata in modo specifico per le società a controllo pubblico, sicché, ove quest’ultima nulla disponga, è alla prima che occorre fare riferimento, non già alla normativa che disciplina il rapporto alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che risulta applicabile solo se ed in quanto espressamente richiamata dal d.lgs. n. 175/2016.
Nell’affrontare il tema del trasferimento di attività dalle pubbliche amministrazioni alle società controllate e viceversa occorre quindi avere sempre a mente che poiché i rapporti di lavoro instaurati con le une e con le altre non sono assimilabili, le modifiche dal lato datoriale nella titolarità dei rapporti stessi comportano anche un mutamento dello statuto giuridico.

2. Il passaggio di attività dall’ente pubblico alla società controllata e la successiva reinternalizzazione delle funzioni

Sino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 175/2016 nessuna norma di carattere generale disciplinava la sorte dei rapporti di lavoro instaurati dalle società a controllo pubblico in caso di reinternalizzazione da parte delle pubbliche amministrazioni delle funzioni e dei servizi, curati in origine dall’ente pubblico e poi affidati alla società partecipata.
L’art. 31 del d.lgs. n. 165/2001, infatti, che anche la recente riforma dettata dal d.lgs. n. 75/2017 ha lasciato immutato, si riferisce, fatte salve disposizioni speciali, al passaggio da “pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture” ad altri soggetti pubblici o privati, sicché la norma, invocabile in caso di esternalizzazione, non è idonea a disciplinare il fenomeno inverso, ossia il trasferimento dell’attività dalla società, sia pure controllata, all’ente pubblico.
Per la verità non è ben chiaro a quali soggetti il legislatore abbia voluto riferirsi utilizzando il termine “strutture”, che potrebbe evocare quella nozione allargata di pubblica amministrazione che la giurisprudenza amministrativa, di legittimità e anche costituzionale aveva utilizzato per affermare, sia pure in altri contesti, che sulla forma giuridica può prevalere la natura pubblica del patrimonio e degli interessi perseguiti.
Detta interpretazione estensiva, alla quale sembrerebbe aver fatto riferimento la Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 209 del 22 ottobre 2015, avrebbe portato a ritenere possibile il passaggio automatico di personale da soggetti formalmente privati a enti pubblici, prescindendo del tutto dalle forme di reclutamento, con evidenti profili di compatibilità della norma rispetto alla previsione dell’art. 97, comma 4, Cost..
E’, quindi, giustamente prevalsa in dottrina la tesi dell’applicabilità dell’art. 31 alle sole vicende traslative riguardanti attività svolte dai soggetti pubblici indicati nell’art.1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, con conseguente esclusione delle società in house, a partecipazione pubblica ed a controllo pubblico, tesi, questa, che ha trovato riscontro nella disciplina dettata dal d.lgs. 175/2016 che, evidentemente, presuppone l’inapplicabilità della norma generale contenuta nel T.U. sul lavoro alle dipendenze della p.a..
Negli anni in cui dominava la politica della “privatizzazione” il legislatore si è preoccupato unicamente di disciplinare il passaggio fra enti pubblici o dal pubblico al privato e lo ha fatto rendendo applicabile l’art. 2112 cod. civ. in presenza del solo “trasferimento o conferimento di attività” e, quindi, a prescindere dalla ricorrenza di un trasferimento di azienda o di ramo di azienda in senso proprio . Il richiamo all’art. 2112 cod. civ. rende evidente che il passaggio del dipendente pubblico alla società controllata opera automaticamente per effetto della esternalizzazione e, quindi, prescinde dal consenso dell’interessato, sicché si è osservato che la norma, nell’estendere l’ambito di applicazione della disciplina codicistica, è volta ad evitare che vengano frapposti ostacoli alle esigenze di riorganizzazione dell’ente pubblico, più che a tutelare il dipendente il quale, in realtà, una volta stabilmente inserito nella società partecipata, gode di garanzie complessivamente inferiori rispetto a quelle dell’impiego pubblico contrattualizzato.
L’inversione di tendenza di cui si è dato conto nella parte introduttiva, tradottasi in interventi legislativi volti a limitare le partecipazioni azionarie delle amministrazioni, ha fatto sorgere la questione della sorte dei rapporti di lavoro instaurati dalle società partecipate, che gli enti pubblici interessati hanno cercato di risolvere, scontrandosi, però, con i rigidi limiti posti dalla giurisprudenza costituzionale e contabile.
Al riguardo vanno segnalate le numerose pronunce del Giudice delle leggi con le quali è stata dichiarata l’illegittimità di leggi regionali che avevano previsto il passaggio automatico di personale da società in house o da soggetti privati all’amministrazione pubblica. La Corte ha evidenziato, infatti, che in dette ipotesi la stabile immissione nei ruoli della pubblica amministrazione solo per effetto del trasferimento di attività si risolve in un privilegio indebito per i destinatari, in violazione del 4° comma dell’art. 97, che può essere derogato solo in presenza di specifiche necessità funzionali al buon andamento della pubblica amministrazione, ravvisabili qualora i soggetti beneficiati abbiano maturato esperienza nell’amministrazione stessa e non alle dipendenze di datori di lavoro esterni, ed a condizione che la deroga resti contenuta entro limiti percentuali, in modo da non precludere del tutto alla generalità dei cittadini l’accesso all’impiego.
Il Giudice delle leggi ha evidenziato, inoltre, che non è possibile fare leva sul disposto dell’art. 18, comma 2, del d.l. 25.6.2008 n. 112 perché non è sufficiente qualsiasi forma di selezione, essendo, invece, necessario un concorso in senso proprio, riferito alla tipologia ed al livello delle funzioni che il personale è chiamato a svolgere.
Anche la giurisprudenza contabile ha posto l’accento sulla regola della concorsualità per escludere che, in linea generale, l’ente territoriale possa con atto amministrativo disporre il passaggio alle proprie dipendenze del personale in precedenza occupato da società partecipata affidataria di servizi pubblici locali e ciò anche nell’ipotesi in cui l’affidamento del servizio alla società sia avvenuto in conseguenza di esternalizzazione. Si è precisato, però, che il trasferimento può ritenersi consentito nei casi in cui alla vacanza della pianta organica, alla disponibilità delle risorse e all’assenza di vincoli normativi ostativi all’assunzione, si accompagni l’ulteriore condizione della limitazione del passaggio ai soli dipendenti provenienti dallo stesso ente locale, transitati nella società partecipata a seguito del trasferimento dell’attività. Solo in tal caso non viene violato il principio della concorsualità, a condizione che l’inquadramento avvenga nella medesima posizione giuridica ed economica ricoperta in precedenza.
Non è azzardato, quindi, dire che il d.lgs. n. 175/2016 ha finito per recepire le indicazioni della giurisprudenza contabile e costituzionale, perché all’art. 19, comma 8, ha previsto che le pubbliche amministrazioni, in caso di reinternalizzazione di funzioni o di servizi, devono riassorbire, prima di procedere a nuove assunzioni, il solo personale in precedenza assunto a tempo indeterminato e transitato alle dipendenze della società controllata, a condizione che il riassorbimento avvenga nei limiti dei posti vacanti nella dotazione organica e nell’ambito delle facoltà assunzionali disponibili. Queste ultime possono essere superate solo qualora l’organo di revisione certifichi che l’esternalizzazione era stata effettuata nel rispetto degli adempimenti imposti dall’art. 6 bis del d.lgs. n. 165/2001, ossia a condizione che il trasferimento della funzione fosse stato accompagnato anche dal passaggio del personale e delle relative risorse stipendiali; la dotazione organica dell’ente fosse stata ridimensionata; i fondi destinati alla contrattazione integrativa e la spesa complessiva del personale fossero stati ridotti in ragione dell’avvenuto trasferimento. La norma precisa, inoltre, che il riassorbimento è attuato “mediante l’utilizzo delle procedure di mobilità di cui all’articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
Perché possa sorgere il diritto del dipendente ad essere riassorbito dalla pubblica amministrazione dalla quale era stato originariamente assunto non sono sufficienti né l’avvenuto superamento di un concorso per l’instaurazione dell’originario rapporto di impiego né la circostanza che il dipendente sia transitato nell’organico della società controllata per effetto di passaggio diretto, dovendo invece ricorrere ulteriori condizioni finalizzate, evidentemente, ad evitare un’ eccedenza di personale nell’ente pubblico e ad assicurare il contenimento della spesa.
Nessun diritto, poi, è riconosciuto al dipendente che sia stato assunto direttamente dalla società controllata, neppure nell’ipotesi in cui il rapporto sia stato instaurato all’esito delle procedure concorsuali o selettive previste rispettivamente dall’art. 18, commi 1 e 2, del d.l. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008, ed oggi dallo stesso art. 19, comma 2.
Il richiamo alle procedure di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001, e quindi alla mobilità volontaria, in un contesto che è invece caratterizzato dal trasferimento di attività, potrebbe sottendere l’intento del legislatore di voler escludere qualsiasi assimilazione della reinternalizzazione di funzioni al passaggio disciplinato dall’art. 31 del d.lgs. n. 165/2001 ed al trasferimento di azienda o di ramo di azienda di cui all’art. 2112 cod. civ..
La mobilità volontaria, infatti, da sempre ricondotta dalla giurisprudenza alla cessione del contratto, nel tempo ha assunto connotazioni del tutto peculiari, che hanno indotto la più recente giurisprudenza di legittimità ad evidenziare che l’interesse tutelato dalla norma è innanzitutto quello della pubblica amministrazione ad organizzare i propri uffici nel rispetto delle finalità imposte dall’art. 1 del d.lgs. n. 165/2001 ed a realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nell’ambito degli enti pubblici. Per questo la mobilità volontaria, che richiede l’incontro di tre diverse volontà, non può prescindere dalla previa vacanza dei posti in organico, vacanza che, invece, non ha mai condizionato l’applicabilità dell’art. 31 del d.lgs. n. 165/2001 poiché, in quel caso, le variazioni della dotazione organica nell’ente di provenienza e di destinazione sono conseguenti e non prodromiche al passaggio.
E’, quindi, significativo che il legislatore delegato, nell’affrontare la questione della sorte dei rapporti instaurati dalla società partecipata, non abbia esteso, sia pure subordinandola a condizioni ulteriori, l’applicazione dell’art. 31, bensì abbia solo consentito al dipendente della società privata di accedere, eccezionalmente, ad una procedura che, altrimenti, gli sarebbe stata preclusa, non essendo in possesso della qualifica di dipendente pubblico.
L’art. 19, comma 8, per come formulato, non prevede una continuazione automatica del rapporto, neppure nell’ipotesi in cui ricorrano le condizioni richieste dalla stessa norma, ma subordina il passaggio all’espletamento di una procedura che presuppone l’atto volontario di adesione del dipendente interessato, in assenza del quale non potrà operare il riassorbimento. L’obbligo imposto alla pubblica amministrazione viene, pertanto, assolto innanzitutto attraverso la pubblicazione del bando previsto dall’art. 30, bando nel quale dovranno essere specificati i posti che potranno essere ricoperti, i requisiti da possedere, verosimilmente i criteri in base ai quali verrà effettuata la scelta nei casi in cui, in ragione delle condizioni richieste dall’art. 19, il riassorbimento non possa riguardare tutte le unità di personale transitate dall’ente pubblico alle dipendenze della società partecipata.
È evidente che la nuova disciplina non accorda una tutela generalizzata del posto di lavoro ai dipendenti delle società partecipate, perché, da un lato, sono esclusi i lavoratori non provenienti dall’ente pubblico, dall’altro è ipotizzabile un riassorbimento solo parziale del personale che a suo tempo fu interessato dall’esternalizzazione.
Si potrebbe dubitare della compatibilità della normativa con la direttiva eurounitaria 2001/23 nei casi in cui la reinternalizzazione comporti il trasferimento di beni e di strutture e sia, cioè, riconducibile non al mero passaggio di attività, bensì ad una cessione di azienda o di un suo ramo in senso proprio.
La Corte di Giustizia , infatti, ha precisato che rientra nell’ambito di applicazione della direttiva una situazione in cui “un’impresa pubblica affidi con un contratto di gestione di servizi pubblici la gestione dell’attività ad altra impresa, mettendo a disposizioni di quest’ultima le infrastrutture e le attrezzature di cui essa è proprietaria, e in seguito decida di porre termine a tale contratto senza riassumere il personale di quest’ultima impresa, con la motivazione che in futuro avrebbe gestito essa stessa detta attività con il proprio personale”. La Corte ha osservato che, ove l’attività richieda per le sue stesse caratteristiche attrezzature essenziali, l’identità dell’entità economica trasferita non può essere esclusa solo perché il personale che dette attrezzature utilizzava non risulta trasferito in tutto, o in una parte consistente, alle dipendenze del soggetto che subentra nella gestione, perché una diversa interpretazione contrasterebbe con l’obiettivo fondamentale della direttiva che consiste nel mantenere, anche contro la volontà del cessionario, i contratti di lavoro dei dipendenti del cedente.
Applicando detti principi all’ipotesi in cui l’attività svolta dalla società controllata presupponga necessariamente l’esistenza di strutture essenziali alla gestione, ci si dovrebbe chiedere se la sola natura di ente pubblico possa essere ritenuta ostativa all’automatico trasferimento in capo al cessionario di tutti i rapporti di lavoro instaurati dal cedente, senza possibilità di un diverso trattamento, fondato sull’originaria provenienza del dipendente.
Al riguardo la stessa Corte di Giustizia ha precisato che non vale ad escludere l’applicazione della direttiva la sola circostanza che il trasferimento avvenga nell’ambito di un processo di riorganizzazione della pubblica amministrazione, perché decisiva non è la qualità del cedente bensì il tipo di attività esercitata, nel senso che esula dall’ambito di operatività della direttiva solo l’esercizio di pubblici poteri.
La giurisprudenza di legittimità, valorizzando i principi affermati dalla Corte di Giustizia nella sentenza 14.9.2000, in causa C- 343/98 Collino, ha evidenziato che la direttiva intende tutelare la continuità del rapporto di lavoro solo nei confronti dei soggetti che siano già inizialmente titolari di un rapporto della stessa natura di quello che viene a costituirsi con il cessionario, ed ha, quindi, escluso che la direttiva stessa possa trovare applicazione al passaggio da ente pubblico a privato e viceversa per la diversità dello statuto giuridico dei due rapporti. Le pronunce, però, si riferiscono tutte a passaggi effettuati in epoca antecedente alla contrattualizzazione dell’impiego pubblico e quindi è lecito dubitare dell’applicabilità del principio di diritto ai casi che abbiamo ipotizzato, perché le differenziazioni che ancora permangono fra impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del T.U. e impiego privato, non sono tali da consentire di affermare che il primo sia “sottratto al diritto del lavoro” nel senso precisato dalla Corte UE.
In via conclusiva mi sembra si possa dire che, quanto al passaggio di attività, il legislatore delegato non ha risolto tutte le questioni problematiche, né ha raccolto la sollecitazione che si legge nel parere delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti quanto all’equiparazione fra personale transitato dall’ente pubblico alla società partecipata e personale che quest’ultima abbia assunto “sulla base di procedure aperte di selezione pubblica, idonee a valutare le competenze dei candidati”. Al riguardo, sebbene la Corte Costituzionale, come già detto, abbia affermato che il rispetto dell’art. 97 Cost. postula non una qualunque forma di selezione bensì un concorso in senso proprio, si potrebbe osservare che le procedure previste dall’attuale formulazione dell’art. 19, in quanto modulate sugli stessi principi fissati dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001, sul piano sostanziale non si differenziano da quelle di reclutamento del dipendente pubblico, sicché una diversità di trattamento, fondata sola sulla diversa soggettività del datore di lavoro che bandisce la procedura, potrebbe apparire non ragionevole.

 

3. Eccedenza di personale: il regime transitorio previsto dall’art. 25 del d.lgs. n. 175/2016

La lettura complessiva delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 175/2016 induce ad affermare che il legislatore delegato, al fine di coniugare le esigenze di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica con l’obiettivo di una gestione efficiente dei servizi, da un lato ha ritenuto di dover limitare le ipotesi nelle quali è consentito alle amministrazioni di acquisire o mantenere partecipazioni societarie (art. 4), dall’altro ha imposto agli enti pubblici di provvedere ad un serie di adempimenti, ordinari e straordinari, sostanzialmente finalizzati a razionalizzare la complessa galassia delle società controllate e ad assicurare che il perseguimento attraverso le stesse di interessi generali avvenga in modo ottimale, escludendo fonti di spreco.
Gli artt. 20 e 24 del decreto prevedono, rispettivamente, l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di effettuare annualmente una ricognizione delle società in cui detengono partecipazioni, adottando in conseguenza provvedimenti di “razionalizzazione, fusione, soppressione”, e di operare una revisione straordinaria, resa necessaria dall’entrata in vigore della nuova disciplina e finalizzata ad individuare le società non riconducibili alle categorie previste dal decreto nonché quelle rispetto alle quali non sussistono le ragioni di convenienza economica e di sostenibilità finanziaria che giustificano la partecipazione societaria.
Si tratta di prescrizioni che attengono all’agire pubblico sicché, ove non diversamente disposto, l’eventuale inadempimento determina responsabilità amministrativa e contabile, ma non si riflette sulla validità e sull’efficacia degli atti compiuti dalla società controllata, posto che quest’ultima va sempre mantenuta distinta, quanto alla soggettività, rispetto all’ente che detiene la partecipazione.
Il legislatore delegato, consapevole delle ricadute sul piano occupazionale dei processi di revisione imposti alle amministrazioni, ha previsto in via transitoria una complessa procedura, disciplinata dall’art. 25 del decreto, finalizzata a consentire processi di mobilità nell’ambito delle società partecipate, ossia a ricollocare il personale eccedente presso altre società, egualmente a controllo pubblico, che presentino carenze di organico.
In via di estrema sintesi la procedura, scandita da termini ormai spirati, prevede che alla ricognizione del personale eccedente faccia seguito la formazione di un elenco dei lavoratori in esubero, completo dei relativi profili professionali, da trasmettere alla regione nel cui territorio la società ha sede legale, la quale, tentata la ricollocazione in ambito regionale, ove questa non si sia realizzata, a sua volta inoltra l’elenco dei dipendenti eccedenti non ricollocati all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Nell’arco temporale entro il quale detti passaggi devono svolgersi vengono limitati i poteri delle società a controllo pubblico quanto alle assunzioni perché si prevede che queste ultime, fino al 30 giugno 2018, possano avvenire solo attingendo dagli elenchi gestiti dalla regione e dall’agenzia, con la sola eccezione del personale con profilo infungibile, inerente a specifiche competenze, non ricompreso negli elenchi stessi. È altresì espressamente prevista la nullità dei rapporti di lavoro instaurati in violazione degli obblighi imposti dalla norma transitoria.
Quest’ultima, quindi, consente, una tantum, una forma di reclutamento diversa da quella selettiva disciplinata dall’art. 19, comma 2, e così come il comma 4 di detta disposizione sanziona con la nullità il contratto stipulato in assenza della previa selezione, analogamente il legislatore si preoccupa di impedire che la norma transitoria, che nasce dalla necessità di contemperare l’interesse pubblico alla corretta gestione delle società partecipate con quello del personale dipendente alla conservazione del posto di lavoro, possa essere utilizzata per aggirare, sia pure in un arco temporale contenuto, il divieto di carattere generale.
Non è possibile in questa sede esaminare in dettaglio tutte le questioni problematiche connesse all’applicazione del regime transitorio, accresciutesi a seguito del ritardo con il quale è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto interministeriale con il quale, previa intesa con la Conferenza unificata, sono state precisate, o forse sarebbe meglio dire dovevano essere precisate, le modalità della procedura.
Concentrando l’attenzione sugli aspetti di maggiore rilievo occorre partire dal concetto di eccedenza, che l’art. 25 non ricollega alla sola revisione straordinaria e che, secondo il decreto interministeriale, è ravvisabile in presenza di una “situazione per cui il personale in servizio presso le società a controllo pubblico, in una o più categorie, qualifiche e livelli di inquadramento superi l’effettiva necessità di personale”. L’ampia formulazione consente di ricomprendere nel concetto di eccedenza ogni ipotesi di sovradimensionamento degli organici, anche in relazione al rapporto dirigenziale, derivante da esigenze di carattere oggettivo, non dissimili da quelle che giustificano il licenziamento, collettivo o individuale, per riduzione di personale o per soppressione di posti di lavoro.
Si pone quindi un problema di coordinamento fra discipline, innanzitutto perché il legislatore delegato non ha ritenuto di dovere sospendere, sino allo spirare dei termini previsti dall’art. 25, il potere della società controllata di risolvere il rapporto di lavoro, il cui mancato esercizio, una volta dichiarata l’eccedenza, potrebbe essere fonte di responsabilità amministrativa e contabile.
È da escludere, in assenza di un’espressa previsione in tal senso, che il datore di lavoro per esercitare validamente il recesso sia tenuto ad attendere l’esito della procedura finalizzata al ricollocamento del personale e conferma in tal senso si trae dal decreto interministeriale che, all’art. 3, comma 2, nel prevedere che sono cancellati dagli elenchi i lavoratori che cessino il rapporto di lavoro con la società a controllo pubblico, aggiunge che per i dipendenti licenziati per giustificato motivo oggettivo non inerente la persona del lavoratore o nell’ambito di un licenziamento collettivo, la cancellazione viene disposta solo se gli stessi vengono successivamente assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato o a termine, purché di durata superiore a sei mesi. Si tratta, evidentemente, di una previsione che presuppone che successivamente alla dichiarazione di eccedenza e nelle more della procedura cessi il rapporto per iniziativa unilaterale del datore, non impedita, quindi, dalla normativa speciale.
I dipendenti licenziati, pertanto, non potranno impugnare sotto questo profilo il recesso e, semmai, potranno solo far valere, assolvendo i relativi oneri probatori, un danno da perdita di chance, qualora la società risolva il rapporto senza neppure attivare la procedura prevista dalla norma transitoria.
Sia il decreto legislativo che il decreto interministeriale si limitano a prevedere che i dipendenti in esubero dovranno essere inseriti in elenchi che, pur contenendo specificazioni attinenti al profilo professionale, non costituiscono graduatorie, poiché l’inserzione negli elenchi medesimi non avviene sulla base di punteggi o di ordini di priorità.
Il terzo comma dell’art. 25, nell’imporre alle società controllate di attingere per le assunzioni agli elenchi, quanto alle modalità del lavoratore da assumere, rinvia all’atto regolamentare che, però, nulla ha statuito al riguardo, poiché l’art. 4 del d.m. si limita a richiamare le “funzionalità di ricerca messe a disposizione dall’apposita sezione del sito istituzionale dell’ANPAL”.
Non sono, quindi, chiare le modalità con le quali deve avvenire l’individuazione del dipendente da assumere perché prima facie l’unica condizione posta dal legislatore per la validità dell’assunzione sembrerebbe essere quella della qualità di eccedentario, con la conseguenza che, fra più lavoratori inseriti nell’elenco, la società sarebbe libera di scegliere il destinatario della proposta di assunzione.
Si tratta, però, di un’interpretazione che pone una netta cesura fra la procedura transitoria ed i principi generali ai quali si ispira il decreto legislativo quanto al reclutamento del personale, sicché è stata avanzata la tesi secondo cui l’art. 25 dovrebbe essere letto in combinato disposto con l’art. 19, con la conseguenza che l’assunzione dovrebbe essere comunque preceduta da una procedura selettiva, riservata, però, ai soli dipendenti inseriti nell’elenco .
L’opzione esegetica, peraltro, se pure ha il merito di armonizzare disciplina transitoria e principi generali, affermati raccogliendo le sollecitazioni della Corte Costituzionale, tuttavia va oltre il tenore letterale della norma e non pare compatibile con la scansione temporale da quest’ultima imposta.
Il contratto di lavoro che si conclude con altra società a controllo pubblico all’esito della procedura disciplinata dall’art. 25 non è riconducibile né alla cessione del contratto né alla mobilità di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001, richiamata solo per le internalizzazioni. Sulla base dello stesso si instaura un nuovo rapporto, del tutto autonomo rispetto al precedente, con la conseguenza che non sono tutelati il livello retributivo raggiunto dal dipendente, la qualifica acquisita, l’anzianità maturata ed è anche possibile la valida apposizione di un patto di prova, perché deve essere consentito al nuovo datore di valutare, all’esito dell’esperimento, la convenienza del contratto.
L’art. 25, come già anticipato, prevede la nullità dei rapporti di lavoro “stipulati in violazione delle disposizioni” dello stesso articolo e la norma, per come formulata, sembra attrarre nell’ambito dell’invalidità insanabile non solo le assunzioni avvenute prescindendo del tutto dalla procedura, ma anche quelle che sono comunque frutto di una violazione della stessa. Non sarà, quindi, privo di rilievo rispondere, in un senso o nell’altro, all’interrogativo posto in merito alle modalità di individuazione del lavoratore da assumere, giacché, aderendo alla tesi della necessità della procedura selettiva, sia pure riservata, sarebbero affetti da nullità i contratti conclusi con dipendenti inseriti nell’elenco ma individuati senza previa valutazione comparativa.

 

 

4. Successione di appalti, clausole sociali e disciplina speciale prevista dall’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016

L’art. 24 del decreto, nell’imporre alle amministrazioni pubbliche una revisione straordinaria delle partecipazioni, prevede, al comma 9, che, “all’esclusivo fine di favorire i processi” disciplinati dallo stesso articolo, in occasione della prima gara successiva alla cessazione dell’affidamento in favore della società a controllo pubblico, il rapporto di lavoro del personale impiegato nell’appalto o nella concessione continua con il subentrante ai sensi dell’art. 2112 cod. civ..
Si tratta, quindi, di una norma speciale che deroga alla disciplina generale dettata dall’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003, come modificato dalla legge n. 122/2016, perché estende alla successione nell’appalto le tutele previste per il trasferimento d’azienda, anche in fattispecie nelle quali siano presenti “elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa”.
Il tenore letterale della disposizione non lascia margini di dubbio circa l’ambito di applicazione della “successione una tantum”, che si verifica solo qualora la società controllata sia interessata al processo di revisione e limitatamente al primo appalto successivo all’adozione dei provvedimenti previsti dal richiamato art. 24. Poiché la dismissione della partecipazione dell’amministrazione pubblica si può realizzare non solo attraverso la messa in liquidazione della società ma anche per mezzo di alienazioni o fusioni, la norma è evidentemente finalizzata, più che a tutelare il personale dipendente della società, ad agevolare la dismissione stessa, perché esclude situazioni di esubero di personale per l’acquirente che non riesca, dopo l’acquisto, a conservare il servizio in precedenza appaltato alla società controllata.
Il rapporto, quindi, prosegue automaticamente con il soggetto subentrato nell’appalto o nella concessione e, poiché il legislatore non ha previsto limitazioni in relazione alla natura di quest’ultimo, si deve ritenere che la norma debba operare anche qualora, in ipotesi, si tratti di altra società controllata, che assuma legittimamente il servizio, nel rispetto delle condizioni imposte dagli artt. 4 e seguenti del decreto legislativo. In tal caso, infatti, sulla disciplina generale dettata dall’art. 19 in relazione alle modalità del reclutamento, sembra che debba prevalere la norma speciale contenuta nello stesso decreto.
La disciplina non pone problemi di compatibilità con il diritto eurounitario quanto alla direttiva 2001/23, perché la Corte di Giustizia ha evidenziato che, sebbene detta direttiva abbia lo scopo di assicurare il mantenimento dei diritti dei lavoratori solo in caso di trasferimento dell’impresa o di un suo ramo, inteso come entità economica funzionalmente autonoma preesistente al trasferimento stesso, tuttavia la stessa non impedisce alla Stato membro di riconoscere il mantenimento dei diritti dei lavoratori dopo il cambiamento dell’imprenditore, anche in ipotesi in cui non si configurerebbe per il diritto dell’Unione una cessione di azienda in senso proprio.
Diverso è il tema della compatibilità della normativa con i principi eurounitari in materia di appalti pubblici, in relazione al quale va segnalata la significativa evoluzione del diritto europeo, che, innovando rispetto alla direttiva 2004/18/ CE, ha previsto con la direttiva 2014/24/UE, art. 70, la possibilità per le amministrazioni appaltatrici di richiedere in occasione della gara anche condizioni particolari finalizzate a perseguire obiettivi sociali e occupazionali, il che sembrerebbe legittimare una previsione normativa, come quella della quale ci stiamo occupando, che fa discendere dall’assegnazione dell’appalto l’automatica prosecuzione in capo all’affidatario dei rapporti di lavoro con il personale già impiegato nell’espletamento della medesima attività.
Qualora, invece, non sussistano le condizioni per l’applicazione della “successione una tantum” in caso di avvicendamento nell’appalto la tutela del personale delle società a controllo pubblico resta affidata da, un lato, alle cosiddette clausole sociali, dall’altro alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 276/2003, che, come detto, in caso di riassunzione esclude l’applicabilità dell’art. 2112 cod. civ. ma a condizione che si riscontrino significativi elementi di discontinuità fra le due imprese.
Quanto alle clausole sociali, che saranno oggetto di più approfondito esame da parte di altri relatori, preme in questa sede rilevare che le stesse, oggi espressamente regolamentate per gli appalti pubblici dall’art. 50 del d.lgs. n. 50/2016, come modificato dall’art. 33 del d.lgs. n. 56/2017, potranno senz’altro operare nel caso in cui alla società controllata subentri un soggetto privato. Più problematica, invece, è la loro applicabilità nell’ipotesi inversa, perché non sembra che in detta ipotesi la clausola possa prevalere sulla norma inderogabile che richiede per l’instaurazione di rapporti di lavoro delle società controllate la previa procedura selettiva e sanziona con la nullità del contratto l’omesso esperimento della selezione.
A tal riguardo va fatta un’osservazione conclusiva: tutte le tutele, peraltro contenute, alle quali si è fatto sin qui riferimento operano se ed in quanto il rapporto di lavoro fra il dipendente e la società a controllo pubblico sia stato validamente costituito e non possono essere invocate nel caso in cui il rapporto, instauratosi in via di mero fatto, ricada nella previsione dell’art. 2126 cod. civ..
La questione si lega, quindi, all’altra, ancora discussa in dottrina ed in giurisprudenza, dell’interpretazione dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008, nelle diverse versioni succedutesi nel tempo, con il quale sono state limitate le facoltà assunzionali delle società a controllo pubblico, ed è stato previsto, già prima del T.U., l’obbligo del previo esperimento di procedure concorsuali o, comunque, selettive. La tesi, recentemente accolta dalla giurisprudenza di legittimità , della configurabilità di una nullità, virtuale, del contratto stipulato in difetto delle condizioni imposte dal legislatore e della natura non innovativa della sanzione testualmente prevista dal d.lgs. n. 175/2016 comporta, infatti, che l’accesso alla procedura transitoria e la successione una tantum prevista dall’art. 24 non potranno essere estesi anche ai contratti affetti da nullità.
La redazione del T.U. poteva essere l’occasione per chiarire un tema indubbiamente di rilievo, anche per le ripercussioni che la tesi della nullità ha sulla questione della convertibilità del rapporto a termine stipulato in difetto delle condizioni di legge.
Non è stato fatto e, quindi, ancora una volta la soluzione resta affidata alla dottrina e, soprattutto, alla giurisprudenza che sarà anche chiamata a risolvere i molteplici dubbi interpretativi posti da una disciplina alla quale va riconosciuto il merito di avere operato una sistemazione di norme e principi, lì dove in passato si erano verificati interventi disomogenei ed a volte in contrasto fra loro, ma che ha il limite di non avere chiarito l’interferenza con gli istituti di carattere generale e valutato le conseguenze che, in caso di passaggi, derivano dal mutamento del regime giuridico applicabile al rapporto.

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