Testo Integrale con note e bibliografia

Sommario:
1. Premessa. – 2. Licenziamenti collettivi. Il difficile rapporto tra la legge n. 223/91 e l’art. 7, comma 4 bis, della legge n. 38 del 2008. – 3. Trasferimenti di azienda. La disciplina applicabile. – 4. Clausole sociali e obblighi di riassunzione. – 5. Violazione dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008. Contratti irregolari o nulli?
1. Premessa.
La disciplina del lavoro nelle società partecipate si presenta particolarmente complessa per il sovrapporsi, nel tempo, di discipline normative ispirate a diversi modelli normativi.
In questo contesto, nell’ipotesi di cambi di appalto, si intrecciano istituti diversi (licenziamenti collettivi, trasferimenti di azienda, obblighi di riassunzione per effetto di clausole sociali), rendendo ancor più complessa la materia.
Occorre esaminare, in primo luogo, l’istituto dei licenziamenti collettivi .
La disciplina prevista dalla legge n. 223/1991 è certamente applicabile alla fattispecie, al di là di opinioni largamente superate .
Ma la sua concreta applicazione deve fare i conti con l’art. 7, comma 4 bis, del decreto legge 31/12/2007, n. 248 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31) che, in presenza di particolari condizioni, ne paralizza l’efficacia.
Disposizione, quest’ultima (art. 7, comma 4 bis), che pone delicati problemi esegetici; oltre a imporre all’interprete di verificare il suo possibile contrasto con la direttiva 98/58/CE (in materia di licenziamenti collettivi).
Il secondo istituto che entra in gioco è quello del trasferimento di azienda.
La “continuazione” dei rapporti di lavoro, nell’ipotesi di cambio di appalto, potrebbe, infatti, essere assicurata dall’applicazione dell’art. 2112 cod. civ..
Ma l’applicazione della norma (che presuppone il riconoscimento della natura privata dei rapporti di lavoro con le società partecipate) è subordinata alla presenza delle condizioni previste dall’art. 30 della legge n. 122/2016 che attraverso la verifica di “elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa” tende ad escludere l’ipotesi di trasferimenti d’azienda o di parte di essa.
Configurato un trasferimento di azienda si pone il problema se il diritto alla continuazione dei rapporti di lavoro valga, anche, per i lavoratori assunti senza il rispetto delle procedure di reclutamento.
Analoga questione si pone per il sorgere degli obblighi di riassunzione previsti dalle clausole sociali.
Problema che affronteremo nell’ultima parte di questa riflessione.
2. Licenziamenti collettivi. Il difficile rapporto tra la legge n. 223/91 e l’art. 7, comma 4 bis, della legge n. 38 del 2008.
L’art. 7 del d.l. 31/12/2007 n. 248, al comma 4bis, introdotto dalla legge di conversione del 28 febbraio 2008, n. 31, ha previsto che: “Nelle more della completa attuazione della normativa in materia di tutela dei lavoratori impiegati in imprese che svolgono attività di servizi in appalto e al fine di favorire la piena occupazione e di garantire l’invarianza del trattamento complessivo dei lavoratori, l’acquisizione del personale già impiegato nel medesimo appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non comporta l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, in materia di licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori riassunti dall’azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative”.
La disposizione, secondo una lettura che ha trovato conferma in sede di giurisprudenza di legittimità , pone una deroga all’applicazione della legge n. 223/1991; aggiungendo una eccezione a quelle individuate nel comma 4 dell’art 24 della legge 223 (scadenza di rapporti di lavoro a termine, fine lavoro nelle costruzioni edili, attività stagionali o saltuarie).
La tesi non convince.
Secondo la Corte di giustizia l’elenco delle fattispecie escluse dalla direttiva sui licenziamenti collettivi è da considerare tassativo e insuscettibile di interpretazione estensiva.
Di tale opinione è anche la maggioranza della dottrina che nega la possibilità di ricomprendere, per analogia, la cessazione degli appalti di servizi tra le ipotesi di deroga previste dall’art. 24, comma 4, della l. n. 223/91 .
Ciò non significa, però, che la disposizione sia da considerare, necessariamente, in contrasto con la direttiva 98/59.
Occorre seguire un percorso argomentativo diverso: quello del ricorso alla clausola di favor.
L’art. 7 della direttiva 98/59 prevede, infatti, che:
“La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori o di incoraggiare o consentire l’applicazione di accordi collettivi tra le parti sociali più favorevoli ai lavoratori”.
Siamo in presenza di una clausola di favor che riconosce agli Stati membri la facoltà di conservare o di introdurre (come nel caso di specie) trattamenti migliorativi per il lavoratore in base ad un principio che trova un importante precedente nell’art. 32 della Carta sociale europea del 18 ottobre 1961.
La Corte di giustizia , chiamata a pronunciarsi in un caso (Borsana) in cui era in questione la clausola di favor contenuta nel vecchio art. 118 A del Trattato ha tratteggiato un percorso argomentativo in cui si afferma che la clausola di favor “non ostacola l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato” e che “trattandosi di una misura per una maggiore protezione delle condizioni di lavoro compatibile con il Trattato (…) non spetta alla Corte pronunciarsi sul rispetto, da parte di tale normativa (…), del principio di proporzionalità”.
Naturalmente, occorre che la disposizione interna costituisca, in concreto, una misura di miglior favore rispetto a quella prevista nell’atto comunitario.
La disposizione interna dell’ art. 7 del d.l. 31/12/2007 n. 248, al comma 4bis và allora interpretata alla luce di queste coordinate ermeneutiche.
In quest’ottica, non appare sostenibile ritenere che “l’invarianza del trattamento economico complessivo”, previsto dalla disposizione, attenga, esclusivamente, al rispetto del contratto collettivo utilizzato dall’impresa cessante .
La disposizione, in base ad una interpretazione orientata al rispetto dell’ordinamento europeo, richiede molto di più.
Il rispetto (oltre che del contratto collettivo) delle condizioni contrattuali pattuite individualmente con l’impresa cessante.
Le condizioni per l’applicazione della disposizione interna, infatti, sono tre.
a) Assicurare la piena occupazione con la riassunzione dei lavoratori da parte dell’azienda subentrante;
b) Garantire “parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative”;
c) Assicurare “l’invarianza del trattamento economico complessivo”.
Requisiti che devono concorrere in modo congiunto per giustificare l’esclusione della procedura del licenziamento collettivo.
Mancando anche solo uno di essi, si applica la procedura prevista dai licenziamenti collettivi .
3. Trasferimenti di azienda. La disciplina applicabile.
Il secondo istituto che entra in gioco nei cambi di appalto è quello del trasferimento di azienda.
La materia è regolata, sulla base della natura privata dei rapporti di lavoro nelle società partecipate , dall’art. 30 della legge 7 luglio 2016, n. 122 .
Con l’art. 30, comma 1, della legge n. 122/2016, il Legislatore ha sostituito il previgente art. 29, comma 3. del d.lgs n. 276/2003 disponendo che “l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.
La modifica ha preso le mosse dalla procedura di pre-infrazione avviata nei confronti dell’Italia
La Commissione aveva ritenuto non soddisfacente l’approccio interpretativo della Corte di Cassazione alla previgente disposizione nonostante quest’ultima, a dispetto del tenore letterale della norma, ritenesse astrattamente possibile qualificare in termini di trasferimento anche le ipotesi di cambio di appalto caratterizzate – oltre che dal passaggio del personale – da cessione di beni di “non trascurabile entità”.
Il dato di più immediata percezione sembra essere quello della radicale inversione nella prospettiva del Legislatore che sembra aver introdotto una sorta di presunzione di operatività dell’art. 2112 c.c. nelle ipotesi di subentro di appalto con contestuale assunzione dei lavoratori già impiegati.
L’individuazione del concetto di “discontinuità” non è però agevole.
La lettura della nuova disposizione deve essere operata in conformità all’ordinamento dell’Unione europea e, in particolare, alle sentenze della Corte di giustizia .
Si dovrà identificare, quindi, un trasferimento di azienda anche laddove il nuovo appaltatore subentri al precedente acquisendo la “parte essenziale dell’organico” , pure in assenza di un trasferimento di beni materiali e immateriali secondo una impostazione, peraltro, già accolta in sede di legittimità .
Dovrà, invece, escludersi che si verta in una ipotesi di “identità d’impresa” tutte le volte che l’organizzazione del soggetto subentrante preveda una gestione del tutto diversa del servizio appaltato.
Ad esempio, quando il servizio venga effettuato dal subentrante attraverso l’utilizzo di beni (materiali e immateriali) già in suo possesso e con l’utilizzo del proprio personale con la sola riassunzione del personale dell’impresa cessante che risulti necessario a ricoprire carenze di organico.
La mera riduzione quantitativa dei servizi appaltati non sembra, viceversa, comportare “discontinuità d’impresa”, secondo una impostazione già fatta propria dalla giurisprudenza di merito.
Configurato un “trasferimento di azienda” si pone il problema di quale personale abbia diritto alla continuazione del rapporto di lavoro in assenza della procedura di reclutamento prevista dalla legge .
Nel conflitto tra l’art. 2112 c.c. (che garantisce il diritto del lavoratore alla “continuità del rapporto di lavoro” nella vicenda circolatoria) e l’art. 19, comma 4, d.lgs n. 175/2016 (che prevede una espressa comminatoria di nullità per le assunzioni in “assenza dei provvedimenti o delle procedure di cui al comma 2”) deve prevalere la seconda disposizione (anche per l’evidente connessione con l’art. 97 della Costituzione) con la conseguente impossibilità di ravvisare, in tali casi, un diritto alla “continuazione” del rapporto di lavoro .
Molto più delicata è la questione del conflitto tra l’art. 2112 del cod. civ. e l’art. 18 d.l. n. 112/2008.
La prevalenza della prima disposizione sull’altra dipende dalla configurazione delle conseguenze derivanti dalla violazione dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008.
Ove si configuri una nullità virtuale non è, ovviamente, possibile riconoscere un diritto alla continuazione del rapporto di lavoro.
Viceversa, se si ritiene che la violazione integri una mera “irregolarità”, il diritto alla continuazione del rapporto è certamente configurabile.
Torneremo sul tema nell’ultimo paragrafo.
4. Clausole sociali e obblighi di riassunzione.
Un’ultima breve riflessione và rivolta alle clausole di riassunzione o di assorbimento della manodopera (c.d. clausole sociali di seconda generazione).
I contratti collettivi, infatti, intervengono soprattutto in quei settori produttivi dove il fenomeno delle esternalizzazioni e della successione di contratti di appalto risulta più diffuso.
Tali clausole, com’è noto , sono opponibili all’impresa subentrante solo se anch’essa applichi lo stesso contratto collettivo o altro contratto che contempli analogo obbligo”.
I contenuti delle clausole sociali sono diversi e variano in base ai diversi contratti collettivi.
In alcuni casi si prevede l’obbligo di assumere, in tutto o in parte, i lavoratori del precedente appaltatore.
In altri casi, si modulano gli obblighi di assunzione in base al numero di lavoratori interessati o all’anzianità di servizio .
Da ultimo, è intervenuto l’art. 50 del d.lgs n. 50/2016 (nel testo modificato dal d.lgs 19 aprile 2017, n. 56 ) che ha previsto l’obbligo di inserire specifiche clausole sociali nei bandi di gara.
E’ da verificare, peraltro (tra i molti problemi che la disposizione solleva ), se, in linea con la giurisprudenza amministrativa , le clausole verranno interpretate nel senso che la mancata riassunzione di parte del personale possa essere giustificata da “una diversa organizzazione del lavoro e dall’ausilio di nuovi strumenti tecnici e informatici”.
Anche in questo caso, peraltro, si pone il problema se sia configurabile un diritto alla riassunzione (in base alle clausole sociali) per i dipendenti assunti dalla impresa cessante senza il rispetto delle procedure di reclutamento .
Problema di fondo (comune al tema del trasferimento di azienda) che occorre adesso affrontare.
5. Violazione dell’art. 18 d.l. n. 112/2008. Contratti irregolari o nulli ?
L’art. 18 del d.l. n. 112/2008 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133/2008 e con le modifiche apportate dalla legge n. 102/2009 di conversione del d.l. n. 78/2009) estende, al primo comma, alle società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici locali i criteri stabiliti in tema di reclutamento del personale dall’art. 35, comma 3, del d.lgs n. 165 del 2001
Al secondo comma prescrive alle “altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo” di adottare “con propri provvedimenti criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità”.
Il comma 2 bis prevede, inoltre, che “le disposizioni che stabiliscono, a carico delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale si applicano, in relazione al regime previsto per l’amministrazione controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 5 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311”.
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5a)La Suprema Corte, nelle sentenze gemelle rese nei primi mesi del 2018 , “premesso che non può dubitarsi del carattere imperativo della disposizione in commento” ritiene “che l’omesso esperimento delle procedure concorsuali previste dal comma 1 e di quelle selettive richiamate nel comma 2 determini la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 1, cod. civ., perché la violazione attiene al momento genetico della fattispecie negoziale e, quindi, la stessa non può essere solo fonte di responsabilità a carico del contraente inadempiente”.
L’affermazione si basa su una serie di passaggi argomentativi che, in sintesi, occorre ricordare.
In primo luogo, la norma recepisce i principi affermati dalla Corte costituzionale che ha osservato che il solo mutamento della veste giuridica dell’ente non è sufficiente a giustificare la totale eliminazione dei vincoli pubblicistici, “ove la privatizzazione non assuma anche connotati sostanziali, tali da determinare l’uscita delle società derivate dalla sfera della finanza pubblica”.
In sostanza, occorre distinguere la privatizzazione sostanziale da quella formale, con la conseguenza che, in questa seconda ipotesi, “viene comunque in rilievo l’art. 97 Cost., del quale l’art. 18 del d.l. n. 112/2008 costituisce attuazione, tanto da vincolare il legislatore regionale ex art. 117 Cost.”
In secondo luogo, le Sezioni Unite hanno evidenziato che la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società la quale, quindi, resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, “salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica”.
Ricostruzioni giuridica fatta propria dal Legislatore nel 2016 (art. 1, comma 3, del d.lgs n. 165/2016) che, all’art. 19, comma 2, impone alle società a controllo pubblico di stabilire “criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”; prevedendo, al 4 comma, espressamente la nullità dei contratti di lavoro stipulati in difetto dei provvedimenti e delle procedure di cui al comma 2”.
Disposizione, quest’ultima (art. 19, comma 4, d.lgs n. 175/2016), che “non ha portata innovativa”, rendendo “solo esplicita una conseguenza già desumibile dai principi” in tema di nullità virtuali.
Nel’ambito delle nullità virtuali bisogna, infatti, operare una distinzione tra le norme di comportamento dei contraenti e quelle di validità dei contratti.
Queste ultime (norme che incidono sulla validità del contratto) non sono solo quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale ma anche quelle che “in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalla legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi – ancor più radicali di quelli dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo”.

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5b)L’orientamento della Suprema Corte non è condiviso da una parte della dottrina.
Gli argomenti a sostegno della critica sono i seguenti.
I)Si è evidenziato, sulla base dell’interpretazione letterale, che nell’art. 18 del d.l. n. 112/2008 sembra possibile individuare “un mero obbligo di comportamento”, destinato “ad una sola delle parti e connotato da un sintomatico rinvio a margini di discrezionalità che le società controllate comunque conserverebbero nell’attuazione del prescritto obbligo provvedimentale” .
II)L’adempimento del comando sembrerebbe, poi, “ininfluente ai fini contrattuali, in quanto relativo ad una fase preliminare e distinta rispetto a quella di instaurazione del singolo rapporto di lavoro, con conseguente esclusione, in carenza di una espressa disposizione normativa, di effetti patologici diversi da quelli attinenti a eventuali profili di responsabilità degli organi amministrativi o di controllo rimasti inadempienti” .
III)Sul piano normativo, vengono richiamati l’art. 35 del d.lgs n. 165/2001 (che impone alle amministrazioni l’obbligo di subordinare l’assunzione di personale all’espletamento di specifiche procedure selettive) e la legge regionale dell’Abruzzo (5 agosto 2004, n. 23) che ha reso obbligatorio “il rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l’assunzione di personale dipendente”.
Disposizioni che a differenza della legge del 2008 prevedono sanzione espresse .
IV)Le stesse Sezioni Unite (n. 7759/2017), peraltro, “affermano o fanno intendere che le assunzioni in violazione delle leggi del 2008 e del 2009 sarebbero irregolari e tuttavia valide”
V) L’art. 19 del d.lgs n. 175 del 2016, in questo contesto, non avrebbe una “valenza chiarificatrice” ma innovativa .
VI)Sarebbe, infine, auspicabile un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione .
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Esaminiamo, sia pure in sintesi, gli argomenti posti a sostegno della critica alle “sentenze gemelle” della Suprema Corte.
I primi due rilevi (I e II), che possiamo esaminare in modo congiunto, non convincono.
In primo luogo, perché il secondo comma dell’art. 19 (in modo analogo alla disciplina del 2008) non stabilisce obblighi diretti in capo alle società partecipate, imponendo ad esse di adottare un regolamento di natura privatistica (“con propri provvedimenti”) nel quale dovranno essere fissati “criteri e modalità per il reclutamento del personale”.
In secondo luogo, perché il richiamo alle norme di comportamento non appare convincente.
La distinzione tra norme di comportamento e norme di validità del contratto affonda le sue radici nei principi del codice civile ma è stata messa in discussione con l’avvento della legislazione di derivazione europea .
Disposizioni che si sono a tal punto diffuse nel tessuto normativo da non consentire di disconoscerne la valenza sistematica.
Ma anche a ritenere che si tratti di “una tendenza e non di una acquisizione” occorre rilevare che le stesse Sezioni unite, nella sentenza richiamata nelle sentenze gemelle (la n. 26724/2007 ), superano l’impostazione tradizionale tesa a individuare le norme imperative la cui violazione determina la nullità del contratto essenzialmente in quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti.
Restringendo l’area in cui può essere riscontrata la violazione di regole di comportamento viene riconosciuta, infatti, l’esistenza di ipotesi di nullità “nella violazione di norme che riguardano elementi estranei a quel contenuto o a quella struttura” quali, ad esempio, in mancanza di una prescritta autorizzazione a contrarre o di clausole concepite in modo da consentire l’aggiramento di divieti a contrarre o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti oppure in caso di contratti le cui clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti .
L’evoluzione della giurisprudenza della Corte può allora cogliersi nella teorica del “giusto rimedio” che deve essere individuato in virtù della peculiarità del caso concreto verificando “quali interessi sono effettivamente coinvolti, bilanciarli nella logica del sistema e, in ultimo, individuare la misura più adeguata per la loro tutela” .
In sostanza, per stabilire se una norma imperativa incida o no sulla validità del contratto non basta verificare se il comportamento scorretto sia o no penetrato nel regolamento negoziale determinando un disvalore strutturale o funzionale dell’atto, ma occorre analizzare “gli interessi implicati nella norma e quelli coinvolti nella fattispecie concreta” accordando preferenza al rimedio che garantisce “alla luce dei parametri di ragionevolezza, adeguatezza ed effettività, un ponderato bilanciamento fra le esigenze confliggenti e la prevalenza dell’interesse che, alla luce del sistema, appare meritevole di trovare attuazione”.
Alla luce di tale indicazione metodologica (considerati gli interessi pubblici implicati dalla norma ed il doveroso rispetto del principio di effettività della sanzione) appare corretta l’applicazione della sanzione della nullità contrattuale (anziché quella della mera irregolarità, con conseguenze solo risarcitorie) in presenza di una violazione dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008.
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Il terzo rilievo (III), di carattere normativo, non appare decisivo.
Perlomeno, per due ragioni.
In primo luogo, perché la violazione del terzo comma dell’art. 35 del D.lgs n. 165/2001 (letto in connessione con il secondo comma dell’art. 63 dello stesso provvedimento) non sembra riconducibile, secondo un’opinione dottrinale, all’area delle nullità virtuali del contratto .
La disposizione, con tecnica diversa da quella adottata nell’art. nell’art. 18 del d.l. n. 112/2008, sembra, viceversa, legittimare l’amministrazione solo ad una pronuncia costitutiva di annullamento.
In secondo luogo, perché appare difficile utilizzare l’argomento a contrario comparando disposizioni di natura diversa (una disposizione regionale con una previsione nazionale).
In realtà, la lettura dell’art. 7, comma 4, lettera f) della legge regionale Abruzzo n. 23 del 2004, sembra offrire, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale, argomenti a sostegno delle decisioni della Suprema Corte.
La norma era stata censurata “in quanto la stessa, nel prevedere che le società a capitale interamente pubblico, affidatarie del servizio pubblico” fossero “obbligate al rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l’assunzione di personale dipendente” poneva “a carico di società private obblighi e oneri non previsti per l’instaurazione dei rapporti di lavoro nel settore privato ed invadeva quindi la competenza statale nella materia “ordinamento civile” (art. 117, secondo comma, lettera I, Cost.)”.
La risposta della Corte Costituzionale è stata laconica.
La questione non è fondata perché “la disposizione in esame non è volta a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 della Costituzione rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico ancorchè formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici”.
L’affermazione, al di là di qualche ambiguità (conseguenza di una motivazione eccessivamente stringata), contiene un messaggio di fondo.
In presenza di una privatizzazione formale (e non sostanziale) resta impregiudicata l’applicazione dell’art. 97 della Costituzione per assicurare criteri di merito e trasparenza nelle assunzioni.
L’art. 18 del d.l. n. 112/2008 (come l’art. 7, comma 4, lettera f) della legge regionale Abruzzo n. 23 del 2004) deve, quindi, essere interpretato alla luce dell’art. 97 della Costituzione (c.d. interpretazione adeguatrice ) con la conseguente applicazione di una sanzione equivalente (quella della nullità) al di là della sua previsione espressa.
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Analoga indicazione (in relazione al quarto rilievo, IV) sembra cogliersi nella sentenza delle Sezioni Unite del 2017 (n.7759).
Nella sentenza non vi è alcuna affermazione che sancisca, in modo espresso, che le assunzioni in violazione dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008 “sarebbero irregolari e tuttavia valide”.
La motivazione, implicitamente, depone in direzione opposta.
Le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario, contabile e amministrativo, hanno evidenziato che la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società.
Con la conseguenza che la stessa resta assoggettata al regime giuridico dello strumento privatistico adoperato “ove non vi siano specifiche disposizioni in contrario o ragioni ostative di sistema ”.
Ragioni “ostative di sistema” che vanno individuate, in primo luogo, nell’obbligo di dare applicazione al principio di cui all’art. 97 della Costituzione in presenza di una privatizzazione solo formale che impone alle società partecipate vincoli procedurali, nella fase del reclutamento, per assicurare l’esigenza di selezionare secondo criteri di merito e di trasparenza i soggetti chiamati allo svolgimento dei compiti che l’erogazione di servizi di interesse generale impone.
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L’esclusione della portata “innovativa dell’art. 19, comma 4, del d.lgs n. 175/2016” (quinto rilevo, V), infine, può trovare giustificazione nella necessità di una “valenza chiarificatrice della disciplina previgente ” imposta, tra l’altro, dall’esistenza di orientamenti di merito totalmente divergenti.
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Resta il fatto che tutti gli argomenti in campo non sono risolutivi.
L’intervento delle Sezioni Unite è, quindi, auspicabile in presenza di una questione di massima e particolare importanza .

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