Testo integrale con note e bibliografia

1.L’elaborata sentenza in epigrafe, che si pone in consapevole contrasto con il più recente orientamento inaugurato delle Sezioni unite della Corte di legittimità e sostanzialmente avallato dalla stessa Corte costituzionale , ripropone il tema dell’obbligo retributivo, posto in capo al cedente, a seguito di un contratto di cessione di ramo d’azienda dichiarato giudizialmente illegittimo, a fronte di una prestazione di lavoro svolta e, comunque, già retribuita dal cessionario, nei confronti dei lavoratori coinvolti nella cessione .
Prima di esaminare l’iter argomentativo del giudice di merito è necessario dar conto dell’orientamento delle Sezioni Unite, peraltro ulteriormente confermato dalla stessa Corte di legittimità .

2. Le Sezioni unite della Cassazione del 2018 prendono le mosse dalla decisione della Corte costituzionale dell’11 novembre 2011 n. 303 in materia di disciplina del contratto a termine, la quale aveva stabilito che, a partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro, il quale prevedeva una scadenza, in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. Nel ragionamento dei giudici della Consulta la soluzione risarcitoria non sarebbe, per un verso, un deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il lavoratore e, per altro verso, svuoterebbe di significato la tutela fondamentale della conversione in un rapporto a tempo indeterminato, ponendo nel nulla il riconoscimento, da parte del giudice, della durata indeterminata del rapporto.
Nello sviluppo argomentativo delle Sezioni unite dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pronuncia giudiziale, discendono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed, in particolare, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare la retribuzione, anche nel caso di mora credendi e, quindi, di mancanza della prestazione lavorativa per rifiuto datoriale di riceverla.
A prescindere dalle argomentazioni utilizzare con riferimento alla mora del creditore, sulle quali sono state rilevate perplessità e carenze sul piano del percorso ricostruttivo - sul punto estremamente sintetico - delle Corte di legittimità , va, comunque, rilevato, come è stato ragionevolmente dimostrato, che il principio operae praeteritae sunt peritae non determina, nel rapporto di lavoro, una situazione di impossibilità definitiva della prestazione, in quanto non esclude un’”offerta per il futuro, e, quindi, una valida costituzione in mora” ai sensi della disciplina del codice civile” ; inoltre l’adempimento deve essere guardato nel suo complesso e non nel frazionamento atomistico delle operae .
In ogni caso dall’art. 1207, primo comma, del codice civile può evincersi il diritto alla retribuzione nel caso di mora accipendi del datore di lavoro, laddove l’impossibilità della prestazione sia dovuta al suo rifiuto di riceverla e, di ricalzo, risulta tuttora vigente l’art. 6, ultimo comma, del r. d. l. n. 1825/1924, che prevede il diritto del dipendente alla corresponsione dell’integrale retribuzione nell’ipotesi di “sospensione del lavoro per fatto del principale” , nella quale, parimenti, può riscontrarsi un’alterazione del principio di corrispettività.
Tale alterazione, nell’orientamento delle Sezioni unite, può ragionevolmente discendere dall’innesto nei principi generali in materia di adempimento contrattuale, laddove venga riconosciuta – in via giudiziale – la sussistenza di un rapporto di lavoro, a fronte di un rifiuto (ingiustificato) del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa, materialmente possibile, ma interdetta a fronte della (presunta) incoercibilità degli obblighi di facere.
Tale conclusione, che induce al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività, nella misura in cui la mancata riammissione in servizio del dipendente (in violazione dei principi di buona fede e correttezza), vanifica l’effettività della pronuncia giudiziale, si pone in contrasto, come sottolineano le Sezioni unite, con i precetti costituzionali degli art. 3, 36 e 41 Cost., se ai lavoratori venisse riconosciuto esclusivamente il risarcimento del danno.
In una proiezione successiva la stessa Corte di legittimità ha precisato che la continuità del rapporto di lavoro, nei suoi elementi oggettivi, si realizza in presenza di una fattispecie traslativa conforme al modello legale, disegnato dall’art. 2112 c.c.; ne consegue che, nel caso in cui il trasferimento sia stato dichiarato invalido, si verifica l’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già e non più cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare . In tale ipotesi, secondo la Corte, può rintracciarsi una duplicità di rapporti: uno ripristinato, nei confronti dell’originario datore di lavoro (il cedente), con diritto del lavoratore alla controprestazione retributiva a seguito della costituzione in mora di quest’ultimo e un rapporto di fatto, con il soggetto (già cessionario), effettivo utilizzatore della prestazione.
L’ineccepibile conclusione raggiunta dalla Corte, fondata su una rigorosa lettura degli obblighi contrattuali, si giustifica evidentemente con riferimento al periodo successivo all’accertamento giudiziale di illegittimità del trasferimento, ma può destare qualche perplessità in relazione al periodo antecedente a quest’ultimo , a fronte di una prestazione resa (e già retribuita) dal cessionario, profilo, al quale cerca di rispondere la decisione in epigrafe, con argomentazioni sovrabbondanti per il tema esaminato (come quelle relative alla mora credendi).

3. La decisione in epigrafe erroneamente lamenta, con riferimento al percorso argomentativo inaugurato delle Sezioni Unite, una mancata collocazione della fattispecie “nell’ambito della normativa sull’esecuzione del contratto e sull’adempimento delle obbligazioni”, laddove, viceversa, la Corte di legittimità, come già chiarito, innerva il suo iter argomentativo proprio sulla valorizzazione degli obblighi contrattuali. Nel contempo dal giudice di merito non viene ricordato che la Corte costituzionale, in sostanziale adesione alla Corte di cassazione, ha puntualizzato che quest’ultima “mira a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro” .
Inoltre lo stesso giudice di merito opera un palese travisamento della stessa sentenza della Corte costituzionale m. 303 del 2011 in materia di contratto di lavoro a tempo determinato, che non si è solo limitata ad esaminare il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 32, quinto comma, l. n. 183 del 2010, ma ha proiettato la questione anche sul piano della sussistenza dell’obbligo retributivo a seguito della conversione, a seguito della decisione giudiziale, in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, anche in caso di mancata riammissione effettiva del lavoratore.
Pertanto il giudice di merito, sotto il profilo della mora credendi, continua tralatiziamente a ricordare che, nei contratti di durata, l’inadempimento agli obblighi di cooperazione rende impossibile la prestazione per il tempo in cui può essere eseguita, impossibilità che determina il diritto al risarcimento del danno, trascurando i successivi sviluppi interpretativi, i quali, applicando l’istituto al rapporto di lavoro, hanno, comunque, segnalato il superamento del criterio delle operae peritae, nell’ambito del rapporto di lavoro , rispetto al quale dubbia appare anche l’equiparazione con i contratti di fornitura di servizi, anche tra imprenditori con diversa forza economica.
Infatti si può replicare che “il trattamento singolare” riservato al rapporto di lavoro, rispetto agli altri rapporti contrattuali, può trovare una sua giustificazione nel rispetto proprio di questi principi costituzionali, invocati dalle Sezioni Unite della Cassazione, laddove il confronto “con tutti i contraenti deboli che subiscono lo strapotere del contraente forte” si palesa del tutto generico ed approssimativo, a fronte della strutturale – e riconosciuta – “debolezza contrattuale” che inoppugnabilmente consegue al lavoro subordinato.
Pertanto sul piano ricostruttivo generale non possono essere disattese le conclusioni delle Sezioni unite in materia di applicazione della mora credendi nel rapporto di lavoro, nonché le implicazioni che sono state tratte, in materia di adempimento dell’obbligo retributivo e a fronte di un trasferimento (illegittimo) di azienda, dalla stessa Corte regolatrice .
Se il vero “spartiacque” è, comunque, rappresentato dalla pronunzia giudiziale che, nel caso specifico, dichiara l’illegittimità della cessione e ripristina il rapporto di lavoro in capo al cedente – con i correlativi obblighi contrattuali - l’eventuale protrazione della prestazione lavorativa presso il (già) cessionario non potrà che determinare la possibile diversificazione del rapporti, come ipotizzato dalla Corte regolatrice .
La questione si può riaprire, viceversa, per il periodo antecedente la pronunzia giudiziale, durante il quale i lavoratori hanno effettuato la prestazione lavorativa presso il cessionario, ricevendo da quest’ ultimo la retribuzione. Su tale versante si colloca la sentenza in commento nello sforzo – del quale va dato atto al giudicante – di trovare un ragionevole componimento degli interessi in conflitto.
In primo luogo appare sicuramente fuorviante ipotizzare ex sé un accordo tra cedente e cessionario – se non sul piano, meramente descrittivo della fraudolenta cessione accertata giudizialmente dal giudice – che, in secondo luogo, costituisce lo scenario nel quale il giudicante ritiene utilizzabile, quale principio di carattere generale, l’art. 1180 del codice civile, sull’adempimento del terzo, alla cui stregua il cessionario, che paga la retribuzione, adempie un’obbligazione altrui.
Su tale profilo può agevolmente replicarsi, con le stesse stringenti argomentazioni della Corte regolatrice, che il cessionario adempie ad un’obbligazione propria, non estinguendo un debito altrui , con l’ulteriore considerazione che la retribuzione corrisposta da quest’ultimo, per il periodo antecedente alla pronunzia giudiziale, risponde sicuramente ad un interesse proprio dell’organizzazione produttiva del cessionario, salvo a provare che, nel caso specifico, si sia realizzata, sotto il “simulacro” del trasferimento d’azienda, un mera dislocazione di manodopera la quale, presso un cessionario “fittizio”, continui a prestare la propria attività a beneficio del cedente.
Appare poi difficile ipotizzare, ai fini di consentire la corresponsione della “doppia retribuzione” ai lavoratori, il riconoscimento dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente come “misura sanzionatoria” , alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale sui c. d. danni punitivi, che, come osserva correttamente il giudice di merito, implica comunque una tipizzazione legislativa . Nel nostro caso tuttavia la corresponsione della retribuzione, in capo al cedente, va riguardata, sul piano sistematico, come l’adempimento di un obbligo contrattuale, senza scivolare sulla controversa questione dei “danni punitivi” , in quanto la questione dovrebbe essere riguardata sotto un altro profilo.
Innanzitutto, la realistica valorizzazione dei principi di buona fede e ragionevolezza troverebbe una sponda debole se si affidasse al solo intervento giudiziale “correttivo” secondo equità , non appoggiato ad un intervento legislativo in tal senso.
Sotto quest’ultimo versante, viceversa, sarebbe necessario un lineare intervento legislativo che estendesse, con gli opportuni adattamenti, la disposizione, esistente in materia di somministrazione irregolare di lavoro, contenuta nell’art. 38, terzo comma, d.lgs. n. 81 del 2015, alla cui stregua tutti i pagamenti effettuati dal somministratore a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione del debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata .
In assenza comunque di un auspicabile intervento legislativo i ragionevoli rilievi in ordine alla lesione del principio di eguaglianza (ex art. 3 Cost.), per l’evidente disparità che viene a prodursi tra il trattamento retributivo assicurato ai lavoratori nel caso di trasferimento d’azienda, dichiarato giudizialmente illegittimo, rispetto a quello garantito ai lavoratori nelle ipotesi di somministrazione irregolare e appalto illegittimo ( v. già l’art. 27 d.lgs, n. 276 de 2003, nonché l’art. 29, comma 3-bis. , d.lgs. cit. – in materia di appalto - ed ora il richiamato art. 38, terzo comma, d.lgs. n. 81 del 2015) costituiscono il presupposto per tentare un’interpretazione analogica della richiamata disciplina legale .
Anche se non appare pacifica un’assimilazione tra i diversi fenomeni della somministrazione e della cessione d’azienda, alla stregua dell’orientamento della Corte di legittimità , è pur vero la medesima situazione sostanziale, la quale consentirebbe tale operazione interpretativa può giovarsi del rilievo – correttamente valorizzato dal giudice di merito – che all’imputazione del rapporto di lavoro al reale beneficiario della prestazione, come avviene nelle fattispecie della somministrazione irregolare e dell’appalto illegittimo, può ben essere equiparato il caso della cessione d’azienda, realizzata con la dislocazione dei dipendenti presso un’azienda priva dell’autonomia funzionale necessaria per integrare un legittimo trasferimento del complesso aziendale.

 

 

 

 

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