Testo integrale con note e bibliografia

a) la pandemia da COVID-19 ed il vaccino.
Il “virus” - oltre a incidere direttamente sulle nostre abitudini quotidiane e sull’educazione e la crescita dei nostri figli - ha inciso sulla percezione della solidità dei nostri principi costituzionali.
Nessuno di noi, formatosi sulla Carta Costituzionale, avrebbe mai immaginato un giorno di dover studiare provvedimenti di natura strettamente governativa (DPCM) e limitativi della libertà personale e di impresa.
All’esito dell’ulteriore proroga del divieto ai licenziamenti cd. economici fino a marzo 2021, è doveroso ricordare che tale divieto (tra una proroga e l’altra) ormai è in vigore da quasi un anno; con conseguenti dubbi di legittimità costituzionale, oltre che per la natura della fonte (spesso di natura amministrativa) anche per il contrasto con l’art. 41, primo comma, della Costituzione “L’iniziativa economica privata è libera”.
Sul punto si rilevano almeno due provvedimenti giurisdizionali delle Corti di merito che non hanno escluso aprioristicamente l’illegittimità costituzionale dell’attività normo-pandemica posta in essere dal governo, soprattutto per la continua rinnovazione della stessa.
In proposito si legga: (1) «le misure finora assunte per fronteggiare l’epidemia da covid 19, di cui la difesa erariale enfatizza la temporaneità, nei fatti risultano avere sostanzialmente perso tale connotazione stante la rinnovazione di gran parte delle stesse con cadenza quindicinale o mensile - il Collegio ritiene che le numerose e complesse questioni, anche di illegittimità costituzionale, prospettate in ricorso richiedano l’approfondimento da effettuarsi nella naturale sede di merito» (Vedi Tar Lazio, 4 dicembre 2020, n. 7468) e (2) « Appare evidente che la limitazione ai diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti che si è verificata nel periodo di emergenza sanitaria è dovuta, quindi, non all’intrinseca diffusione pandemica di un virus ex se, ma alla adozione “esterna” dei provvedimenti di varia natura (normativi ed amministrativi) i quali, sul presupposto della esistenza di una emergenza sanitaria, hanno compresso o addirittura eliminato alcune tra le libertà fondamentali dell’Uomo, così come riconosciute sia dalla Carta Costituzionale che dalle Convenzioni Internazionali […] Anche i DPCM che disciplinano la Fase 2 sono, ad avviso di questo giudicante, di dubbia costituzionalità poiché hanno imposto una rinnovazione delle limitazioni dei diritti di libertà che avrebbe invece richiesto un ulteriore passaggio in Parlamento diverso rispetto a quello che si è avuto per la conversione del decreto “Io resto a casa” e del “Cura Italia”(cfr. Marini). Si tratta pertanto di provvedimenti contrastanti con gli articoli che vanno dal 13 al 22 della Costituzione e con la disciplina dell’art. 77 della Costituzione, come rilevato da autorevole dottrina costituzionale» (Vedi Trib. Roma, ord. 16 dicembre 2020, n. 25283).
Allo stato, però, nonostante tali pronunce, non risulta, per quanto di nostra conoscenza, ancora nessuna ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale dei provvedimenti emanati in questo periodo.
L’emergenza sanitaria ha avuto un’ulteriore evoluzione con l’annuncio, nello scorso mese di novembre ed all’indomani delle elezioni del Presidente degli Stati Uniti, del ritrovamento di un vaccino prima da parte di Pfizer e successivamente anche da parte di altre aziende farmaceutiche.
Annuncio caratterizzato da non pochi elementi di dubbio sulla sua efficacia; sia per la velocità con la quale è stato ritrovato che per l’impossibilità di verificarne eventuali effetti collaterali sul lungo periodo. Ad alimentare lo scetticismo, si è aggiunta la notizia che il CEO di Pfizer contestualmente all’annuncio aveva venduto una parte della propria partecipazione azionaria alla società da lui amministrata .
b) Il dibattito giuridico sull’obbligatorietà del vaccino in ambito lavorativo.
Lo scorso mese di dicembre la stampa ed i media, ovviamente, hanno focalizzato la propria attenzione sulle capacità produttive e distributive delle aziende farmaceutiche interessate e sull’attività dei governi per la predisposizione di una campagna di vaccinazione.
In tale contesto, anche i giuslavoristi hanno preso in esame una questione di rilievo: è obbligatoria la vaccinazione in ambiente di lavoro?
Se il lavoratore rifiuta il vaccino, il datore di lavoro può recedere dal rapporto?
Allo stato, le principali tesi avanzate da autorevoli giuristi sono essenzialmente tre:
a) vi è chi richiamando l’art. 279 del TUSL (Testo Unico della sicurezza del lavoro) nella parte in cui prevede la “messa a disposizione di vaccini efficaci” rileva «Certo, la “messa a disposizione” del vaccino contro il Covid-19 non vale di per sé sola a rendere obbligatoria per i lavoratori la sottoposizione a tale vaccino. Ma attenzione: lo stesso art. 279, comma 2, non si limita a prescrivere “la messa a disposizione di vaccini efficaci”, ma impone, altresì, “l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell'articolo 42”. E l’art. 42 stabilisce che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza» ;
b) chi, in un’intervista ad un principale quotidiano nazionale, si limita a prendere in esame l’art. 2087 cod. civ. ed estende la sua interpretazione fino ad ipotizzare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore che rifiuta il vaccino: «Chiunque potrà rifiutare la vaccinazione; ma se questo metterà a rischio la salute di altre persone, il rifiuto costituirà un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro» ;
c) chi, ancora, pur ipotizzando un’inidoneità alla prestazione del lavoratore che rifiuta il vaccino rileva che «si tratterebbe di una inidoneità solo temporanea, in quanto connessa all’andamento della pandemia (essendo evidente che più saremo prossimi alla c.d. immunità di gregge e meno facilmente potrà affermarsi la natura indispensabile della misura vaccinale). In tal caso potrebbe verificarsi una sospensione del rapporto di lavoro, anche non retribuita, in applicazione di istituti previsti dai contratti collettivi (congedi, aspettative ecc.) o dei principi generali sull’impossibilità solo temporanea della prestazione: il cui esito non è sempre e necessariamente il recesso, dovendo il datore di lavoro privilegiare una soluzione conservativa del rapporto di lavoro ove non dimostri l’incompatibilità con gli assetti organizzativi o l’eccessiva onerosità della soluzione» .
Come si può evincere dalla lettura di quanto sopra appare pacifico che non vi è una soluzione univoca sul riconoscere in capo al datore di lavoro il diritto/dovere di “obbligare” il lavoratore ad effettuare il vaccino.
Parimenti, allo stato, è possibile soltanto interpretare come fosse una “fisarmonica” la normativa vigente; in quanto non vi è alcuna previsione normativa espressa di un obbligo in tal senso.
Occorre in ogni caso tener conto che aderire ad una interpretazione piuttosto che ad un’altra potrebbe portare, in caso di intervenuto contagio in sede lavorativa, gravi ripercussioni sul datore di lavoro. In capo a quest’ultimo, infatti, potrebbe sorgere una responsabilità penale da lesione colposa (o addirittura di omicidio).
c) L’attuale quadro normativo e le intenzioni dei governi europei.
Ad oggi non vi è stato alcun intervento legislativo ad hoc sulla questione lavoratore/ vaccino obbligatorio, né pare ve ne saranno in un prossimo futuro.
Il premier Conte nella conferenza stampa a Villa Madama del 30 dicembre 2020 sulla questione ha dichiarato “Per quanto riguarda una vaccinazione obbligatoria, non la valutiamo” . Tale indirizzo politico sembra in linea con il resto dei governi europei, dove in Spagna il ministro della Salute Salvador Illa ha dichiarato che “Il vaccino contro il coronavirus in Spagna non sarà obbligatorio ma chi deciderà di non farlo sarà inserito in un “registro” che sarà poi condiviso con gli altri Paesi dell'Ue” ; il governo greco, poiché la metà dei cittadini intende rifiutare il trattamento sanitario, ha già annunciato che il vaccino contro il Covid-19 non sarà obbligatorio ma “fortemente raccomandato” . In Francia, così il presidente Marcon: “L’ho detto e lo ripeto: il vaccino non sarà obbligatorio” .
In questo contesto, interessante la proposta su cui il governo della Repubblica di San Marino sta ragionando: “A San Marino i cittadini che sceglieranno di non fare il vaccino per il Covid-19, quando questo sarà disponibile, gratuito ma non obbligatorio, dovranno pagarsi le cure di tasca propria qualora dovessero ammalarsi per il Coronavirus” .
Ciò premesso, per provare a dirimere la questione oggetto del presente intervento, occorre inevitabilmente individuare le norme attualmente in vigore e verificarne la tenuta costituzionale di un’eventuale interpretazione estensiva.
Si dovrà partire inevitabilmente dallo studio dell’art. 32, secondo comma, Cost. dove si legge «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» da mettere a confronto, oltre che con l’art. 2087 cod. civ. e l’art. 279 TUSL (vedi prec. paragr.), anche con l’art. 5 dello St. Lav. per gli accertamenti sanitari sul lavoratore dipendente «Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha la facoltà di far controllare l’idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico» e con il d.l. 7 giugno 2017 n. 73 per le vaccinazioni obbligatorie (ed i previsti adempimenti vaccinali per l’iscrizione del minore alle scuole).
Obbligo vaccinale contemperato nel nostro ordinamento - in caso di conseguente danno biologico - con l’indennizzo di cui alla L. 25 febbraio 1992, n. 210.
Dalla lettura delle norme appena indicate e messe a confronto con la norma costituzionale, per quanto si voglia estenderne l’interpretazione, risulta difficile superare la necessità (per riconoscere un obbligo vaccinale in capo al lavoratore) di una disposizione di legge in tal senso.
d) L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32 Cost.
Ad avviso di chi scrive, vi è in ambito giuslavoristico, un precedente della Corte Costituzionale del 1994 che consentirebbe una interpretazione estensiva proprio dell’art. 32 Cost., con conseguente illegittimità costituzionale delle norme che non prevedano - a fianco al diritto dell’individuo/lavoratore - anche la necessaria tutela alla salute della collettività.
In quell’anno la Corte veniva chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 5, terzo e quinto comma, L. 5 giugno 1990, n. 135, in materia di AIDS, che prevedono rispettivamente: «Nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare l’infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse. Sono consentite analisi di accertamento di infezione da HIV, nell’ambito di programmi epidemiologici, soltanto quando i campioni da analizzare siano stati resi anonimi con assoluta impossibilità di pervenire alla identificazione delle persone interessate» e «L’accertata infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione, in particolare per l’iscrizione alla scuola, per lo svolgimento di attività sportive, per l’accesso o il mantenimento di posti di lavoro».
La Corte Costituzionale, con sentenza 23 maggio-2 giugno 1994, n. 218, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui non prevede accertamenti sanitari dell’assenza di sieropositività all’infezione da HIV come condizione per l’espletamento di attività che comportano rischi per la salute di terzi.
Nella parte motivazionale di tale sentenza è interessante, ai fini che qui interessano, il seguente passaggio: «La tutela della salute […] implica e comprende il dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell’interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari. Situazioni di questo tipo sono evidenti nel caso delle malattie infettive e contagiose, la cui diffusione sia collegata a comportamenti della persona, che è tenuta in questa evenienza ad adottare responsabilmente le condotte e le cautele necessarie per impedire la trasmissione del morbo».
In altre parole, la Corte prospetta il diritto alla salute da un lato come diritto dell’individuo ma anche (e soprattutto) come dovere dell’individuo nei confronti della collettività.
Continua, in tal senso la sentenza: «l’art. 32 della Costituzione […] implica […] il dovere di tutelare il diritto dei terzi che vengono in necessario contatto con la persona per attività che comportino un serio rischio, non volontariamente assunto, di contagio».
Sulla scorta di tale premessa, la Corte conclude per la legittimità costituzionale della sottoposizione ad accertamenti sanitari di coloro che svolgono determinate attività che rischiano di mettere in pericolo la salute altrui: «In tal caso le attività che, in ragione dello stato di salute di chi le svolge, rischiano di mettere in pericolo la salute dei terzi, possono essere espletate solo da chi si sottoponga agli accertamenti necessari per escludere la presenza di quelle malattie infettive o contagiose, che siano tali da porre in pericolo la salute dei destinatari delle attività stesse. Non si tratta quindi di controlli sanitari indiscriminati, di massa o per categorie di soggetti, ma di accertamenti circoscritti sia nella determinazione di coloro che vi possono essere tenuti, costituendo un onere per poter svolgere una determinata attività, sia nel contenuto degli esami. Questi devono essere funzionalmente collegati alla verifica dell’idoneità all’espletamento di quelle specifiche attività e riservati a chi ad esse è, o intende essere, addetto».
Appare evidente che in un contesto pandemico l’elenco delle attività che possono ledere la salute altrui è decisamente ampio ed è riconducibile a tutte le attività che prevedono un contatto con altre persone (o quanto meno, per coerenza ordinamentale, a tutte quelle attività che sono state oggetto di chiusura a seguito dei DPCM emergenziali, quali i settori dei trasporti, dello spettacolo, della ristorazione, del turismo, del commercio al dettaglio etc… etc…).
Sulla scorta dei principi espressi nella sentenza citata, a parere di chi scrive, risulta difficile qualificare contrario ai principi del nostro ordinamento il comportamento del datore di lavoro che disponga accertamenti sanitari e/o vaccinazioni obbligatorie ai propri lavoratori al fine di debellare l’emergenza epidemiologica e tutelare la salute nei locali aziendali.

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