TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Come è noto, tra i vari risvolti conseguenti all’imprevedibile e dirompente esplosione pandemica, manifestatasi (almeno per quanto è dato da sapere) nel nostro Paese, con certo anticipo rispetto agli stati europei, a decorrere dal mese di febbraio 2020, un ruolo di primo piano è ricoperto in ambito giuridico dalle sorti del contratto individuale di lavoro.
È infatti ormai da considerare superato, sia a livello dottrinale sia a livello giurisprudenziale, l’orientamento che ritiene a-contrattualistica la natura del rapporto di lavoro , fondandosi questa ormai antiquata lettura sulla presunzione di esistenza di un rapporto organico tra lavoratore e impresa e sull’assenza dell’elemento essenziale del contratto (ai sensi dell’art. 1325 cod. civ.) costituito dall’accordo, per effetto dell’inserzione automatica nell’accordo stesso delle clausole contenute nel Contratto Collettivo applicato da ciascuna impresa, con conseguente degradazione della volontà del lavoratore in ordine alla determinazione del contenuto del contratto (sempre fatto salvo il fondamentale principio della possibilità di variazioni in melius, in ossequio al sempiterno principio del favor lavoratoris): tale orientamento deve ritenersi superato, e il contratto di lavoro deve essere, per orientamenti ormai maggioritari sia in dottrina sia in giurisprudenza, ricondotto nel normale alveo del contratto sinallagmatico o a prestazioni corrispettive (e non con comunione di scopo, come in altri tempi ipotizzato), a titolo oneroso , a effetti obbligatori, in larga parte (o meglio: nella sua configurazione classica) commutativo , di base a forma libera, salvo che nell’accordo non vengano inserite pattuizioni potenzialmente suscettibili di ledere la cosiddetta ‘parte debole’ del rapporto di lavoro (id est, naturalmente, il lavoratore subordinato), quali, a titolo esemplificativo, il patto di prova , l’apposizione di un termine finale e il patto di non concorrenza.
Purtuttavia, come ben noto, il contratto di lavoro, e la disciplina tout court ad esso circostante si pone anche come presidio, del resto costituzionalmente garantito, della possibilità per il lavoratore di avere una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa , come espressamente previsto dall’art. 36 della nostra Carta Costituzionale.
È evidente che l’impatto della pandemia ha significativamente compresso il volume di lavoro per le aziende datrici – quando proprio non lo ha azzerato, per effetto delle chiusure coattive finalizzate al contenimento della curva epidemiologica – con conseguente difficoltà per le stesse ad ottenere la liquidità necessaria per pagare gli stipendi ai lavoratori , per tacere poi del fatto che l’applicazione delle categorie civilistiche qualificherebbe la mancata prestazione dei dipendenti come impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto non imputabile al debitore; previsione tuttavia esclusa da risalente giurisprudenza .
Sotto il profilo dei rimedi civilistici di diritto comune, non si può fare a meno di osservare che l’effetto pandemico sui rapporti contrattuali in essere potrebbe rilevare sotto vari profili: infatti, il diffondersi dell’epidemia che ha inibito molte delle attività economiche poste alla base della stipulazione dei contratti necessari per attuarle, potrebbe configurarsi come un evento straordinario, eccezionale e imprevedibile, atto ad alterare il rapporto sinallagmatico, nell’ambito dell’equilibrio contrattuale in senso patrimoniale come ab origine determinato dai contraenti, con la conseguenza che, qualora la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa in rapporto alla controprestazione dell’altra (si pensi all’esempio, banale ma efficace, della stipulazione di un contratto di locazione di un immobile che non può essere utilizzato, perché l’attività di vendita al pubblico è legislativamente inibita, con conseguente insostenibilità da parte del conduttore del pagamento del canone), il contratto potrebbe essere risolubile ex art. 1467 cod. civ.
Inoltre occorre rilevare che la giurisprudenza ha, già da tempo, considerato oggettivamente impossibile la prestazione, non solo quando sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione stessa da parte del debitore, ma anche quando sia venuta meno per il creditore la possibilità di utilizzare la prestazione della controparte, sempre che tale impossibilità non sia imputabile al creditore stesso, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità, nella fase funzionale del contratto, della finalità essenziale in cui consiste la sua causa in concreto, con conseguente estinzione dell’obbligazione, per cui l’impossibilità sopravvenuta di beneficiare della prestazione secondo quanto convenuto dalle parti si concretizzerebbe come la vanificazione della ragione ultima che le ha condotte a stipulare il contratto, conducendolo così alla sua risoluzione ex art. 1463 cod. civ. per impossibilità sopravvenuta nell’attuazione della sua causa (id est: la sua funzione economica e sociale).
Senonché tali considerazioni, se aderenti ai principi giuridici di diritto comune, non possono trovare applicazione in ambito giuslavoristico, per la particolare peculiarità della materia, sia da un punto di vista giuridico, sia per i risvolti sociali che l’eventuale interruzione dei rapporti di lavoro determinerebbe (è nota la ricorrente espressione di Gino Giugni, che qualificava l’interruzione del rapporto di lavoro come “dramma sociale del licenziamento”, indipendentemente dalla ragione per cui l’interruzione del rapporto di lavoro si fosse verificata).
L’insieme di queste riflessioni, unitamente ad altre, altrettanto se non più importanti, relative alla tenuta sociale della collettività, ha reso indispensabile il ricorso massivo ad ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, che nel linguaggio comune vengono unanimemente indicati sotto il nome di “cassa integrazione”; ben diversa, però, è la realtà della qualificazione tecnica attribuita dal legislatore, atteso che, sotto la medesima nomenclatura “sociale”, prevede in realtà ben cinque differenti ammortizzatori sociali, tendenzialmente accomunati sotto il profilo del quantum economico erogato ai lavoratori subordinati beneficiari, ma significativamente divergenti per quel che attiene all’aspetto procedurale e ai requisiti di ammissibilità e procedibilità.
Nello specifico, la legislazione emergenziale predisposta, che ha avuto quale mezzo giuridico produttivo del diritto privilegiato i Decreti Legge , con evidenti semplificazioni per quel che attiene l’iter formativo delle norme, ha stabilito, sin dal primo Decreto Legge emanato e volto a regolamentare la disciplina del lavoro, e cioè il n. 34/2020, denominato “Cura Italia”, una pentapartizione degli strumenti ‘emergenziali’ disponibili finalizzati all’erogazione dei sussidi, e cioè, nello specifico:
- la cassa integrazione guadagni “ordinaria” (c.d. CIGO), fruibile dalle imprese contributivamente inquadrate nel settore industriale;
- il fondo di integrazione salariale (c.d. “FIS”), fruibile dalle imprese contributivamente inquadrate nel settore del terziario, occupanti mediamente più di cinque dipendenti;
- il fondo di solidarietà bilaterale degli artigiani (c.d. “FSBA”), fruibile dalle imprese contributivamente inquadrate nel settore dell’artigianato,
- la cassa integrazione salariale per gli operai agricoli (c.d. “CISOA”), fruibile dalle imprese contributivamente inquadrate nel settore agricolo;
- la cassa integrazione in deroga (c.d. “CIGD”), avente natura residuale e riferibile a tutte le imprese non rientranti nelle categorie sopra indicate.
A tali strumenti emergenziali devono poi essere aggiunti quelli ordinari, ossia quelli disciplinati dal D.Lgs. 148/2015, caratterizzati da un iter procedurale e autorizzativo (ancor) più farraginoso, e lo strumento della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (c.d. “CIGS”), che non rientrerà nella presente trattazione in ragione della diversa ratio che essa persegue: laddove, infatti, tutti i sopra elencati strumenti di integrazione salariale sono finalizzati a garantire, a carico dello stato e previo il rispetto di determinati requisiti e procedure, continuità reddituale a lavoratori presso imprese che temporaneamente non sono in grado di lavorare a causa di esternalità contingenti (fattispecie evidentemente integrata dall’esplosione di una pandemia e dai conseguenti provvedimenti restrittivi adottati), ma per le quali è prevedibile una ripresa dell’attività produttiva successiva alla contrazione di lavoro causata da fattori esterni, lo strumento della cassa integrazione guadagni straordinaria si propone di salvaguardare il reddito di lavoratori impiegati presso imprese relativamente alle quali non è perscrutabile una ripresa dei volumi di lavoro, e pertanto la finalità risulta unicamente essere quella di conservazione del posto di lavoro e del relativo reddito; naturalmente, un simile strumento, con dovute eccezioni prevalentemente legate a imprese in qualche modo cruciali anche a livello politico-sociale per l’attività esercitata o per il grande numero di lavoratori interessati, risulta oggi in qualche modo ridondante, atteso che la legislazione dell’ultimo quinquennio ha approntato una numerosa serie di tutele, equipollenti sia sotto il profilo economico sia sotto il profilo della durata del trattamento, funzionanti anche senza la sussistenza effettiva del rapporto di lavoro, e cioè la c.d. NASPI e il reddito di cittadinanza.
Tutti gli altri strumenti, invece, assolvono la medesima finalità, vale a dire quella di garantire un reddito minimo (o sarebbe meglio dire “dignitoso”, in linea con il dettato costituzionale) ai lavoratori subordinati che, per un delimitato orizzonte temporale, risulterebbero privi della retribuzione “sufficiente” costituzionalmente prevista : ed è qui che l’osservatore esterno potrebbe domandarsi per quale ragione prevedere un simile numero di strumenti differenti, se il risultato che si consegue è poi assolutamente identico, specialmente sotto il profilo più prosaicamente importante per i soggetti interessati, vale a dire l’importo al netto delle ritenute di legge del corrispettivo percepito, nel caso di specie dal terzo – INPS.
Infatti, tutti i suddetti ammortizzatori sociali prevedono un’integrazione lorda pari all’80% della retribuzione del lavoratore; come è noto, tuttavia, questa dichiarazione ha valore di poco più di uno slogan politico, atteso che i massimali del trattamento rendono la somma effettivamente percepita assai deteriore rispetto a quello che risulterebbe dalla corresponsione della normale retribuzione al lavoratore (un’indagine effettuata dalla fondazione studi dei consulenti del lavoro ha infatti stimato la perdita media in busta paga in circa 472 euro al mese ); ad ogni modo, quel che conta al di là delle tecniche comunicative, è l’evidenza che, nella sostanza, essere posto in un ammortizzatore o in un altro è assolutamente indifferente per il beneficiario, di talché non si comprende la ratio sottesa alla scelta legislativa di diversificare in modo così vasto la platea degli strumenti disponibili teleologicamente indirizzati a salvaguardare la retribuzione dei lavoratori coattivamente lasciati a casa, senza interruzione del rapporto di lavoro, ed anzi nella prospettiva (recte: speranza) della sua prosecuzione.
Che in una fase iniziale si sia optato per una conferma degli strumenti “ordinari”, ossia quelli disciplinati dal D.Lgs. 148/2015 (emanato nel più ampio quadro della serie di Decreti Legislativi denominata “Jobs Act”), sfrondando alcuni passaggi che avrebbero eccessivamente rallentato le procedure (si pensi, in particolar modo, alla fase di consultazione sindacale, che è stata largamente semplificata) può anche essere comprensibile: a lasciare perplessi è semmai la stratificazione normativa successiva, che, a parere di chi scrive, non ha mai abbracciato l’idea di riforme strutturali di ampio respiro, limitandosi semplicemente a prorogare di volta in volta, peraltro in tali circostanze per orizzonti temporali anche molto limitati , l’impostazione approntata sin da subito, dal Decreto c.d. “Cura Italia” (D.L. 34/2020), aggravando in qualche modo le storture e l’eccessiva tendenza alla burocratizzazione; né a variare detta linea ha contribuito in alcun modo la “legge di bilancio 2021” (l. 178/2020), con la quale il legislatore ha confermato la propria vocazione a prorogare le pur disfunzionali previsioni normate nei mesi precedenti, anche quando i riscontri erano stati evidentemente negativi (si pensi alla possibilità di ottenere, per le aziende che non anticipano gli importi della cassa integrazione , un anticipo “immediato” del 40%: una misura che ha avuto un impiego pulviscolare, a causa del rischiosissimo meccanismo ad essa connesso).
Con tutte le attenuanti dovute (specialmente, occorre ribadirlo, nei primi mesi), l’anno trascorso, per la normativa giuslavoristica, rappresenta un bignami di tutto ciò che dovrebbe essere evitato a livello di tecnica di scrittura della normativa; fatta questa premessa generale, ci si può addentrare con maggior esprit du detail nella convulsa progressione normativa dell’anno 2020, annualità che, tra i vari sconvolgimenti che ha portato con sé, ha comportato un autentico terremoto su tutta la disciplina del diritto del lavoro; lodevole nelle intenzioni, forse un po’ meno nella sua attuazione.

2. Il blocco dei licenziamenti e la proroga dei contratti a termine:

Come noto, il contratto a tempo determinato costituisce una delle fattispecie maggiormente controverse all’interno dell’ordinamento giuslavoristico, in considerazione del diverso imprinting politico del legislatore, che da un lato può vederlo come uno strumento di flessibilità, utile a creare occupazione laddove non vi siano i presupposti per un’assunzione a tempo indeterminato (fattispecie contrattuale certamente più vincolante per il datore di lavoro, a dispetto di qualche temperamento introdotto con il D.Lgs 23/2015, che ha introdotto il meccanismo delle cosiddette ‘tutele crescenti’ e contestualmente ha ridotto il perimetro della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato), ma dall’altro è sicuramente considerato come fonte di precarietà, motivo per cui, dopo varie e quasi schizofreniche modifiche e riforme intercorse dal 2012 (specificamente dall’emanazione della l. 92/2012, c.d. “Legge Fornero”), tra le due polarità (quella per così dire “liberale” e quella per così dire “protezionistica”) si era optato, nella normazione data dal c.d. “Decreto Dignità”, per una significativa stretta allo strumento del contratto a termine, che aveva reintrodotto l’esigenza della c.d. “causale”, che per le difficoltà probatorie che la ammantano risulta quasi una probatio diabolica ; ebbene, non si può non notare come, nonostante l’assetto legislativo (e, a monte, la maggioranza politica che lo sostiene) fosse chiaramente – e anzi, probabilmente più che mai in passato – improntato verso la polarità della stabilità del rapporto di lavoro a costo di sacrificare il numero degli occupati, la situazione emergenziale ha portato a una netta variazione nel senso della liberalizzazione del contratto a tempo determinato, per il quale, a più riprese lungo tutti i vari provvedimenti assunti nel corso dell’ultimo anno, si è sempre data la possibilità alle imprese di prorogare in modo acausale i contratti di lavoro a tempo determinato, facendo così prevalere, nella gravità dell’emergenza e in modo che appare piuttosto significativo, l’elemento della flessibilità e in ultima istanza della salvaguardia dell’occupazione (atteso che, empiricamente, le imprese avrebbero sicuramente optato per la scadenza naturale dei termini, qualora non avessero potuto beneficiare della possibilità di una proroga di durata predeterminata e svincolata dall’esigenza dell’apposizione di una causale che, nella prassi, si è frequentemente rivelata fonte di controversie).
Strettamente connesso al tema della salvaguardia occupazionale è il provvedimento, senza precedenti, con cui si è stabilito il divieto di licenziamenti per motivi economici, secondo un “doppio binario” che, sia pur non esplicitamente, ha vincolato a doppio filo il suddetto divieto (prolungatosi progressivamente) con le proroghe degli ammortizzatori sociali, secondo un’impostazione per la quale le aziende in difficoltà avrebbero potuto neutralizzare i costi del personale, salvaguardandone al contempo il reddito, facendo ricorso ai predetti strumenti, potendo dunque evitare di risolvere il (rectius: recedere dal) contratto di lavoro, venendo in un certo senso meno le ragioni economiche connesse al costo del lavoro , almeno a livello retributivo e contributivo (questo ovviamente a prescindere dai costi sociali della serie di provvedimenti assunti).
Evidentemente, cristallizzare tout court per più di un anno un ambito complesso e composito come il mercato del lavoro è operazione tecnicamente impossibile, e infatti delle ricadute occupazionali, nonostante il suddetto divieto legislativamente imposto, che ha suscitato anche qualche dibattito in ordine alla presunta violazione dell’art. 41 della Costituzione, il quale come noto sancisce il principio della libertà di iniziativa economica, hanno comunque avuto luogo , prevalentemente attraverso tre direttrici: la prima consiste banalmente nella scadenza dei contratti a termine, i quali, pur beneficiando dell’estensione nel senso di una liberalizzazione di cui si è parlato supra, in parte sono stati fatti scadere da parte dei datori di lavoro; in secondo luogo vi sono stati dei licenziamenti per giusta causa per così dire “genuini”, realizzati cioè in seguito a un comportamento posto in essere dal lavoratore effettivamente idoneo a ledere il vincolo fiduciario con l’imprenditore (previsione che, naturalmente, non poteva essere superata nemmeno dal blocco dei licenziamenti imposto a causa della pandemia, atteso che, con tutta evidenza, in assenza si sarebbero legittimate condotte di estrema gravità e possibilmente di rilievo anche penale , non potendosi evidentemente obbligare il datore di lavoro a mantenere la stabilità del rapporto lavorativo con soggetti che si sono resi gravemente inadempienti agli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, in quanto ciò avrebbe portato uno sconvolgimento copernicano ai principi generali in tema di risoluzione del contratto per inadempimento e ai più specifici principi giuslavoristici che prevedono l’interruzione del rapporto allorché viene meno l’indissolubile vincolo fiduciario che deve legare datore di lavoro e lavoratore subordinato); e infine non si può trascurare l’incidenza nella prassi dei ‘finti’ licenziamenti per giusta causa, che dietro l’asserita ragione lesiva del rapporto fiduciario nascondono in realtà la larvata doppia finalità per l’imprenditore di liberarsi di un dipendente ormai sgradito o divenuto d’esubero rispetto alla rinnovata organizzazione produttiva, e per il lavoratore di ottenere sia una somma a titolo di incentivo all’esodo (atteso che il contratto di transazione finalizzato a prevenire l’eventuale impugnazione sarebbe evidentemente nullo per assenza di causa – id est: il sinallagma – qualora, a fronte delle rinunce del lavoratore, non vi fosse alcuna somma ovvero una contropartita a nummo uno ) sia soprattutto la NASPI, tipico (e principale, nel nostro ordinamento) ammortizzatore sociale in assenza di rapporto di lavoro, la cui corresponsione, in modo che si ritiene per certi versi paradossale, specialmente alla luce del tempo trascorso dall’inizio dell’emergenza, risulta ben più veloce, puntuale e sicura rispetto a quella della cassa integrazione, gravemente inficiata (soprattutto, ma non esclusivamente, nella fase iniziale) da ritardi e problemi organizzativi in seno all’INPS; ciò anche perché la NASPI è dovuta hic et inde per la cessazione del rapporto di lavoro, indipendentemente dalla ragione (giusta causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo) che l’ha determinata.
Al momento di redazione del presente contributo, il blocco dei licenziamenti economici è fissato per la data del 31 marzo 2021: alla luce dell’ancor critico quadro epidemiologico, deve ritenersi improbabile una revoca integrale del blocco; de jure condendo, e tenendo in debita considerazione l’estrema mutevolezza della situazione epidemica, nonché la grande rapidità della stessa nel variare, potrebbe esser più ragionevole programmare una revoca settoriale del blocco, ad esempio relativamente agli ambiti produttivi / merceologici meno toccati dalla pandemia e possibilmente meno necessitanti l’ulteriore ricorso agli ammortizzatori sociali; in questa cornice sarà utile l’applicazione di un principio di matrice europea, ben noto al nuovo presidente del consiglio, ossia quello della salvaguardia “dei lavoratori e non dei posti di lavoro”: in altre parole, in coerenza con il principio anch’esso di matrice comunitaria della c.d. “flexicurity”, è importante fare in modo che il mercato del lavoro sia in grado: a) di indennizzare rapidamente e in modo sufficiente coloro che, senza volerlo, rimangono privi di occupazione; e b) di ricollocare rapidamente questi soggetti presso un’altra realtà produttiva; c) di salvaguardare le imprese riguardo alle quali esistono effettive e concrete prospettive di ripresa, evitando di sovvenzionare a pioggia soggetti che, indipendentemente o meno dalla pandemia, avevano ormai esaurito il loro ciclo economico - produttivo.
Viene pertanto meno, in applicazione a questa “dottrina”, l’esigenza di tutelare a tutti i costi il singolo e specifico posto di lavoro (magari collocato presso imprese ormai ‘decotte’), in favore di una più ampia tutela della persona del lavoratore.

3. Lo smart working

Una delle trasformazioni più visibili e radicali verificatesi in conseguenza alla pandemia è stata sicuramente costituita dall’esplosione dello smart working; in questo senso la diffusione del virus ha svolto un’autentica funzione di catalizzatore di un processo che pure era stato regolamentato normativamente relativamente di recente (specificamente dalla legge n. 81/2017), ma che nella prassi aveva avuto un’applicazione piuttosto ridotta.
Come è noto, a livello generale, il Codice Civile disciplina il luogo dell’adempimento delle obbligazioni all’art. 1182, che stabilisce tre criteri generali, consistenti, nell’ordine, nell’accordo delle parti, nella natura della prestazione ovvero nella fonte di rango secondaria costituita dagli usi e dalle consuetudini; naturalmente questi tre criteri, per quanto riguarda il rapporto di lavoro, sono più che esaustivi al fine di determinare il luogo ove il lavoratore subordinato dovrà eseguire le prestazioni contrattualmente dedotte, atteso che tipicamente già in sede di assunzione (dunque di fatto si ha un accordo contrattuale) viene specificata la sede operativa – luogo dell’adempimento , che è comunque in ogni caso desumibile dalla natura della prestazione; le leggi speciali prevedono poi alcune fattispecie funzionali a mutare il luogo ove la prestazione è resa, con riflessi rilevanti anche in alcuni casi sotto i profili fiscale e previdenziale (si pensi alla trasferta, fattispecie per antonomasia di temporanea variazione del luogo dell’adempimento , che si sostanzia nell’invio “in missione” del lavoratore al di fuori del comune ove è cristallizzato il suo normale luogo di adempimento delle obbligazioni connesse al contratto di lavoro, verso il pagamento di un indennizzo, fiscalmente agevolato, per il disagio derivante dallo spostamento), in altri casi anche relativamente alla costruzione complessiva del rapporto di lavoro (si pensi al distacco nazionale, ove il rapporto contrattuale si trasforma da bilaterale in trilaterale, creando le tre diverse figure del distaccante, del distaccato e del distaccatario), e sempre considerando la possibilità del datore di lavoro, comunque sottoposta a dei limiti, di procedere al trasferimento della sede cui il lavoratore è adibito (tale previsione per alcuni orientamenti costituisce addirittura un provvedimento disciplinare esercitabile dal datore di lavoro, atipico ed esorbitante rispetto alle sanzioni di ‘giustizia privata’ tipizzate dal Codice Civile e dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, ossia il richiamo verbale, il richiamo scritto, la multa e la sospensione ); ed infine, i c.d. ‘contratti di rete’, attraverso cui si realizza un vero e proprio spostamento del lavoratore dipendente da un’impresa all’altra, con ovvio mutamento del suo luogo di lavoro.
Fatta questa doverosa premessa sistematica, si rileva come la nozione di smart working diverga e in qualche modo racchiuda in se stessa quella di “telelavoro”, che indica meramente la variazione del luogo di lavoro dalla sede dell’impresa (ovvero di quell’altro luogo concordato in sede di assunzione) al domicilio del lavoratore, che, ove compatibile con le mansioni cui è adibito, grazie ai mezzi tecnologici disponibili può rendere la sua prestazione senza muoversi da casa, con vantaggi in termini di risparmio economico e di conciliazione vita / lavoro che la disciplina della psicologia del lavoro valuta come molto positivi , oltre ovviamente alla tutela fondamentale del diritto del lavoratore alla propria salute e all’integrità fisica, in ossequio a quanto previsto dall’art. 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro a salvaguardare l’integrità psicofisica del lavoratore.
Conseguentemente, da un punto di vista sistematico e definitorio, la nozione di smart working deve intendersi come più ampia di quella di telelavoro, considerato che con ciò si identifica, come si desume dall’etimologia delle parole impiegate, una forma di lavoro agile, che può essere resa in qualunque luogo differente dalla sede operativa dell’impresa datrice di lavoro, il che comporta in qualche modo anche un’erosione di molti dei classici ‘indici di subordinazione’ cui faceva ricorso il cosiddetto “metodo tipologico”, utilizzato dalla dominante giurisprudenza di merito per rinvenire la sussistenza (o meno) di un rapporto di lavoro subordinato, tra i quali tipicamente si trovavano proprio la presenza di una postazione fissa sul luogo di lavoro (che evidentemente con un sistematico ricorso allo smart working viene meno), ma anche la rigidità dell’orario di lavoro e la sottoposizione al potere direttivo del datore di lavoro (anch’essa in qualche modo attenuata, venendo meno la possibilità di un controllo de visu da parte del datore di lavoro, ed essendo i controlli a distanza sottoposti ai limiti di cui all’art. 4 della l. 300/1970, poi modificato dall’art. 23 del D.Lgs. 151/2015 in senso più favorevole al datore di lavoro, ma che comunque certamente vieta un monitoraggio sistematico della prestazione attraverso mezzi tecnologici); per cui, se da un lato il ricorso allo smart working rappresenta un vantaggio, o forse sarebbe meglio dire una tutela, per il lavoratore, dall’altro è innegabile che attenua i diritti del datore di lavoro, tipicamente connessi alla subordinazione.
Saranno la dottrina e la giurisprudenza a dover colmare questa lacuna, atteso che molti dei pilastri sui quali si fondava l’individuazione del lavoro subordinato, in considerazione sia della infelice formulazione dell’art. 2094 cod. civ., astrattamente deputato a circoscriverne il perimetro, sia del principio di indisponibilità del tipo, in ragione del quale non è sufficiente l’espressa e formale dichiarazione delle parti in ordine alla tipologia negoziale attuata, qualora quest’ultima non trovasse una corrispondenza con la reale, sostanziale attuazione poi effettivamente data dalle parti; fino a che ciò non avverrà, una volta che sarà passata la situazione emergenziale che ha reso necessario il ricorso a tale strumento, i confini del lavoro subordinato saranno stati dilatati sino a renderlo quasi irriconoscibile rispetto alla tipologia giuridica ormai ben nota a dottrina e giurisprudenza da decenni.

 

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