Testo integrale con note e bibliografia

1. Trentin: una visione sfidante del lavoro, in anticipo sui tempi

Tra le idee emerse nel secolo scorso o nei primi anni del 2000, poche conservano l’attualità che ancora oggi hanno gli scritti e le proposte formulate a suo tempo da Bruno Trentin sul tema del lavoro che cambia, iscrivendosi, con molte resistenze e incertezze, nella transizione, in corso, dal fordismo al postfordismo.Su questo tema, la recente uscita del libro Bruno Trentin, La libertà viene prima , ci mette a disposizione, quasi venti anni dopo la prima edizione , una serie convergente di scritti in cui Trentin ha illustrato la sua posizione in merito a passaggi critici della sua esperienza sindacale.
L’idea base di Bruno Trentin, riassunta nel titolo del libro, lega in modo indissolubile il lavoro alla persona del lavoratore, nel senso che il lavoro non è soltanto una prestazione utile – più o meno efficiente – è anche parte di una esperienza personale che coinvolge l’autonomia, la responsabilità, la creatività, la sfera sociale di ciascuna persona impegnata in questo compito. Coinvolgendo, si spera, anche l’impresa per la quale lavora, perché la capacità di apprendere realizzata nella prestazione lavorativa e la socializzazione delle conoscenze che arricchisce le competenze disponibili stanno ormai diventando, per ogni impresa, le leve fondamentali per competere nell’economia globale di oggi .
Sono ormai passati quasi 50 anni da quando il tema della transizione postfordista ha iniziato a cambiare la struttura delle imprese e del lavoro che si era consolidata in epoca fordista (dal 1900 al 1970). Apparendo allora non solo razionale (in termini di efficienza e di profitto competitivo) ma anche accettabile, per le parti in causa. E ciò era avvenuto grazie alla contrattazione sindacale che aveva redistribuito il valore co-prodotto dal lavoro esecutivo prestato sotto il comando dell’imprenditore o del manager, nei diversi settori. Oggi, col senno di poi, sia la razionalità che l’accettabilità di questo tipo di compromesso tra capitale e lavoro appaiono meno scontate: serve ormai altro, e il pensiero di Trentin, raccolto nei suoi diversi contributi, lo testimonia.
Come dimostra l’esperienza diretta fatta da Bruno Trentin nell’ultima fase della sua vita, la transizione dal vecchio al nuovo è in corso, ma non è affatto facile e scontata. Sia sul terreno del lavoro che su quello della competitività di impresa, ci sono infatti due grandi ostacoli alla propagazione di una consapevole visione del divenire e dunque del futuro possibile.
Prima di tutto, le forme organizzative e le istituzioni sociali che hanno preso forma e si sono consolidate in epoca fordista sono dotate di una inerzia che tende a conservarle nella loro struttura attuale, con qualche leggero adattamento alle contingenze. Resistendo dunque alle innovazioni di fondo che potrebbero ridurre loro compattezza o il loro potere. Lo Stato, con le sue burocrazie consolidate, e i partiti politici, impegnati nella competizione elettorale, non sono attori che è facile spingere verso la sperimentazione del nuovo, e verso l’assunzione di rischi sul futuro da costruire in base ad un progetto economicamente e socialmente sostenibile. Ma anche il sindacato, come Trentin ha sperimentato con le delusioni vissute negli ultimi anni di vita, ha fatto finora fatica ad adottare l’approccio pro-attivo che egli intendeva assegnargli nella sua visione della transizione possibile. Del resto, è qualcosa che caratterizza tutte le transizioni: tra resistenza al nuovo (vissuto come ostile) e resilienza passiva agli eventi imposti dall’esterno, ci si è trovati spesso in situazioni in cui il nuovo irrompe in una realtà sociale e istituzionale che non lo desidera e non lo guida. Aggravando le contraddizioni che emergono ogni volta che l’evoluzione delle cose va oltre le regole e i confini precedenti.
In secondo luogo, la sperimentazione del nuovo richiede anche oggi investimenti rilevanti da avviare in condizioni di grande incertezza, con i rischi conseguenti. Non è dunque facile trovare la convergenza su scelte pro-attive che devono coinvolgere molte parti in causa: il capitale e il lavoro, in primis, ma poi anche i fornitori e clienti delle filiere, i finanziatori e le banche che apportano il capitale, i territori che devono apprestare sistemi logistici, produttivi e commerciali coerenti, le strutture della formazione (scuola, università, formazione aziendale) e le istituzioni politiche. Tutti attori che dovrebbero fare la loro parte, perché la sperimentazione del nuovo possa funzionare, ma spesso latitano o si tirano da parte, anche in termini di consapevolezza.
In realtà, la re-invenzione del lavoro, nel passaggio dal fordismo al post-fordismo, è – come Trentin sottolinea in tutte le sue proposte – radicale, ma necessaria. Non rinviabile. Perché, nella transizione tra il novecento e il nostro secolo, l’evoluzione tecnologica e dei mercati (con la globalizzazione) ha cambiato in modo radicale il rapporto tra il lavoro e la persona.

2. La logica del fordismo: in nome dell’efficienza, il lavoro diventa astratto e si trasforma in soggetto collettivo

Nel fordismo, il lavoro (dell’operaio o dell’impiegato) della grande fabbrica era stato ridotto a tempo-lavoro: un lavoro dettato da regole e ordini calati dall’alto, da eseguire senza alcun apporto del giudizio e dell’intelligenza messi in campo dall’esecutore. In questo senso, già ai tempi Karl Marx, il lavoro concreto che aveva caratterizzato il mondo pre-moderno – il lavoro dell’artigiano o del contadino, ancorato al contesto unico della sua esperienza personale – si era trasformato in lavoro astratto, totalmente impersonale e replicativo. Un lavoro configurato in modo tale da usare la conoscenza nella sua forma astratta, ossia codificata e replicabile. Cosa che permetteva di propagare a costo zero le soluzioni prescelte, moltiplicando il numero di macchine standard usate nelle lavorazioni e utilizzando procedure altrettanto standard per volumi produttivi sempre più elevati.
Per ottenere questo risultato, il fordismo aveva la necessità di comprimere a tutti i livelli – in fabbrica, in ufficio, nei sistemi logistici – la complessità dell’ambiente produttivo e delle operazioni in programma, per conseguire livelli crescenti di efficienza (minimo costo). La varietà doveva essere ridotta allo standard, la variabilità (nel tempo) ricondotta al programma pre-stabilito, l’interdipendenza controllata dal comando, l’indeterminazione eliminata nei limiti del possibile.
In questo ambiente codificato in funzione di standard pre-determinati dalle scelte tecnologiche e operative, fatte da ciascuna impresa, il lavoro diventava necessariamente astratto, impersonale, replicativo. Rendendo così irrilevante ogni differenza tra un lavoratore e l’altro. Ne era derivata, come nel libro Trentin ricorda più volte, una soppressione di fatto della soggettività individuale dei lavoratori, impiegandoli in mansioni perfettamente codificate, che non richiedevano alcun contributo di intelligenza o creatività per il loro svolgimento. Con la conseguente compressione della libertà personale – intesa come capacità di pensare, progettare, decidere, relazionarsi, creare ecc. – sacrificata sul terreno dell’efficienza tecnica. Si era realizzato così un netto trasferimento di potere dalla persona che forniva il lavoro al capitale che lo acquistava, essendo tutti i lavoratori diventati intercambiabili sul mercato del lavoro.
Ma, c’èra allora – come oggi - un rovescio della medaglia: il lavoro astratto, rendendo uguali e intercambiabili tutti i lavoratori, azzerava il ruolo della persona, ma faceva emergere un altro tipo di soggettività: quella del lavoro come soggetto collettivo, capace di mettere insieme gli interessi e i comportamenti di migliaia o milioni di lavoratori sul piano della contrattazione sindacale con la controparte imprenditoriale e sul piano della raccolta del consenso politico. Il potere contrattuale perso dal lavoratore individuale veniva dunque recuperato dal lavoro, organizzandosi sotto forma di soggetto collettivo nella contrattazione di fabbrica, di impresa, di settore, di territorio o anche a livello nazionale.
Lo spostamento del potere contrattuale dal lavoratore-persona al lavoro in quanto soggetto collettivo è l’imprinting che dà forma al sindacato e al suo potere di contrattazione, emerso nel novecento e ereditato, sia pure con qualche scalfittura, ai giorni nostri. Da questo bisogna partire.

 

3. Il sindacato, a suo tempo, è stato parte attiva dell’innovazione fordista

L’organizzazione sindacale emergente nel capitalismo fordista è, appunto, una “organizzazione”. E, come tale, è ovvio che resista ai cambiamenti che ne mettono in discussione la sua auto-referenza, indebolendo questa o quella funzione sistemica. Ma – e qui si coglie il senso della proposta innovativa avanzata da Bruno Trentin – l’auto-referenza difensiva è un atteggiamento che allinea il sindacato alle forze della conservazione (del vecchio), mettendolo contro gli attori e le occasioni che consentono ad altri di sperimentare il nuovo.
In effetti, nell’esperienza del novecento, il sindacato ha svolto un ruolo di innovazione importante, utile a garantire la sostenibilità del paradigma fordista nel suo insieme. Dunque ha svolto una funzione non solo utile agli interessi da esso rappresentati, ma anche di interesse collettivo. Perché – fornendo una base di domanda al rapido aumento della produzione di massa – ha reso sostenibile la crescita avviata dal fordismo, rendendola capace di reggere alle contraddizioni innescate dal cambiamento tecnologico dell’epoca. Che, non dimentichiamocelo, è stato un cambiamento disruptive, non meno forte di quanto avviene oggi con la transizione digitale ed ecologica.
Rispetto al precedente paradigma (il capitalismo mercantile dell’800), la tecnologia fordista messa a punto nel ‘900 imponeva nuove regole: volumi e imprese sempre più grandi; standardizzazione di tutto il processo di lavorazione e amministrazione; un comando gerarchico dettagliato e pervasivo; la spersonalizzazione della società di massa; la creazione degli imponenti surplus messi a disposizione di chi controllava le aziende, generando un’imponente pressione verso la crescente disuguaglianza sociale. Infine, last but not least, il fordismo rendeva necessario un controllo costante sulle varianti e sugli imprevisti, dovendo ordinare ai propri fini non solo l’ambiente interno al circuito produttivo ma anche quello esterno, ossia l’ambiente di consumo, la cultura, i comportamenti e desideri sociali. Tutte cose dotate di un alto potere destabilizzante per i conflitti che potevano essere innescati a vari livelli e per gli squilibri conseguenti ad una trasformazione non regolata del sistema precedente.
Ma attenzione: spesso in questi processi evolutivi manca l’auto-coscienza di quello che sta succedendo e di quello che veramente serve. Non sempre i portatori delle innovazioni direttamente legate al cambiamento tecnologico riconoscono la rilevanza, per i processi di transizione, delle trasformazioni da realizzare nella sfera sociale, culturale e istituzionale, al fine di garantire la sostenibilità di cambiamenti avviati dalla tecnologia.
Ad esempio Henry Ford non aveva né simpatia né accordo con i sindacati che stavano nascendo nelle sue fabbriche all’insegna della produzione di massa. Era innovatore nella tecnologia usata, ma conservatore negli equilibri sociali da preservare rispetto agli attori emergenti dal cambiamento. Tuttavia – oggi lo sappiamo - mettendo ai margini gli attori sociali coinvolti nel cambiamento, egli non avrebbe potuto mantenere a lungo in equilibrio l’offerta delle sue automobili (in crescita esponenziale) con la domanda che doveva acquistarle per il consumo. Se il surplus creato dall’innovazione tecnologica materializzata nel Modello T fosse rimasto nelle mani di una ristretta élite di persone abbienti, la maggior parte delle nuove auto sarebbe infatti rimasta (invenduta) nei magazzini, bloccando così l’evoluzione progressiva del paradigma fordista.
Il sindacato, che – organizzandosi – si è allora messo in grado di sfruttare il potere di contrattazione che la produzione spersonalizzata e di massa conferiva al lavoro come soggetto collettivo, è così diventato, nel corso del novecento una forza di innovazione: il collante necessario per stabilizzare il sistema complessivo, consolidando e socializzando i vantaggi della produzione di massa. Non necessariamente contro Ford, ma oltre Ford.
E’ proprio il protagonismo del sindacato nella contrattazione a diversi livelli che ha consentito al fordismo di realizzare quello che è stato chiamato “compromesso keynesiano”: uno scambio tra lavoro e capitale che metteva insieme l’accettazione della subordinazione del lavoro al comando imprenditoriale con partecipazione dei dipendenti ai vantaggi di reddito e di welfare finanziati dall’efficienza della produzione di massa.

4. Perdere la libertà, in cambio di cosa?

Il sindacato ha realizzato, allora, una grande innovazione istituzionale. Per effetto della sua presenza attiva, è cambiato il senso della relazione profonda tra capitale e lavoro, diventati – sia pure in modo non sempre consapevole – co-protagonisti dell’evoluzione verso un paradigma coerente e compiuto, nella stagione della produzione di massa. Per un verso il lavoro – grazie alla mediazione sindacale – accettava di essere individualmente al servizio delle decisioni e degli ordini impartiti dai manager o dall’imprenditore, che presidiavano l’organizzazione. Ma, per un altro, il lavoro come soggetto collettivo (sindacalizzato) otteneva diversi vantaggi: un aumento del salario, migliori condizioni di lavoro, una garanzia di fatto del posto di lavoro (a tempo indeterminato) e la ragionevole aspettativa di una certa carriera nel corso del tempo. Accanto, ovviamente ad una fetta rilevante di welfare ottenuta grazie alla mediazione dello Stato e della spesa pubblica nell’istruzione, nella sanità, nella previdenza, nei trasporti ecc., alimentata dalla fiscalità generale.
La via socialdemocratica allo sviluppo, dunque, è stata disegnata e portata avanti facendo leva su una trasformazione oggettiva del lavoro, diventato astratto e impersonale, nel momento in cui esso veniva consensualmente posto al servizio dell’efficienza ma anche di una distribuzione del reddito non troppo precaria o diseguale. Si è trattato di una stagione eroica, che ha visto come co-protagonisti gli imprenditori di successo e le organizzazioni sindacali che favorivano le loro innovazioni, allineandosi ad esse nella distribuzione dei compiti e del reddito conseguente.
Tuttavia, non erano in realtà tutte rose e fiori. Nel libro, Trentin mette in evidenza le ambiguità del mutamento di rapporto che tale evoluzione comportava nel rapporto tra capitale e lavoro. Si passava infatti dal conflitto tra antagonisti, tipico del capitalismo mercantile dell’800, alla co-innovazione di fatto, assistita dalla contrattazione sindacale e dalla concertazione con lo Stato. Un percorso di innovazione adeguato alle sfide dell’epoca, ma che ha finito per sacrificare un valore fondamentale (la libertà personale), in cambio di compensazioni risarcitorie, sul terreno del reddito e del welfare. Di qui la posizione critica di Trentin, sintetizzata nel titolo del libro: la libertà viene prima. Perché, a suo giudizio, il compromesso ereditato dal fordismo non può essere accettato come un dato di fatto incontestabile, ma semmai come una strettoia che oggi ostacola la sperimentazione del nuovo, vincolandolo a regole e idee costruite in funzione delle organizzazioni del passato. Una strettoia che, oggi, in epoca postfordista, tocca agli uomini allargare e superare, usando la propria iniziativa politica, sindacale e personale per andare oltre la logica del lavoro impersonale e massificato,.

5. La re-invenzione del lavoro: un asse portante della riflessione di Bruno Trentin

In effetti, già negli ultimi decenni del novecento, è chiaro che il lavoro deve, in qualche misura, essere re-inventato, se si vuole alimentare, con idee che guardano al nuovo, la transizione che ci allontana dal fordismo e che dà forma a sistemi e organizzazioni nuove, di tipo postfordista. In un contesto del genere, Trentin – con le sue idee e i suoi progetti – è diventato non solo un sindacalista attento alle novità emergenti, ma un protagonista nella cultura e nella pratica del cambiamento socio-economico da realizzare. Ha assunto questo ruolo come segretario della CGIL, ma ancor più uomo di pensiero e di azione, che preferisce collocarsi a cavallo dei problemi emergenti, invece di rimanere entro la cintura difensiva di un sindacato impegnato nella conservazione delle pre-esistenze, resistendo al nuovo.
La sua è una lettura pro-attiva dell’evoluzione in corso, a partire dagli anni settanta. Guardando le cose senza infingimenti, già allora è infatti abbastanza semplice individuare il fattore scatenante della crisi del fordismo, che segna gli anni settanta, e avvia una affannosa ricerca di nuovi modi di produrre, di consumare e di vivere, nel corso dei decenni successivi.
Ne nasce un’evoluzione del sistema, ma anche del lavoro, che fa emergere - come modelli di successo – nuovi paradigmi economici e sociali. Due soprattutto:
- il capitalismo distrettuale 1970-2000, popolato di piccole imprese addensate in territori ristretti, che si specializzano in specifici settori, e che mobilitano migliaia di imprenditori e lavoratori distribuiti in rete nelle filiere locali, contando sulla possibilità di sfruttare i vantaggi della prossimità e della relazione diretta, interpersonale, in modo da superare senza impacci la rigidità della codificazione fordista;
- il capitalismo globale della conoscenza in rete, emerso con forza negli anni della transizione digitale, post-2000, con filiere che si allargano a scala trans-territoriale, diventando parte di una economia globale della conoscenza. Una rete in cui le imprese, i lavoratori, i territori cercano di connettersi in modo flessibile, facendo valere le proprie differenze distintive in filiere capaci di rapido adattamento.
La re-invenzione del lavoro, necessaria per collocarlo in questi due nuovi paradigmi, sottraendolo alla cultura e alle forme organizzate del fordismo in declino, costituisce il programma intellettuale sotteso da questo libro, in cui Bruno Trentin ci guida nella comprensione delle cause della crisi del vecchio e delle chances di ri-costruzione condivisa del nuovo.

6. Dalla crisi del fordismo ad altro

Il fordismo va infatti in crisi non tanto per cause esterne, quando per il suo antagonismo irriducibile rispetto alla complessità, che – a tutti i livelli – deve essere ridotta ad ordine controllabile, coerente con l’autoreferenza sistemica delle grandi organizzazioni della produzione di massa. Come abbiamo visto, questo significava usare il proprio potere di controllo per ridurre la varietà a standard, la variabilità a programma, l’interdipendenza a rapporti di comando, l’indeterminazione a previsioni certe o comunque garantite.
Ma, come dimostra la realtà dei fatti, le grandi organizzazioni della produzione di massa erano lungi dal possedere un potere di comando capace di comprimere la complessità del mondo, trasformandola in un sistema ordinato e stabile. Dunque, a cominciare dagli anni settanta, sotto la pressione di un ambiente che va in ebollizione (crisi energetica, autunno caldo sindacale, svalutazione selvaggia del dollaro, irruzione della concorrenza giapponese, assuefazione reticente dei consumatori alle proposte del marketing di massa ecc.), l’ordine sistemico ereditato dal fordismo rivela il suo punto debole: la rigidità. Mostrandosi di conseguenza incapace di controllare e correggere gli eventi dissonanti che maturano nell’ambiente, ma anche di adattarsi in modo rapido e a basso costo al corso degli avvenimenti non controllati.
In quegli anni, le grandi organizzazioni sono, di conseguenza, costrette a ridurre la sfera del loro controllo diretto sui processi produttivi (downsizing), scegliendo di concentrare la loro funzione su alcuni aspetti della filiera e mobilitando fornitori esterni per tutto il resto (outsourcing). Finisce il mito della massima espansione dimensionale possibile e l’aspirazione a realizzare la massima integrazione verticale della filiera, al fine di controllare in modo programmato tutte le operazioni e funzioni richieste.
Ma non si tratta di un adattamento indolore. Al contrario, come Trentin sottolinea, se questo adattamento andasse avanti senza alcuna regolazione, scontrandosi con resistenze non decisive delle organizzazioni sindacali e istituzionali, l’esito potrebbe essere distruttivo.
Il rischio che incombe è quello che possa consolidarsi un capitalismo neo-liberale, popolato di individualisti, in cui ognuno fa per sé, lasciando al mercato – un ente privo di visione e di responsabilità – il ruolo mettere a sistema la divisione del lavoro tra i diversi attori della produzione.
Ma, ugualmente insufficiente per garantire le capacità di evoluzione del lavoro, sarebbe l’ipotesi di correggere l’individualismo neo-liberale adottando una cornice condivisa di tipo socialdemocratico (o meglio blairista). Ossia un compromesso in cui le imprese del capitalismo neo-liberale mantengono – in forme nuove, ma ugualmente pressanti - il loro controllo sulle prestazioni di lavoro dei dipendenti, promettendo compensazioni risarcitorie dal lato dei redditi e delle prestazioni di welfare destinate al lavoro.
In ambedue i casi, il sindacato sarebbe – secondo Trentin – destinato ad un arretramento fondamentale, perché il lavoratore perderebbe la possibilità di utilizzare i margini della transizione postfordista per riconquistare la libertà e l’unicità perdute in epoca fordista. Mancando così una delle grandi occasioni di riscatto fornite dall’evoluzione tecnologica e dalla storia.

7. Il cammino della transizione recupera l’intelligenza delle persone e la creazione condivisa di senso nelle comunità innovative

In effetti, la transizione postfordista non è condannata a seguire un percorso dato, ma può sperimentare traiettorie capaci di superare sia l’orizzonte del capitalismo neo-liberale che quello del capitalismo socialdemocratico, sopra richiamati.
Per una ragione innanzitutto: il governo della complessità che di fatto, dagli anni settanta in poi, eccede le capacità di controllo delle grandi organizzazioni gerarchiche, apre un problema che resta irrisolto nella logica delle grandi organizzazioni fordiste. E ciò rimette in campo l’intelligenza degli uomini, ossia le persone in carne ed ossa, con le loro differenze, la loro creatività, le loro emozioni condivise.
Dalla crisi del fordismo scaturisce infatti una domanda di flessibilità a cui le grandi organizzazioni non sono in grado di rispondere autonomamente. Cosa che le obbliga a rivolgersi all’esterno, facilitando l’emergere dal basso di sistemi decentrati – come i distretti industriali italiani, ma anche come la lean production giapponese – in cui l’intelligenza degli uomini impiegati nella linea produttiva diventa la risorsa chiave per gestire la complessità che standard, programmi e procedure codificate non riescono più a gestire. Vengono così recuperati ad un ruolo attivo nella soluzione di problemi complessi sia i molti imprenditori di piccola e media dimensione che popolano il territorio distrettuale, sia i lavoratori che in queste filiere flessibili svolgono compiti non rigidamente pre-fissati e controllati dall’alto. Sono gli uomini che, con la loro creatività ed emotività, contribuiscono a interpretare problemi complessi, adattano i comportamenti al caso singolo, sperimentano soluzioni nuove, non collaudate. E riescono a fare tutto questo contando sulla socializzazione delle conoscenze presenti nei diversi nodi del distretto (in quanto territorio e in quanto settore), nonché sui legami fiduciari che si vengono a creare nel corso del tempo tra imprese e persone per dividersi il lavoro nelle filiere, assumendo responsabilità comuni.
La ri-personalizzazione del lavoro, che prende forma negli ultimi decenni del ‘900, crea dunque una situazione nuova, in cui le organizzazioni sindacali e padronali, nate e consolidate in epoca di lavoro impersonale e massificato fanno fatica a muoversi.
Intanto, la situazione cambia perché arretra il loro potere contrattuale, dovendo rispondere non più a istanze allineate sulle mansioni standard, ma a problemi e opportunità differenziate e mutevoli, in cui l’unicità delle persone e delle situazioni, conta più della codificazione astratta delle relazioni, definita in contratti che cercano di ricondurle ad un modello standard. Di conseguenza, si moltiplicano i contratti negoziati tra le parti a scala nazionale, territoriale e aziendale, ma anche i loro contenuti diventano meno definiti e stabili, in termini di mansioni, comportamenti previsti, impegni assunti. Man mano che il peso delle grandi aziende sul totale degli occupati si riduce, decresce di fatto anche la presenza e la capacità contrattuale del sindacato, che trova difficoltà a radicarsi nella miriade di piccole e medie imprese che emergono in epoca postfordista.
Nei distretti, poi, più delle norme astratte contenute nei contratti, contano i rapporti diretti tra imprenditori e lavoratori assunti, che sovrappongono i compiti di un lavoro da prestare in condizioni fluide con le esigenze familiari e personali dei dipendenti, di cui gli imprenditori più consapevoli cercano di tenere conto, consolidando in questo modo la fedeltà del rapporto di lavoro. In questo melting pot professionale ed emotivo, migliaia di lavoratori dipendenti si convertono, dopo alcuni anni di esperienza, in neo-imprenditori, lavorando nelle filiere che li congiungono ad altri specialisti e committenti locali.
E’ vero che questa ri-personalizzazione, specie nei primi anni, ha assunto le forme deteriori del lavoro sommerso e poco o per niente regolato, venendo bollata come capitalismo del sottoscala (a domicilio) o lavoro nero (in evasione fiscale). Ma nel corso del tempo, la ri-personalizzazione del lavoro distrettuale ha recuperato i tratti della modernità industriale, intesa tuttavia in forma flessibile e personalizzata.
Dal 2000 in poi, come abbiamo detto, questo modo di lavorare ha perso in parte il suo appeal perché la nuova flessibilità consentita dalla digitalizzazione passa per macchine intelligenti che rendono possibile gestire a basso costo una sfera crescente di varietà, variabilità, interdipendenza e indeterminazione. Il ricorso a queste soluzioni non esclude l’uso dell’intelligenza umana sedimentata nei contesti territoriali e attiva nelle persone degli imprenditori e lavoratori, ma impone di situarla in un quadro di riferimento diverso: quello basato su filiere glo-cal (integrando il locale col globale) e sull’uso di linguaggi e conoscenze codificate, non solo informali e contestuali.
Con la digitalizzazione, il lavoro empirico e informale cresciuto nei distretti nel periodo 1970-2000 sta dunque arretrando, ma non va in scena un mero ritorno al passato fordista. E’ vero che in una prima istanza il digitale si afferma favorendo replicazione a macchia d’olio degli standard cognitivi di successo (dai like che danno valore ai siti, ai dispositivi “vincenti” che replicano milioni di volte lo stesso modello di cellulare). Questi standard sono molto visibili e qualche volta incombenti perchè vengono proposti al grande pubblico dalle multinazionali che monopolizzano, o quasi, la rete. Ma, nel corso del tempo, tende ad emergere anche un’altra faccia della transizione digitale, fatta di ri-personalizzazione delle conoscenze, dei prodotti e dei servizi, man mano che la rete abilita i suoi tanti utilizzatori (le imprese, i lavoratori, i consumatori, le comunità di senso ecc.) a relazionarsi con tutti coloro che, a scala mondiale, sono utili per condividere un’idea, un processo di filiera, un codice semantico emotivamente ricco . Anche l’esplorazione del nuovo, lungo un percorso di complessità crescente, si apre all’intelligenza e alle iniziative di singoli o di comunità di senso che cominciano ad auto-organizzarsi in rete.
Se il mondo digitale si ri-personalizza, anche il lavoro si muove verso questo nuovo modo di avvicinarsi – grazie alla mediazione comunicativa della rete - ai problemi e ai significati da condividere o da osteggiare. Con quello che si chiama smart working, il lavoratore comincia sempre di più a muoversi in una dimensione temporale e spaziale sottratta al controllo diretto dell’azienda, e affidata alla sua cura e intelligenza. Lo stesso vale per il valore che si crea condividendo con altri lavoratori e con gli utilizzatori a valle le conoscenze utili per competere nella nuova economia glo-cal. I lavori e i lavoratori non sono più tutti uguali, come accadeva nell’epoca della produzione di massa, ma sono – e devono essere – differenti e adattivi, contribuendo creativamente a sperimentare soluzioni nuove, non collaudate e non imposte dalla gerarchia.
Facendo leva su questo cambiamento del contesto economico e professionale, l’idea di Trentin è quella di poter costruire, insieme alle controparti che condividano il progetto, un capitalismo responsabile in cui si possa stabilire un “nuovo contratto sociale”. Un contratto basato – egli dice - su “un nuovo statuto di base per tutte le forme di lavoro, subordinato, eterodiretto o autonomo, partendo dalla consapevolezza che, per un numero crescente di lavoratori, il vecchio contratto sociale è superato” .
Nella nuova relazione, che dovrebbe sostituirlo, lo scambio tra capitale e lavoro è sempre meno collegato alla quantità (in termini di tempo-lavoro), mentre diventa decisiva la qualità della prestazione lavorativa (in termini di valore generato). Su questa traccia, nel progetto di Trentin, si configura un rapporto di lavoro per cui il potere decisionale può anche restare, in ultima istanza, nelle mani del management (o dell’imprenditore); ma in cui i lavoratori hanno garantita una propria sfera di autonomia e di responsabilità (sul risultato), potendo contare, in modo trasparente, sull’accesso a tutte informazioni che consentono di controllare il proprio oggetto di lavoro. Inoltre ad essi dovrebbe essere garantito il diritto ad una formazione continua che presidi la crescita delle capacità professionali e l’impiegabilità di ciascuno, sia nella mobilità professionale interna all’azienda che sul mercato del lavoro (nell’eventualità di dover passare da un’impresa ad un’altra).
Lo possono fare – e qui Trentin sottolinea in modo netto la questione – solo se si realizza un investimento cognitivo importante sulle capacità dei lavoratori e sulla loro autonomia responsabile, cosa che avvicina le forme di lavoro dipendente a quelle del lavoro autonomo, richiedendo una comune cornice contrattuale. Partendo da un allungamento dell’istruzione obbligatoria fino ai 18 anni, il nodo da sciogliere, nelle relazioni di lavoro, diventa allora quello di garantire un co-investimento in conoscenza che mobiliti insieme imprese, lavoratori e territori, attraverso progetti di innovazione condivisa, in cui ciascuno è chiamato a fare la sua parte. Favorendo così la socializzazione della conoscenza, cosa che può rendere i lavoratori protagonisti nella sperimentazione del nuovo. L’obiettivo è di rendere più creativa e coesa una società divenuta finalmente responsabile, capace di superare le contraddizioni emerse di volta in volta nella transizione in corso.
Non è un’utopia, ma il frutto di una evoluzione sotterranea che, anche se viene misconosciuta, fa emergere il nuovo in modo sempre più rilevante e visibile. Man mano che lavoro e conoscenza si avvicinano, prende infatti avvio, nella realtà del postfordismo di oggi, un graduale processo di ri-personalizzazione del mondo e del rapporto di lavoro. Ogni lavoratore-persona torna ad essere unico e ad esercitare una soggettività mossa dalle sue convinzioni e dai significati che condivide con altri (e con l’azienda).
Il sindacato potrebbe e dovrebbe essere protagonista innovativo in questa evoluzione verso il futuro possibile. Trentin ci ha creduto fino all’ultimo, ma è rimasto deluso per non essere stato ascoltato, e il titolo del libro (“La libertà viene prima”) lo testimonia. Tuttavia, la partita non è chiusa, perché la prospettiva descritta da Trentin rimane iscritta nel l’agenda delle cose da fare e delle innovazioni da sperimentare. Si tratta di dare spazio – nella sfera sindacale, ma anche in quella imprenditoriale e politica – a persone che siano disposte a crederci, assumendo i rischi e gli oneri di investimento che ciò comporta.
Leggere la riedizione de “La libertà viene prima”, in linea con lo spirito dei tempi, è un modo per fare un passo avanti in questa direzione, cominciando a credere insieme nella sperimentazione del nuovo: un altro futuro è possibile.

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