testo integrale con note e bibliografia

Nell’ambito della procedura finalizzata alla “chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50” disciplinata dai commi 224 e seguenti della L. 234/2021 assume un rilievo fondamentale (probabilmente il più significativo dell’intera struttura ideata dal Legislatore) la consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali (o della rappresentanza sindacale unitaria, ove costituita) e delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ad esse, e contestualmente anche alle regioni interessate, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Ministero dello sviluppo economico e all'ANPAL, il datore di lavoro che sia in possesso dei requisiti numerici richiesti dal comma 225 della L. 234/2021 (e che non si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l'insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi d'impresa) deve dare comunicazione per iscritto della propria intenzione “almeno centottanta giorni prima dell'avvio della procedura di cui all'articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223”.
La scelta del Legislatore di affidare al confronto fra le parti sociali un ruolo centrale nella gestione delle questioni che coinvolgono la salvaguardia dei diritti dei lavoratori (ed in primis del posto di lavoro) non è, ovviamente, nuova, e si pone in continuità con quanto già previsto, ad esempio, dall’art. 47 della Legge 428/1990 in materia di trasferimento d’azienda, dagli artt. 4 e 24 della Legge 223/1991 in materia di licenziamenti collettivi, più in generale dall’art. 4 del D. Lgs. 25/2007 di attuazione della direttiva 2002/14/CE che istituisce un quadro generale relativo all'informazione e alla consultazione dei lavoratori, dagli artt. 4 e seguenti del D. Lgs. 113/2012 (“Attuazione della direttiva 2009/38/CE riguardante l'istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l'informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie”) e più recentemente dall’art. 4 del D. Lgs. 12.1.2019, n. 14, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. E’ evidente in materia il tentativo del Legislatore, conscio dei limiti che l’articolo 41 della Costituzione pone in merito alla (in)sindacabilità delle scelte imprenditoriali riguardanti la gestione dell’impresa, anche ove esse comportino ricadute sui livelli occupazionali, di individuare degli strumenti alternativi a quelli dell’intervento (direttamente) normativo, che impongano al datore di lavoro un confronto con i rappresentanti dei lavoratori e con le loro organizzazioni sindacali con la finalità di orientare, se non proprio di limitare o condizionare, le scelte gestionali in una direzione auspicabilmente con essi condivisa.
Analoga strada è percorsa dalla contrattazione collettiva, che sempre più frequentemente introduce, nella parte dei contratti collettivi nazionali dedicata alle relazioni sindacali, degli obblighi di consultazione ed informazione, più o meno dettagliati e stringenti, riguardanti gli aspetti salienti dell’organizzazione d’impresa con riflessi sui rapporti di lavoro. Ne costituisce l’esempio più invocato (se ne dirà a breve richiamando alcune delle controversie recentemente giunte all’attenzione della magistratura) l’articolo 9 del CCNL Metalmeccanici Industria del 5.2.2021, ma clausole in tal senso sono rinvenibili, ad esempio, anche negli artt. 13 e 14 del CCNL Credito e nell’art. 3 del CCNL Terziario Confcommercio.
Si può quindi affermare senza tema di smentita che gli obblighi di consultazione ed informazione degli organi di rappresentanza sindacale dei lavoratori costituiscono ormai un principio generale ed immanente al sistema delle relazioni sindacali tanto a livello normativo, sia eurounitario sia nazionale, quanto a livello di contrattazione collettiva, che garantisce alle organizzazioni sindacali un vero e proprio diritto di informazione e consultazione suscettibile di ottenere, in caso di violazione, tutela in sede giurisdizionale.
Ed infatti è proprio contestando il rispetto degli obblighi di consultazione ed informazione imposti dalle norme di legge e/o dalle clausole della contrattazione collettiva che le organizzazioni sindacali hanno cercato di contrastare in sede giudiziaria, invocando a tal fine la repressione della condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, le iniziative assunte dalle imprese suscettibili di avere ricadute sull’occupazione. Ne costituiscono chiaro esempio, per citare i più noti e recenti, i casi GKN , Whirlpool , Gianetti FAD Wheels s.r.l. , Caterpillar ed infine il caso Warstila , il primo ad occuparsi specificamente della disciplina in materia di delocalizzazioni introdotta dai commi 224 e seguenti della L. 234/2021. Una strada che si è rivelata processualmente efficace, per le organizzazioni sindacali, ove si consideri che, a parte il rigetto del Tribunale di Napoli nel caso Whirlpool , tutti gli altri casi si sono conclusi con l’accertamento della violazione, da parte del datore di lavoro, degli obblighi di informazione e consultazione delle OO.SS. e quindi con la dichiarazione dell’antisindacalità della condotta datoriale .
Accanto al diritto alla consultazione ed all’informazione sopra richiamato coesiste però (ed è questo l’aspetto sul quale maggiormente si accentra questo intervento) , anche nelle stesse fonti normative e contrattuali che lo disciplinano, un obbligo a ciò correlato, al quale solo recentemente le parti datoriali (verosimilmente “scottate” dall’esito prevalentemente sfavorevole delle controversie giudiziali sopra richiamate) hanno cominciato ad attribuire un peso significativo, anche in funzione di eccezione processuale : l’obbligo di garantire, sotto forma di divieto di comunicazione a terzi e di divulgazione, la riservatezza delle informazioni rese disponibili ai rappresentanti dei lavoratori ed alle organizzazioni sindacali nell’ambito delle procedure di consultazione.
Le esigenze sottese a tale obbligo sono di tutta evidenza: solo per citare le più eclatanti, sarà sufficiente evidenziare che, a maggior ragione ove si tratti di imprese di grandi dimensioni (com’è, in particolare, per ciò che riguarda quelle assoggettate agli obblighi procedurali disciplinati dai commi 224 e seguenti della L. 234/2021) i cui titoli sono scambiati nei mercati finanziari regolamentati, la diffusione di notizie relative a riduzioni di personale, chiusura di stabilimenti, delocalizzazioni di attività produttive o anche a piani di sviluppo industriale, nuovi progetti, nuovi modelli di business può comportare (nella più fisiologica delle ipotesi) significative variazioni del valore dei titoli, con conseguenti ricadute sull’intera categoria degli investitori; ma il taluni casi (che scadono ovviamente nella patologia, assumendo in talune ipotesi anche rilievo penale) può mettere chi riceva tali informazioni prima che esse divengano di pubblico dominio nelle condizioni di avvantaggiarsene per porre in essere operazioni speculative di vendita o di acquisto dei titoli.
Non a caso già le norme che impongono gli obblighi di informazione e consultazione prevedono al tempo stesso, pur con sfumature diverse, l’obbligo di garantire la riservatezza delle informazioni condivise nel corso della consultazione.
Ed infatti il D. Lgs. 25/2007 (Attuazione della direttiva 2002/14/CE che istituisce un quadro generale relativo all'informazione e alla consultazione dei lavoratori), dopo aver disciplinato all’articolo 4 gli obblighi di informazione e consultazione e le relative modalità, introduce specifiche disposizioni a tutela della riservatezza delle informazioni rese disponibili dal datore di lavoro; stabilisce infatti l’articolo 5, comma 1, che “I rappresentanti dei lavoratori, nonché gli esperti che eventualmente li assistono, non sono autorizzati a rivelare né ai lavoratori né a terzi, informazioni che siano state loro espressamente fornite in via riservata e qualificate come tali dal datore di lavoro o dai suoi rappresentanti, nel legittimo interesse dell'impresa. (…). I contratti collettivi nazionali di lavoro possono tuttavia autorizzare i rappresentanti dei lavoratori e eventuali loro consulenti a trasmettere informazioni riservate a lavoratori o a terzi vincolati da un obbligo di riservatezza, previa individuazione delle relative modalità di esercizio da parte del contratto collettivo”. Non solo; il secondo comma prevede altresì casi in cui il datore di lavoro è addirittura esonerato dall’obbligo di fornire le informazioni, stabilendo che tale onere non sussiste per le informazioni che “per comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive siano di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell'impresa o da arrecarle danno”; previsione, quest’ultima, che lascia al datore di lavoro spazi di difesa potenzialmente molto ampi (dipende ovviamente dalla “sensibilità” dell’interprete che, in caso di controversia, è chiamato ad applicarla), ove si consideri che la decisione, ad esempio, di chiudere uno stabilimento produttivo per cessazione della produzione ivi sviluppata, informazione certamente rientrante nel “perimetro” di quelle che il datore di lavoro sarebbe tenuto a trasmettere ai sensi dell’art. 4 del D. Lgs. 25/2007, è al tempo stesso verosimilmente foriera di un consistente pregiudizio commerciale, in relazione ai rapporti con i competitors operanti nel settore e/o nel territorio, e così pure nei rapporti con la clientela e/o con gli investitori.
Analoghe indicazioni sono rinvenibili nel D. Lgs. 113/2012, “Attuazione della direttiva 2009/38/CE riguardante l'istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l'informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie”, il cui articolo 10 (rubricato significativamente “Informazioni riservate”) stabilisce al primo comma che “I membri della delegazione speciale di negoziazione e del Cae , nonché gli esperti che eventualmente li assistono e i rappresentanti dei lavoratori che operano nell'ambito di una procedura per l'informazione e la consultazione, non possono rivelare a terzi notizie ricevute in via riservata e qualificate come tali dalla direzione centrale o dal dirigente di cui all'articolo 4, comma 1”, ed introduce al secondo comma una clausola di esonero dall’obbligo di comunicazione delle informazioni la cui diffusione sia idonea a creare notevoli difficoltà al funzionamento o all'attività esercitata dalle imprese interessate o da arrecare loro danno ovvero (ed in ciò delinea un campo di applicazione più ampio di quello definito dal D. Lgs. 25/2007) “da realizzare turbativa dei mercati”; non solo, ma l’articolo 12, comma 3, dello stesso Decreto Legislativo aggiunge che solo “Fatto salvo quanto disposto dall'articolo 10”, e quindi nel rispetto degli obblighi di riservatezza, “i membri del Cae informano i rappresentanti dei lavoratori degli stabilimenti o delle imprese di un gruppo di imprese di dimensioni comunitarie o, in assenza di rappresentanti, l'insieme dei lavoratori riguardo alla sostanza e ai risultati della procedura per l'informazione e la consultazione attuata a norma del presente decreto legislativo”.
Particolarmente stringenti, anche in considerazione del campo di applicazione (quello della negoziazione dei titoli sui mercati finanziari), è poi la disciplina del Regolamento (Ue) N. 596/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 Aprile 2014 relativo agli Abusi Di Mercato (Regolamento Sugli Abusi Di Mercato), cd. “Market Abuse Regulation”, la cui disciplina si applica agli emittenti di tutti gli strumenti finanziari ivi previsti ed a tutti coloro che, in conseguenza dell’attività svolta o in conseguenza dei legami con persone che, in quanto coinvolte professionalmente nell’investimento o nella operazione societaria ad esso collegata, hanno accesso alle cd. informazioni privilegiate prima che queste possano essere diffuse al pubblico. La violazione degli obblighi posti dal MAR rientra nella nozione di abuso di mercato, tipizzato in tre fattispecie: l’abuso di informazioni privilegiate, la comunicazione illecita di informazioni privilegiate e la manipolazione del mercato.
Ancora, l’obbligo della riservatezza è espressamente previsto anche con riferimento alle consultazioni previste e disciplinate dall’articolo 4, comma 3, del D. Lgs. 14/2019 (CCII), essendo ivi previsto che “La consultazione si svolge con vincolo di riservatezza rispetto alle informazioni qualificate come tali dal datore di lavoro o dai suoi rappresentanti nel legittimo interesse dell'impresa”.
Disposizioni di tal genere non compaiono invece, nell’ambito delle norme che la L. 234/2021 dedica alla procedura che è necessario seguire da parte del datore di lavoro che intenda procedere alla chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50. Nulla dice, infatti, tale legge in merito agli obblighi di segretezza che connotano le informazioni fornite in sede di confronto e che gravano su coloro ai quali tali informazioni vengono fornite. Ci si può chiedere, in proposito, se il silenzio del Legislatore sul punto debba (o possa) essere inteso come volontà di non assoggettare le informazioni così fornite ad alcun vincolo di segretezza; e tale considerazione potrebbe forse trovare il proprio fondamento in considerazione del fatto che la platea dei destinatari dell’informazione è talmente ampia (rappresentanze sindacali aziendali o rappresentanza sindacale unitaria, sedi territoriali delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, Regioni interessate, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero dello sviluppo economico, ANPAL), e fra l’altro comprendente enti di diritto pubblico connotati da particolari obblighi di trasparenza sulle informazioni trattate, che anche solo pensare di mantenerle riservate appare utopistico. D’altra parte, è difficilmente revocabile in dubbio che l’obbligo di riservatezza sembra ormai permeare l’ordinamento giuridico a tal punto da costituire anch’esso (al pari del diritto alla consultazione ed a ricevere informazioni) un principio ad esso immanente, difficilmente eludibile sulla base del solo silenzio del Legislatore nel disciplinare le procedure specificamente finalizzate alle operazioni in questione.
Gli obblighi di riservatezza, peraltro, sono espressamente disciplinati anche nell’ambito della contrattazione collettiva; in particolare, ed in termini particolarmente stringenti, anche dall’articolo 9 del CCNL Metalmeccanici Industria (proprio la norma più frequentemente invocata in sede giudiziale), prevedendo che “I partecipanti alle riunioni sono tenuti alla riservatezza sulle informazioni che siano state loro espressamente fornite in via riservata e qualificate come tali ed al rigoroso rispetto del segreto industriale su fatti e dati di cui vengono a conoscenza. La Direzione può autorizzare i rappresentanti dei lavoratori a trasmettere le informazioni riservate, nei limiti che saranno espressamente indicati, a lavoratori o a terzi, anch'essi vincolati dall'obbligo di riservatezza” e disciplinando la costituzione di apposite commissioni di conciliazione per la decisione in merito ad eventuali controversie insorte fra le parti circa la qualificazione di riservatezza delle informazioni.
Ciò detto, occorre sottolineare come l’affermazione dell’obbligo di riservatezza, o meglio del divieto di trasmissione a terzi non autorizzati delle informazioni riservate, è un proclama tutt’altro che sfornito di sanzione, anzi. Anche a voler prescindere dalla generale sanzione civilistica del risarcimento del danno, propria di ogni comportamento illecito in quanto costituente violazione di una obbligazione di origine legale o contrattuale (che già di per sé, peraltro, manifesta la propria rilevanza, in considerazione del fatto che la perdita del valore di mercato anche di un solo punto percentuale di un titolo rappresentativo di quote societarie può significare, in termini di obbligo risarcitorio, centinaia di migliaia o milioni di euro), occorre ricordare che la fattispecie è corredata da uno specifico regime sanzionatorio, che, in certe fattispecie, assume rilievo anche penale; ed infatti l’articolo 184 del D. Lgs. 58/1998 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) stabilisce che “E' punito con la reclusione da due a dodici anni e con la multa da euro ventimila a euro tre milioni chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell'emittente, della partecipazione al capitale dell'emittente ovvero dell'esercizio di un'attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: (…) b) comunica tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell'ufficio o di un sondaggio di mercato effettuato ai sensi dell'articolo 11 del regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014”; ed aggiunge il terzo comma dello stesso articolo che “Fuori dei casi di concorso nei reati di cui ai commi 1 e 2, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a dieci anni e con la multa da euro ventimila a euro due milioni e cinquecentomila chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate per ragioni diverse da quelle indicate ai commi 1 e 2 e conoscendo il carattere privilegiato di tali informazioni, commette taluno dei fatti di cui al comma 1”. Il comportamento, per di più, è punito (ai sensi dell’art. 187 bis, comma 1, del D. Lgs. 58/1998, anche nell’ipotesi in cui il fatto non costituisca reato, essendo suscettibile di essere punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila euro a cinque milioni di euro chiunque viola il divieto di abuso di informazioni privilegiate e di comunicazione illecita di informazioni privilegiate di cui all'articolo 14 del Regolamento (UE) n. 596/2014. E’ prevista anche la rilevanza del comportamento sotto il profilo disciplinare, posto che l’art. 5, comma 1 del D. Lgs. 25/2007 stabilisce che “In caso di violazione del divieto, fatta salva la responsabilità civile, si applicano i provvedimenti disciplinari stabiliti dai contratti collettivi applicati”.
Ecco quindi che, a fronte del proliferare di iniziative in sede giudiziaria volta a vanificare (o quantomeno a procrastinare) gli effetti di decisioni imprenditoriali di chiusura o delocalizzazione di impianti produttivi instaurate invocando la violazione degli obblighi di consultazione ed informazione previsti dalle norme di legge e della contrattazione collettiva a favore dei rappresentanti dei lavoratori, i datori di lavoro convenuti in giudizio hanno cominciato a esplorare in funzione difensiva la portata e gli effetti dell’obbligo di riservatezza che fa da contraltare e bilanciamento all’obbligo di informazione.
Se ne trova un esempio significativo nel contenzioso Warstila , nel quale la società convenuta ha cercato di giustificare la mancata informazione alle organizzazioni sindacali nell’ambito della procedura di consultazione sulla base della “asserita mancata conoscenza, da parte di Wartsila Italia, del progetto di chiusura del sito, a causa della necessità, da parte della capogruppo, di rispettare le disposizioni del Market Abuse Regulation” ed in considerazione del fatto che tale normativa “avrebbe impedito ogni comunicazione inerente al progetto di chiusura qui in discussione, a pena della commissione di illeciti penali”. In tale occasione il Tribunale giuliano ha ritenuto di poter agevolmente, ed in poche battute , rigettare l’eccezione osservando che le disposizioni del Market Abuse Regulation puniscono solo i soggetti che “illecitamente” forniscono o diffondono informazioni confidenziali e che “non appare allo scrivente che adempiere ad un obbligo di informazione al quale si è tenuti per impegni contrattuali e nel rispetto del principio costituzionale di libertà sindacale possa ritenersi condotta illecita”. Dopo aver richiamato il principio di diritto interno relativo alla “indifferenza delle dinamiche infragruppo” cristallizzato dall’art. 4, comma 15 bis della L. 223/1991 , il giudicante richiama l’articolo 10 del Regolamento 596/2014 ai sensi del quale “si ha comunicazione illecita di informazioni privilegiate quando una persona è in possesso di informazioni privilegiate e comunica tali informazioni a un’altra persona, tranne quando la comunicazione avviene durante il normale esercizio di un’occupazione, una professione o una funzione”: norma in forza della quale, secondo la valutazione del Giudice di Trieste, risulterebbe esclusa l’illegittimità della comunicazione di informazioni che i vertici della società capogruppo erano tenuti a trasmettere nell’esercizio delle loro funzioni.
In effetti, la soluzione difensiva adottata dalla società convenuta risulta difficilmente foriera di risultati utili a giustificare la mancanza di informazione alle organizzazioni sindacali. Sostenere, infatti, che i vertici societari della capogruppo siano tenuti a non comunicare alle società controllate, e di lì a seguire ai soggetti indicati dall’art. 1 comma 224 della L. 234/2021 in caso di apertura di una procedura di chiusura o delocalizzazione di stabilimento, le informazioni relative alla decisioni in tal senso adottate, trova ostacolo, oltre che nell’articolo 10 menzionato dal provvedimento del Tribunale di Trieste, anche nel considerando n. 77 del Regolamento 596/2014, ove si afferma che “Il presente regolamento rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (la «Carta»). Il presente regolamento dovrebbe quindi essere interpretato e applicato conformemente a tali diritti e principi”; la Carta, infatti, disciplina i diritti dei lavoratori e delle loro organizzazione rappresentative, con la conseguenza che il MAR, in applicazione del “considerando” ora menzionato, non può comportare effetti che si pongano in contrasto con i diritti previsti dalla Carta (e dalle altre norme del diritto eurounitario) a beneficio dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali.
Il richiamo alla Market Abuse Regulation non sembra quindi consentire di per sé al datore di lavoro di evitare di fornire ai soggetti legittimati le informazioni, ancorché “privilegiate”, opponendo a tal fine il divieto di comunicazione o divulgazione di esse; i rappresentanti dei lavoratori e gli altri soggetti caso per caso individuati dalla disciplina applicabile hanno, secondo tale disciplina, il diritto di riceverle.
Il piano può invece essere quello di imporre ai soggetti che, nell’ambito delle procedure di consultazione, ricevono le informazioni di mantenere su di esse la più rigorosa riservatezza, e quindi precludendo ad essi la possibilità di comunicarle a terzi che non siano a loro volta legittimati a riceverle ed altrettanto soggetti al vincolo della segretezza. Piuttosto, potrebbero essere valorizzate (ed invocate in funzione difensiva) le indicazioni, particolarmente stringenti, che la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea fornisce in merito alle modalità ed ai limiti entro i quali la comunicazione delle informazioni, quand’anche dovuta, risulta legittima, a tal fine specificando che la comunicazione risulta legittima solo se strettamente necessaria e finalizzata all’esercizio del lavoro o professione, ed in base ai principi di proporzionalità e prudenza . O ancor più efficacemente potrebbe essere imposto ai soggetti che ricevono le informazioni di rispettare i rigorosi adempimenti che la Market Abuse Regulation impone a carico di coloro che ricevono le informazioni, adempimenti la cui osservanza metterebbe sicuramente in difficoltà le organizzazioni sindacali: stabilisce infatti l’articolo art. 18 MAR al primo comma che “Gli emittenti e le persone che agiscono a nome o per conto loro: redigono un elenco di tutti coloro che hanno accesso a informazioni privilegiate e con i quali esiste un rapporto di collaborazione professionale, anche sulla base di un contratto di lavoro dipendente, o che comunque svolgono determinati compiti tramite i quali hanno accesso alle informazioni privilegiate, quali consulenti, contabili o agenzie di rating del credito (elenco delle persone aventi accesso a informazioni privilegiate)”, ed aggiunge al secondo comma che tali soggetti “adottano ogni misura ragionevole per assicurare che chiunque figuri nell'elenco delle persone aventi accesso a informazioni privilegiate prenda atto, per iscritto, degli obblighi giuridici e regolamentari connessi e siano a conoscenza delle sanzioni applicabili in caso di abuso di informazioni privilegiate e di comunicazione illecita di informazioni privilegiate”. In applicazione di tale disposizione, dunque, ad ogni componente della delegazione sindacale può essere richiesto di sottoscrivere un documento con il quale dichiara di prendere atto che le informazioni fornite hanno natura privilegiata e che la comunicazione di esse a terzi è suscettibile di essere sanzionato ai sensi di legge: un adempimento che, è lecito immaginare, non porrebbe a proprio agio i partecipanti alla delegazione sindacale.
Più efficace ancora, ma allo stato inesplorata in sede giudiziale, a quanto consta, potrebbe risultare l’eccezione fondata sul disposto dell’articolo 5, comma 2, del D. Lgs. 25/2007 o dell’articolo 10, comma 2, del D .Lgs. 113/2012 che, come sopra ricordato consentono al datore di lavoro di non fornire le informazioni che “per comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive siano di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell'impresa o da arrecarle danno”; tali disposizioni, infatti, potrebbero essere interpretate nel senso di consentire al datore di lavoro di omettere la comunicazione di informazioni riferite alle proprie scelte gestionali, quali ad esempio la chiusura di uno stabilimento e la conseguente necessità di dar corso ad una procedura di licenziamento collettivo, in considerazione del fatto (del quale ovviamente il datore di lavoro sarebbe in tal caso tenuto a fornire la prova) che la diffusione di tali notizie potrebbe arrecare un danno sotto il profilo della valutazione di mercato dei propri titoli o della concorrenza.
In conclusione, emerge da quanto sin qui esposto che il tema del bilanciamento fra il diritto delle organizzazioni sindacali alla trasparente informazione sulle decisioni imprenditoriali che assumono rilievo in merito all’occupazione dei lavoratori ed il diritto dell’imprenditore/datore di lavoro alla riservatezza sulle informazioni la cui diffusione è suscettibile di arrecargli pregiudizio è attuale, complesso, e suscettibile di svilupparsi sotto molteplici profili anche in sede giudiziale.
Volendo cercare una sintesi, appaiono ben più fondatamente ed efficacemente percorribili le soluzioni giuridiche che hanno come finalità quella di far sì che le informazioni, una volta comunicate ai soggetti che hanno diritto di riceverle in base alla normativa vigente, siano a loro volta tenute a far sì che esse non vengano comunicate a terzi (e financo ai lavoratori interessati), piuttosto di quelle che si pongono come obiettivo quello di evitare che le informazioni vengano fornire ai soggetti titolati a prendere parte alle procedure di consultazione.

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