Testo Integrale con note e bibliografia

I. – Introduzione

La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 16601 del 2017, in merito alla possibilità di eseguire in Italia una pronuncia nordamericana di condanna a punitive damages , e al tempo stesso in merito alla funzione, o per meglio dire alle funzioni della responsabilità civile , è senza dubbio destinata a essere un punto di riferimento e a suscitare numerose riflessioni da tante prospettive diverse.
La particolare prospettiva che si intende proporre in questa sede è quella di un confronto tra la pronuncia italiana e le paragonabili – in quanto provenienti anch’esse dai vertici delle relative giurisdizioni e in quanto divenute anch’esse punti di riferimento nei rispettivi Paesi – pronunce di Francia e Germania, ovverosia i due ordinamenti giuridici europei cui il nostro, tradizionalmente, più intensamente si ispira.
Il confronto riguarderà innanzi tutto la questione dei punitive damages nordamericani, ma sarà poi anche l’occasione per talune riflessioni più generali sulle diverse tecniche di redazione delle sentenze e di decisione giurisprudenziale nei principali Paesi di civil law.

II. – La posizione del Bundesgerichtshof del 1992

In Germania, la pronuncia fondamentale – nonostante che non manchino, nella stessa giurisprudenza tedesca, posizioni almeno in parte dissonanti – rimane ancora oggi un Urteil del Bundesgerichtshof del 1992 .
Il caso di specie concerne un cittadino tedesco di nascita, il quale aveva poi acquistato pure la cittadinanza degli Stati Uniti d’America, dove aveva fino a un certo punto anche vissuto, e il quale, dopo essersi trasferito in Germania, essendo lì titolare di un patrimonio immobiliare, è condannato, da un giudice statunitense, innanzi tutto a una lunga pena detentiva per avere abusato sessualmente di un adolescente, cittadino nordamericano. Quest’ultimo soggetto ottiene poi, da una diversa autorità giudiziaria nordamericana, pure la condanna del reo a un notevole risarcimento complessivo , e chiede dunque che la medesima condanna sia dichiarata eseguibile in Germania, arrivando appunto dinanzi al BGH. La sentenza statunitense non contiene una illustrazione dettagliata né della fattispecie concreta né delle motivazioni della decisione, ma dal verbale del processo nordamericano si desumono, innanzi tutto, le seguenti voci risarcitorie: una cifra trascurabile a titolo di spese mediche già sostenute, una cifra importante a titolo di spese mediche future, nonché una cifra significativa per costi di soggiorno che si prevedono necessari a tale ultimo fine. Davvero elevata è, inoltre, la quantificazione a titolo di – potremmo tradurre – danno non patrimoniale. Pressoché pari, o per meglio dire di poco superiore alla somma di tutte le altre voci indicate in precedenza è, poi, la quantificazione a titolo di punitive damages .
In estrema sintesi, il BGH adotta una impostazione particolarmente favorevole al danneggiato straniero in relazione a tutte le voci di danno diverse dal risarcimento punitivo, nonostante che tali voci di danno, in un caso analogo che fosse stato deciso da un giudice tedesco secondo il diritto interno tedesco, sarebbero risultate, per motivi diversi, da escludere o almeno da limitare notevolmente nella loro quantificazione , e una impostazione di segno opposto in relazione ai punitive damages, con riguardo ai quali si conclude che «una sentenza degli Stati Uniti d’America in merito a un risarcimento punitivo […] di ammontare non irrilevante, riconosciuto globalmente in aggiunta all’attribuzione di un risarcimento per danni patrimoniali e non patrimoniali, non può, di regola, essere dichiarata, sotto tale profilo, eseguibile in Germania» .
La sentenza tedesca integra, nella sostanza, un pregevole saggio dottrinale, essendo le citazioni non solo della giurisprudenza precedente ma anche della copiosa dottrina in argomento continue e appropriate, oltre che facilmente verificabili da parte di chiunque (il BGH, infatti, proprio come si addice a un saggio dottrinale, precisa persino i numeri di pagina delle opere di volta in volta richiamate).
La medesima sentenza, anche se è scritta con uno stile tutto sommato essenziale, è assai estesa, soprattutto in quanto si preoccupa di argomentare approfonditamente (ancora una volta, come si addice a un saggio dottrinale) le proprie tesi, e così anche la già menzionata scelta di una netta chiusura ai puntive damages, per la quale si fa leva su due argomentazioni fondamentali (incentrate l’una sul principio di proporzionalità, con il quale inesorabilmente contrasterebbe il fatto che una sentenza di condanna civile persegua interessi pubblici da ricondurre al monopolio punitivo dello Stato, al di fuori delle relative garanzie sostanziali e procedurali; e l’altra sul principio di uguaglianza, nel senso che l’introduzione dei punitive damages in un ordinamento che d’ordinario non li conosce si tradurrebbe in una irragionevole disparità di trattamento dei creditori nazionali rispetto ai creditori stranieri), accennandosene pure una terza (consistente nel dubbio che il risarcimento punitivo statunitense, pur avendo natura civilistica, ma perseguendo finalità pubblicistiche affini a quelle delle pene criminali, contrasti altresì con il principio del ne bis in idem in materia penale).
Il BGH, inoltre, argomenta diffusamente anche in prospettiva comparatistica, soprattutto (ma non solo: per esempio chiarendosi, in un punto della sentenza, come pochi altri Stati nel mondo contemplino i punitive damages) con riguardo al diritto statunitense. La sentenza tedesca lascia dunque trasparire la convinzione che occorra avvicinarsi alla materia rinunciando a ogni aprioristico particolarismo giuridico, e così anche rispettando massimamente il diritto nordamericano: per questo motivo, la (non) compatibilità dei punitive damages con l’ordine pubblico tedesco è valutata solo all’esito di una dettagliata ricostruzione dei tratti essenziali dell’istituto nel Paese di origine .

III. – La posizione della Cour de cassation francese del 2010

In Francia, la pronuncia di riferimento – sia per la dottrina sia per la giurisprudenza – risale al 2010 .
Nel caso di specie, una coppia di coniugi statunitensi aveva acquistato, per il prezzo di circa 800.000 dollari , per finalità di svago, una barca di pregio (precisamente un catamarano) prodotta da una società francese. Tale barca era però risultata gravemente difettosa per numerosi motivi diversi, e la società francese aveva tenuto un comportamento particolarmente riprovevole e malizioso, avendo essa occultato alcuni vizi fondamentali insorti già prima della consegna ed essendosi poi anche rifiutata di effettuare le necessarie riparazioni. I coniugi ottengono dunque una sentenza statunitense che condanna la società francese al pagamento di più di 3 milioni di dollari, di cui poco meno della metà a titolo di punitive damages , e vorrebbero eseguirla in Francia, giungendo, all’esito di un iter processuale piuttosto complicato, dinanzi alla Cour de cassation, la quale afferma che, «si le principe d’une condamnation à des dommages-intérêts punitifs, n’est pas, en soi, contraire à l’ordre public, il en est autrement lorsque le montant alloué est disproportionné au regard du préjudice subi et des manquements aux obligations contractuelles du débiteur». La conclusione, in altre parole, è che l’esecuzione in Francia di simili decisioni straniere è in linea di principio concedibile, salva però la necessità di verificare di volta in volta la proporzionalità del risarcimento punitivo, che nel caso di specie mancherebbe, negandosi così, in relazione al medesimo caso di specie, qualsivoglia esecuzione – sia pure con riguardo alle sole voci risarcitorie meramente compensative – della sentenza statunitense.
La pronuncia francese può sembrare, a prima vista, una significativa apertura ai punitive damages nordamericani (e proprio in questo senso è frequentemente citata in dottrina e in giurisprudenza ), ma il presupposto della proporzionalità, pur rimanendo ampiamente indeterminato, si rivela pesantissimo, in quanto – vale la pena di ribadirlo – nel caso di specie è ritenuto senz’altro assente, nonostante che il risarcimento punitivo non fosse nemmeno pari alla somma di tutte le altre voci di danno, e in quanto tale assenza – sia pure probabilmente anche a causa di una errata strategia processuale degli attori, i quali non si erano preoccupati di domandare l’esecuzione parziale della sentenza straniera – porta addirittura alla conseguenza, che pare francamente eccessiva , della negazione di qualsivoglia risarcimento. Ciò ha spinto taluni commentatori francesi a parlare di un «trompe-l’œil» giurisprudenziale , ovverosia di una sostanziale, netta chiusura ai punitive damages nordamericani (sia pure mascherata da apertura).
La sentenza non menziona alcuna posizione dottrinale né lascia anche solo vagamente intendere di avere preso spunto da particolari elaborazioni teoriche precedenti, nonostante che non manchino, nella letteratura francese successiva, rivendicazioni di autori che sottolineano di avere proposto sostanzialmente la medesima soluzione poi fatta propria dalla Cour de cassation .
Conformemente alla ben nota tradizione francese (in linea di massima, quella del giudice che dovrebbe limitarsi a essere bouche de la loi ), la sentenza in esame è, inoltre, brevissima, dedicando essa poche righe, per non dire poche parole alla specifica questione dei punitive damages, senza svolgere vere e proprie argomentazioni al fine di sostenere la tesi propugnata (un poco più approfondito, ma sempre essenziale, è il ragionamento nella parte in cui si evidenziano gli aspetti più rilevanti della fattispecie concreta).
La Cour de cassation non compie, inoltre, il benché minimo riferimento allo stato dell’arte sui punitive damages in ordinamenti giuridici stranieri, evitando essa anche solo di accennare i loro tratti essenziali negli Stati Uniti d’America.

IV. – La posizione delle Sezioni Unite della Cassazione del 2017

Il caso di specie (particolarmente complicato) affrontato dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 16601 del 2017 concerne una società italiana condannata, negli Stati Uniti d’America, a pagare una somma complessiva di poco superiore a 1.500.000 dollari a una società nordamericana al fine di manlevare quest’ultima, la quale aveva pagato una cifra di poco inferiore a un motociclista statunitense che aveva subito danni alla persona nell’ambito di un incidente accaduto durante una gara, a causa di un vizio del casco prodotto dalla società italiana e rivenduto dalla società nordamericana. Il motocilista aveva precedentemente proposto, anche a titolo di punitive damages, alla società nordamericana (peraltro coinvolgendo pure la società italiana e permettendone l’intervento nelle trattative), il pagamento in parola nell’ambito di una transazione, prontamente accettata da quest’ultima, che aveva poi corrisposto la somma concordata e però anche ottenuto alcune pronunce statunitensi in cui si sanciva, come già accennato, l’obbligo di manleva in capo alla società italiana. Di tali pronunce è chiesto il riconoscimento in Italia, che la Corte d’appello di Venezia concede, precisando, tra l’altro, che la condanna della società italiana trovava titolo non nell’obbligo di risarcimento del danno in favore del motociclista danneggiato, ma nell’obbligo di manleva verso la società nordamericana, senza alcun riguardo ai punitive damages. La società italiana, però, ricorre per Cassazione, dove si giunge alla citata pronuncia delle Sezioni Unite le quali, con dettagliate e persuasive argomentazioni (su cui non vale la pena di soffermarsi in questa sede), innanzi tutto confermano come il caso di specie, per il suo particolare atteggiarsi, nemmeno ponga la questione dei punitive damages, essendo, già solo per questa via, il ricorso senz’altro rigettato. Ciò nonostante, le medesime Sezioni Unite ritengono di potersi pronunciare anche su tale questione (ai sensi dell’art. 363, 3° co., c.p.c.), enunciando il seguente principio di diritto: «Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico».
Orbene, le Sezioni Unite, pur attuando senz’altro un revirement rispetto all’orientamento giurisprudenziale tradizionale , lo fanno, a ben vedere, in modo particolarmente cauto, o moderato (soprattutto considerate le innovazioni più radicali che erano state prefigurate da una precedente ordinanza interlocutoria e da parte della dottrina ).
Con riguardo alle funzioni della responsabilità civile italiana, infatti, alla generalità che la massima sembra assegnare – apparentemente sullo stesso piano di quella compensativa – pure alle funzioni deterrente e sanzionatoria, si contrappone la motivazione della sentenza dove si trova, invece, chiaramente affermato come, nel diritto italiano, tali ultime funzioni possano essere assunte dalla responsabilità civile solo là dove specifiche previsioni di legge lo prevedano, nel doveroso rispetto degli artt. 23 e 25, comma 2, Cost. , ribadendosi testualmente l’«esigenza di smentire sollecitazioni tese ad ampliare la gamma risarcitoria in ipotesi prive di adeguata copertura normativa», e altresì la «preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto». Così precisata, la tesi è condivisibile, sia in quanto tiene conto dell’orientamento dottrinale ormai dominante (pur non mancando varie posizioni diverse) in Italia, sostanzialmente conformandosi a esso, sia soprattutto in quanto è particolarmente moderata nel “superare” il tradizionale principio della riparazione integrale del danno e la connessa funzione squisitamente compensativa della responsabilità civile , che risultano anzi, a ben vedere, riaffermati, ammettendosi solo la possibilità di talune eccezioni, qualora la legge italiana specificamente le preveda.
Venendo più direttamente alla riconoscibilità in Italia di sentenze straniere di condanna a punitive damages, le Sezioni Unite sostanzialmente seguono – sia pure senza dichiararlo espressamente – il modello francese, però dimostrandosi ancora più caute, in quanto, come presupposti per il riconoscimento, indicano, in aggiunta alla proporzionalità (su cui si incentra, come già rammentato, la posizione della Cour de cassation francese), anche la tipicità e la prevedibilità della sanzione straniera (presupposti, questi, evidentemente cumulativi e che dovranno essere in futuro attentamente verificati in relazione a ciascun caso di specie). L’idea di fondo pare insomma che le fondamentali garanzie sostanziali (ma non anche quelle procedurali) del diritto penale debbano valere pure per le sanzioni civili para-penali .
La sentenza italiana è fortemente debitrice, in più punti, verso talune elaborazioni dottrinali, non facendo essa nulla per nasconderlo, e anzi non di rado apertamente sottolineandolo (con espressioni del tipo: «casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico», «la dottrina ha spiegato», «è stato notato anche in dottrina»), sia pure, come di consueto per la Corte di Cassazione, senza citare mai né i nomi degli autori, né le loro opere.
La medesima sentenza, inoltre, pur essendo più breve di altre della giurisprudenza italiana (senza contare che già solo le particolarità della fattispecie concreta indubbiamente richiedevano un notevole approfondimento), è relativamente ampia (tanto più che si tratta, nella parte poco sopra sintetizzata, sostanzialmente di un obiter dictum).
Infine, le Sezioni Unite – a differenza dell’ordinanza interlocutoria del 2016, ricca di riferimenti comparatistici – evitano di menzionare le posizioni assunte in argomento da altri Paesi di civil law. Poiché è però certo che i Supremi giudici erano a conoscenza di dette posizioni , non rimane che ritenere che essi, trascurandole, abbiano deciso di sottolineare l’autonomia della nostra giurisdizione, cioè il fatto che essa non ha alcun bisogno di trovare al di fuori dei nostri confini (e, a ben vedere, nemmeno entro i confini dell’Unione europea, perlomeno in relazione a una questione, come quella in esame, in cui si trattava di applicare una disciplina squisitamente nazionale, ovverosia l’art. 64 della l. n. 218 del 1995, e la nozione di ordine pubblico in essa contenuta) argomentazioni a supporto delle proprie scelte fondamentali. Vi sono peraltro, nella sentenza italiana, molteplici riferimenti, sia pure sintetici e collocati solo in chiusura, allo stato dell’arte del diritto statunitense.

V. – Riepilogo dei diversi approcci: con riguardo ai punitive damages nordamericani

Là dove si volesse stilare una sorta di classifica del maggiore o minore favore verso l’istituto straniero, si potrebbe, a prima vista, pensare di mettere al primo posto la Cour de cassation, che apre ai punitive damages con la sola limitazione della proporzionalità, al secondo posto le Sezioni Unite, che pongono invece le tre concorrenti limitazioni della tipicità, della prevedibilità e della proporzionalità, e al terzo e ultimo posto il Bundesgerichtshof, che considera il risarcimento punitivo statunitense – sia pure solo se «di ammontare non irrilevante», tale essendo senz’altro giudicato, peraltro, già solo un risarcimento punitivo all’incirca pari alla somma di tutte le altre voci di danno – radicalmente incompatibile con l’ordine pubblico tedesco.
All’esito di un più attento esame dei contenuti delle sentenze, e delle loro conseguenze sui casi di specie di volta in volta affrontati, peraltro, tale classifica risulta da modificare, se non da ribaltare. In quest’ottica, al primo posto dovremmo infatti collocare il Bundesgerichtshof, il quale si occupa di una fattispecie concreta in cui il danneggiato straniero, nonostante la negazione di qualsivoglia risarcimento punitivo, finisce per ottenere un ristoro particolarmente elevato, in ogni caso molto più elevato di quello che avrebbe potuto ottenere là dove si fosse applicato il diritto tedesco; e dovremmo senz’altro collocare all’ultimo posto la Cour de cassation, la quale affronta un caso di specie in cui, nonostante la declamazione apparentemente di notevole apertura ai punitive damages, il danneggiato straniero non riesce a conseguire nemmeno il risarcimento puramente compensativo. La Sezioni Unite, invece, più che da collocare nella posizione intermedia sopra ipotizzata, risultano forse, per meglio dire, non classificabili, in quanto la fattispecie concreta di cui si occupano, a ben vedere, nemmeno concerne i punitive damages.

VI. – (segue) E con riguardo alle tecniche di redazione delle sentenze e di decisione giurisprudenziale

Tentiamo ora di spingere il confronto tra le citate pronunce persino oltre, aprendolo alla prospettiva assai più generale delle diverse tecniche di redazione delle sentenze e di decisione giurisprudenziale.
Dal punto di vista del rapporto tra giurisprudenza e dottrina, la sentenza più debitrice verso la letteratura giuridica è senza dubbio quella del Bundesgerichtshof, potendo essa stessa considerarsi – anche proprio per la sua tecnica di redazione –, nella sostanza, un saggio dottrinale, per di più pregevole. A questo modello si avvicina fortemente la pronuncia delle Sezioni Unite, la quale peraltro si limita a lasciare appena trasparire i suoi riferimenti culturali, che sono comunque abbastanza facilmente individuabili da parte di chi conosca la – sia pure copiosa e sempre più difficile da dominare – letteratura giuridica in argomento, mentre da esso si allontana radicalmente la sentenza della Cour de cassation, la quale – non esplicitando né lasciando intendere qualsivoglia consonanza con una o più posizioni dottrinali – integra un chiaro esempio della perdurante solidità (che altri potranno definire rigidità) di un ordinamento giuridico, quello francese, che sembra riuscire a mantenere interdipendenti ma nettamente separati – in ossequio a una precisa, rispettabilissima tradizione nazionale in tal senso – i ruoli di legislatore, giurisprudenza e dottrina .
Considerando poi il punto di vista della maggiore o minore concisione dei provvedimenti giurisprudenziali, alla brevità massima – si potrebbe pensare eccessiva, in realtà perfettamente giustificabile proprio nella prospettiva, appena accennata, di un ruolo giurisprudenziale nettamente separato da quello dottrinale, là dove solo a quest’ultimo compete di esplicitare i fondamenti teorici delle tesi affermatesi nel diritto vivente – della pronuncia della Cour de cassation si contrappongono le entrambe assai più estese sentenze del Bundesgerichtshof e delle Sezioni Unite, le quali appaino pertanto, sotto questo profilo, tendenzialmente accostabili (anche se taluni potrebbero criticamente osservare, con riguardo alla sola pronuncia italiana, come essa si dilunghi nell’affrontare, nella sostanza, un semplice obiter dictum; argomento, questo, cui si potrebbe peraltro replicare che i tempi per un revirement, sia pure solo “moderato”, erano ormai considerati maturi dai più).
La sentenza italiana, peraltro, si contraddistingue per una eleganza stilistica magistrale, contenendo essa formulazioni (si pensi, per limitarsi a un solo esempio tra i tanti, al punto sull’ordine pubblico, specialmente dove si afferma che le sentenze straniere debbono «misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale», aggiungendosi che «Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca») di una bellezza espressiva e al tempo stesso anche di una efficacia argomentativa che solo le migliori opere accademiche sanno d’ordinario raggiungere.
Infine, dal punto di vista della disponibilità, oppure non, ad argomentare anche in prospettiva comparatistica, si colloca nella posizione di maggiore apertura il Bundesgerichtshof, ma pure le Sezioni Unite, come abbiamo rammentato, esplicitano quantomeno lo stato dell’arte essenziale del diritto statunitense, mentre è netta la chiusura della Cour de cassation, la posizione della quale sul punto potrebbe, per un verso, giustificarsi semplicemente alla luce della estrema sinteticità della sua pronuncia, anche se, per altro verso, si può ipotizzare la volontà dei giudici francesi di ostentare (se non la loro superiorità, almeno) la loro più totale autonomia rispetto a qualsivoglia ordinamento giuridico straniero.

VII. – Conclusioni

La recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione sui punitive damages, pur realizzando un importante revirement della giurisprudenza italiana, può essere considerata, nel complesso, “moderata”, collocandosi essa, tutto sommato, in una sorta di posizione intermedia tra il modello francese e quello tedesco, non solo per la tesi di fondo prescelta (e per le sue probabili conseguenze applicative), ma anche dal punto di vista delle diverse tecniche di redazione delle sentenze e di decisione giurisprudenziale.
Integrando la moderazione innegabilmente una virtù, la pronuncia italiana può senz’altro essere apprezzata; anche se taluni potrebbero criticamente osservare che il modello tedesco della sentenza quale – per così dire – saggio dottrinale e il modello francese della sentenza quale – sempre per così dire – mera applicazione al caso di specie di regole decise altrove hanno entrambi (sia pure per motivi diversi, innanzi tutto storici) sicuramente senso ed efficacia per il funzionamento dei sistemi giuridici in cui si sono rispettivamente sviluppati solo se mantenuti puri, sconsigliandosi conseguentemente vie intermedie o ibride come quella italiana.
E però, anche là dove si condividesse quest’ultimo ragionamento, e si volesse pertanto auspicare una evoluzione della tecnica di redazione delle sentenze italiane più nettamente verso il modello tedesco (magari con citazioni esplicite e immediatamente verificabili della dottrina), oppure più nettamente verso il modello francese (magari con una stringente brevità che lasci solo ad altri il compito di precisare le basi teoriche), dovrebbe, a parere di chi scrive, tenersi ferma almeno la più pregevole particolarità italiana, che emerge così chiaramente proprio dalla sentenza delle Sezioni Unite qui commentata, ovverosia la straordinaria (bellezza e) ricchezza semantica della nostra lingua nazionale. Che essa sia mantenuta, anche in relazione alle controversie più spiccatamente internazionali, la sola lingua ufficiale di redazione delle sentenze italiane (salve ovviamente le deroghe già previste per il doveroso rispetto di talune autonomie locali ) potrà magari sembrare un auspicio piuttosto scontato, ma vale comunque la pena di formularlo.

 

 

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