Testo integrale con note e bibliografia

1. Il progetto di ricerca PRIN “WORKING POOR N.E.E.D.S.: NEw Equity, Decent work and Skills” è molto interessante anche dal punto di vista del rilievo della professionalità e della formazione, su cui si incentrerà questo intervento. Qualche osservazione preliminare, tuttavia, merita anche la nozione di lavoro povero che viene fatta propria dalla ricerca. La recente indagine CENSIS e i dati OCSE sulle retribuzioni ci danno indicazioni sull’impatto avuto dalla pandemia sulla povertà lavorativa, un impatto peraltro più elevato sul lavoro autonomo rispetto al lavoro subordinato . In verità il lavoro autonomo già da tempo non è più sinonimo di redditi elevati e di porta d’accesso a beni e servizi di qualità superiore: la pandemia non ha fatto che acuire un processo già in atto , specialmente in riferimento al lavoro autonomo non ordinistico , che comprende una vasta platea di soggetti. Tra l’altro, mentre per il lavoro subordinato le situazioni di crisi hanno trovato risposte tutto sommato “tradizionali” (ad esempio il ricorso alla Cassa integrazione guadagni, sia pure estesa e adattata alla situazione di emergenza), per il lavoro autonomo è stato necessario pensare a soluzioni ad hoc, come i “bonus” economici o forme di sostegno al reddito analoghe a quelle previste per il lavoro subordinato, come l’ISCRO o le indennità previste per alcune attività specifiche, come l’ALAS per il settore dello spettacolo. Sul concetto di povertà, l’utilizzo, che pure nella ricerca viene fatto, della nozione di lavoro dignitoso dell’OIL, è importante proprio perché detta nozione si rivolge tanto al lavoro subordinato quanto al lavoro autonomo . Occorre prestare particolare attenzione, tuttavia, alla considerazione di detta nozione quale limite al di sotto del quale il lavoro deve essere considerato povero, ricordando che essa va calata in un contesto parzialmente diverso, dal momento che gli indicatori cui l’OIL fa ricorso per individuare il lavoro dignitoso nella situazione italiana potrebbero essere di scarsa utilità, anche nelle ipotesi di lavoro molto povero . Lo stesso vale per l’indicatore di povertà lavorativa (IWP) adottato dall’Unione europea che, secondo la relazione del gruppo di lavoro sul contrasto alla povertà lavorativa in Italia, dovrebbe essere aggiornato e integrato per riuscire a individuare con maggiore precisione il fenomeno .
Inoltre, nella definizione di “povertà” occorrerebbe tenere in considerazione non solo il livello di reddito, che certamente è il principale indicatore di esclusione sociale , ma anche di altri elementi, come invita a fare, non da ora, Amartya Sen. Se si intende la povertà come mancato accesso alla partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese, secondo la dizione dell’art. 3 della nostra Costituzione, allora anche fattori come la salute devono essere tenuti in considerazione della definizione della povertà .

2. Spostando ora l’attenzione sul tema più specifico del mio intervento, non c’è dubbio che l’aggiornamento della professionalità del lavoratore possa essere considerato un antidoto rispetto alla povertà lavorativa, come ricordava Marina Brollo nell’intervento di apertura, nel senso che detto aggiornamento, da un lato, consente lo sviluppo della professionalità del lavoratore e, dall’altro, favorisce il passaggio da un’occupazione all’altra. Occorre tuttavia considerare, in quest’ottica, come il rischio della perdita della professionalità sia oggi, rispetto al passato, molto più elevato, in ragione della velocità dei mutamenti dell’organizzazione del lavoro. In questo contesto, i mutamenti delle modalità di svolgimento della prestazione, e dunque delle competenze richieste ai lavoratori, si producono infatti a una velocità che richiede un adattamento continuo della professionalità dei lavoratori, oltre allo sviluppo di capacità (le c.d. soft skills) diverse da quelle tecniche. Qualche anno fa Riccardo Del Punta si chiedeva cosa potesse fare il diritto del lavoro a fronte di mutamenti così profondi e in evoluzione incessante dei modi di lavorare , provando a fornire alcune risposte. Io cercherò di collocarmi nel solco di quella riflessione, provando a mia volta fornire alcuni spunti di discussione.
La questione è allora quella di come si debba articolare il diritto alla manutenzione della professionalità del lavoratore, che oggi trova riconoscimento espresso nella nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. Se, come si è detto, la professionalità non deve essere intesa semplicemente come insieme di conoscenze tecniche utili allo svolgimento di una data attività, ma deve comprendere anche le soft skills, l’aggiornamento della professionalità del lavoratore richiesto dai continui mutamenti dell’organizzazione e dei metodi di produzione dell’impresa deve necessariamente comprendere, accanto alle nozioni tecniche, lo sviluppo e il miglioramento delle capacità trasversali. Si tratta di una prospettiva che comincia a emergere nei contratti collettivi più recenti, che abbandonano i classici criteri di classificazione fondati esclusivamente sul contenuto tecnico delle mansioni per individuare fasce di inquadramento sulla base della valorizzazione di un mix di criteri, tecnici e non . Non c’è dubbio che questo processo sia stato favorito dalla modifica dell’art. 2103 c.c., che ha cancellato il criterio dell’equivalenza delle mansioni e ampliato il potere direttivo del datore di lavoro, controbilanciandolo con la previsione espressa dell’obbligo di formazione in tutte le ipotesi di mutamento delle mansioni . Su questi aspetti dovrebbe intervenire la contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, prevedendo non solo interventi di formazione mirata, ma anche misure di valorizzazione, anche in termini retributivi, delle competenze via via acquisite dal lavoratore. La formazione, peraltro, dovrebbe riguardare tutti i livelli di inquadramento, anche quelli di contenuto professionale meno elevato, tradizionalmente meno interessati da interventi formativi, in una prospettiva di sviluppo delle competenze che dovrebbe portare al miglioramento della carriera lavorativa e, consequenzialmente, all’incremento della retribuzione.

3. Un profilo di cui si discute ancora poco, in questa prospettiva, è l’apporto della professionalità del lavoratore alla stessa organizzazione del lavoro, attraverso l’interazione con le macchine. Gli studi più recenti sull’interazione uomo-macchina dimostrano come i sistemi c.d. di machine learning, che hanno ormai un ruolo centrale nelle organizzazioni produttive innovative, siano in grado di elaborare una enorme quantità di informazioni in tempi rapidissimi e di modificare, di conseguenza, i modelli organizzativi secondo criteri legati al miglioramento dell’efficienza e della produttività. In queste operazioni, tuttavia, l’intelligenza artificiale apprende dalle interazioni con l’essere umano e migliora le proprie prestazioni proprio sulla base degli impulsi e anche delle correzioni che di volta in volta l’uomo apporta alla macchina. La relazione uomo-macchina è dunque biunivoca e comporta benefici innegabili dal punto di vista della produttività, da un lato, e dal punto di vista del miglioramento dello stesso sistema di intelligenza artificiale dall’altro. In altri settori del pensiero giuridico, come il diritto civile e commerciale, si stanno studiando i possibili risvolti, in termini di valutazione economica, dei miglioramenti che il committente di un certo servizio può apportare al funzionamento del programma di elaborazione dei dati deputato alla fornitura del servizio medesimo, attraverso ciò che il programma apprende durante detta fornitura. E si chiede anche se questo miglioramento debba essere compensato economicamente al committente da parte del fornitore . Nel quadro di un contratto di lavoro, l’apporto del lavoratore al miglioramento dei processi produttivi e all’organizzazione del lavoro, attuato attraverso l’interazione con la macchina, andrebbe valutato anche dal punto di vista retributivo, per esempio nella considerazione di questi aspetti ai fini della classificazione del personale, ovvero prevedendo elementi aggiuntivi della retribuzione, da contrattare anche a livello aziendale, per i lavoratori che interagiscono con macchine intelligenti.

4. Un altro profilo particolarmente interessante della ricerca in questione riguarda la considerazione della professionalità nel e per il mercato del lavoro. La prospettiva deve essere necessariamente integrata, perché occorre ragionare in termini di anticipazione dei bisogni di professionalità dei lavoratori rispetto alle esigenze del mercato. In verità, non si tratta di una prospettiva nuova: gli studi in materia di professionalità e formazione, sia di taglio giuridico che socio-economico, hanno da sempre sostenuto che la formazione professionale dovrebbe anticipare le richieste del sistema produttivo. Il problema è che il sistema scolastico e universitario, nonché quello formativo, non è in grado di rispondere con tempestività alla richiesta di competenze tecniche adeguate all’evoluzione dell’innovazione tecnologica. Non lo era prima e non lo è ora, specie quando l’evoluzione viaggia, come si è detto, a una velocità pari solo a quella di internet. In questo quadro, occorrerebbe anzitutto una revisione dei percorsi formativi nel senso del potenziamento delle competenze tecnologiche, di quelle legate alle capacità di apprendere, ma anche delle capacità di rispondere creativamente agli stimoli dell’innovazione . Competenze come la capacità di lavorare in gruppo, di risolvere problemi nuovi, di auto-aggiornare le proprie competenze dovrebbero essere sviluppate ad ogni livello del sistema formativo, specialmente nell’ambito della formazione erogata nei luoghi di lavoro, in funzione di salvaguardia della professionalità del lavoratore non solo nell’ambito del rapporto di lavoro, ma anche per le eventuali transizioni da un lavoro all’altro .
La costruzione di un sistema del genere richiede l’impegno e anche l’interazione tra diversi attori: il sindacato, le imprese e le istituzioni di governo del mercato del lavoro. Il tutto in un quadro normativo più incentivante di quello attuale, nel quale, per dire dell’aspetto più eclatante, la regolazione tanto legale quanto contrattuale dei congedi formativi, in particolare di quelli a scelta dei lavoratori, è tutt’altro che favorevole.

5. Infine, qualche osservazione conclusiva sul lavoro autonomo, tradizionalmente escluso dall’ambito del diritto del lavoro, ma che da qualche anno comincia ad occuparne buona parte. È molto apprezzabile l’obiettivo della ricerca di studiare il ruolo della professionalità nel lavoro autonomo. Ragionare di bisogni di professionalità del lavoro autonomo significa andare al di là degli steccati tra la disciplina lavoristica e quella civilistica. Si tratta di un processo già iniziato , come si è detto supra, ma che richiede di essere portato a compimento, specie in riferimento al lavoro autonomo povero . Se si guarda alla disciplina contenuta nella l. 81 del 2017, le previsioni dedicate alla formazione del lavoratore autonomo, che consistono sostanzialmente nel riconoscimento di sgravi fiscali per le spese legate alle attività formative svolte, ci si rende conto che la prospettiva è ancora piuttosto limitata. Anche in questo caso, occorrerebbe ragionare sul lavoro autonomo povero, per il quale le esigenze di miglioramento delle competenze come strategia di uscita dalla povertà, e dunque come strumento di inclusione sociale, sono le stesse del lavoro subordinato. In questa prospettiva, un ruolo fondamentale dovrebbe essere giocato dalla contrattazione collettiva. La recente comunicazione della Commissione europea sull’applicazione della disciplina europea in materia di concorrenza alla contrattazione collettiva dei lavoratori autonomi apre, da questo punto di vista, prospettive interessanti, dal momento che sembra riconoscere la possibilità di estendere diritti tradizionalmente riconosciuti ai lavoratori subordinati anche ai lavoratori autonomi (in primo luogo il diritto alla contrattazione collettiva) .
Nel nostro ordinamento esistono esperienze contrattuali rivolte ai lavoratori autonomi. Ad esempio, nel settore dello spettacolo da tempo la contrattazione collettiva prevede forme di tutela che si applicano anche ai lavoratori autonomi, modellate su quelle riconosciute ai lavoratori subordinati. E’ opportuno ricordare che i lavoratori dello spettacolo sono stati tra i più colpiti dall’emergenza pandemica, che ha fatto emergere con nettezza la debolezza della categoria e le condizioni di scarsa protezione, anche dal punto di vista dei livelli di protezione sociale, in cui versano moltissimi artisti e tecnici del settore. Con particolare riguardo ai temi della professionalità e della formazione, che evidentemente per questi lavoratori sono aspetti fondamentali, i contratti collettivi del settore prevedono strumenti che prescindono dalla qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo . Esperienze di questo tipo andrebbero estese e consolidate, anche sulla scorta delle indicazioni provenienti dall’Unione europea.

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