TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1.- I fatti di causa secondo la Suprema Corte.
Il commento seguirà paragrafo per paragrafo, anche a rischio di qualche ripetizione, il percorso attraverso cui la Suprema Corte è pervenuta alla decisione di conferma della sentenza impugnata.
Riepilogando sinteticamente i fatti di causa la Corte riferisce che “il giudice di appello ha ritenuto esistenti i presupposti per l’applicazione … [dell’articolo 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015] in particolare la etero-organizzazione dell’attività di collaborazione anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro e il carattere continuativo della prestazione”.
È opportuno sottolineare, per quanto poi si dirà, che la congiunzione anche non è rinvenibile nella motivazione attraverso cui la Corte torinese ha ritenuto l’applicabilità di detto articolo. Non ricorre né allorché (pag. 20), ponendo la premessa della decisione, afferma che la norma “postula un concetto di etero-organizzazione in capo al committente che viene così ad avere il potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa del collaboratore e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro”. Neppure è rinvenibile nel terzo capoverso di pagina 22, ove la Corte si preoccupa esclusivamente di esporre gli elementi di svolgimento della prestazione che a suo avviso integrano appunto la etero-organizzazione dei tempi e luoghi di lavoro.
Ciò, malgrado nella motivazione della sentenza di primo grado avessero avuto rilievo altresì circostanze attinenti alle materiali modalità di esecuzione della prestazione, quali la libertà di scelta del mezzo e del percorso senza alcun monitoraggio da parte della Società.

2.- Il concetto giuridico convenzionale.
La parte iniziale delle “ragioni della decisione” (par. 7, 8 e 9) riproduce estesamente il “regolamento contrattuale della fattispecie” e “le modalità delle prestazioni litigiose” contenute nella sentenza della Corte torinese con una estensione non frequente nelle sentenze del Giudice di legittimità. Ma anche su questo aspetto tornerò più avanti.
Subito dopo la sentenza si spende in una speculazione teorica che offre la chiave di lettura metodologica dell’operazione ermeneutica condotta dalla Suprema Corte.
La sentenza muove dall’affermazione che “i concetti giuridici, in specie se direttamente promananti dalle norme, sono convenzionali”. In verità è lecito dubitare che le norme contengano concetti giuridici; piuttosto, sono dottrina e giurisprudenza a ricostruirli e attribuirli alle norme .
Comunque, dalla premessa la sentenza fa discendere la conseguenza “per cui se il Legislatore ne introduce di nuovi l’interprete non può che aggiornare le esegesi a partire da essi, sforzandosi di dare alle norme un senso, al pari di quanto l’art. 1367 cod. civ. prescrive per il contratto”.
Su ciò si può concordare purché si tenga ben presente che la comparabilità, sul piano interpretativo, del contratto e della legge quanto alla rilevanza del dato testuale è relativa. Infatti nel primo caso i criteri stabiliti dall’art. 1362 e ss. c.c. sono funzionali alla ricostruzione della comune volontà delle parti mentre nel secondo caso la volontà del legislatore storico è criterio solo sussidiario giacché l’interprete è chiamato a ricostruire la volontà legislativa oggettivata nel testo normativo.
Quindi l’aggiornamento delle esegesi deve procedere nel rispetto dei canoni imprescindibili dell’ermeneutica giuridica, quello testuale e quello sistematico, affinché sia scongiurato il rischio di una giurisprudenza degli interessi. Nel nostro ordinamento costituzionale materiale solo la Corte Costituzionale può variamente intervenire, sia pure con ragionevole self restraint, sul testo delle norme, eventualmente anche determinando modifiche dell’assetto sistematico dell’ordinamento positivo. Ciò alla stregua di un prudente apprezzamento dei necessari equilibri tra i diversi valori costituzionali collocati nel contesto di una società civile che si evolve.

3.- La “contestualizzazione” dell’art. 2, comma 1, d. lgs. 81/2015.
Posta la premessa di metodo, nei paragrafi da 18 a 24 la sentenza procede alla “contestualizzazione” della norma del 2015 per trarne la conclusione che “il legislatore, in una prospettiva anti-elusiva, ha inteso limitare le possibili conseguenze negative, prevedendo comunque l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione. Quindi, dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato tutte le volte in cui la prestazione del collaboratore abbia carattere esclusivamente personale sia svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione anche in relazione ai tempi e al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente” (par. 23).
Pure su questa conclusione si può essere d’accordo, giacché l’ultima frase è solo una parafrasi del testo dell’articolo 2, comma 1; d’accordo, beninteso, qualora si concordi che da questa parafrasi vada tratto il parametro per misurare la qualità e quantità di ingerenza funzionale dell’organizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione che la norma vuole per la produzione dell’effetto giuridico. Ciò, nella consapevolezza che qualsiasi collaborazione coordinata presuppone il proprio inserimento in una organizzazione predisposta dal committente ed accettata dal collaboratore.
Resta tuttavia indecifrabile, al di là della suggestione delle parole, l’imperativo che al successivo paragrafo 24 da detta conclusione la sentenza deduce in capo al giudice-interprete.
Scrive infatti la Corte che “il legislatore, d’un canto consapevole della complessità e varietà delle nuove forme di lavoro e della difficoltà di ricondurle ad unità tipologica, e, d’altro canto, conscio degli esiti talvolta incerti e variabili delle controversie qualificatorie ai sensi dell’articolo 2094 cod. civ., si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il Giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi”.
Premesso che, a mio avviso, più che di “indici” si tratta di elementi (della fattispecie astratta), giacché gli indici sono piuttosto funzionali (come nell’applicazione dell’art. 2094 c.c.) all’accertamento della sussistenza di tali elementi nella fattispecie concreta (peraltro la stessa Corte parla di “elementi” nella settima riga del par. 24, seppur come sinonimo di “indici”); premesso ciò, non credo di risultare iconoclasta se mi permetto di dubitare che gli “indici fattuali significativi e sufficienti” offerti dall’articolo 2, comma 1, nella vecchia versione ma anche nella nuova, siano tali da consentire esiti non “incerti e variabili” delle controversie qualificatorie proposte, se non ai sensi dell’articolo 2094 c.c., ai sensi appunto della norma contenuta in tale articolo.
Indecifrabile, dicevo, l’imperativo per l’interprete giacché nessuno può dubitare che il Giudice, il quale riscontri nella fattispecie concreta la ricorrenza degli indici fattuali previsti dalla norma, debba farne discendere la produzione degli effetti giuridici ivi previsti senza abbandonarsi ad un “diverso convincimento”; ma nessuno dovrebbe dubitare che il giudice, come nei decenni ha fatto per gli elementi offerti dall’articolo 2094, debba specificare quali siano gli indici di una etero-organizzazione, che, pur non comportando la riconduzione della fattispecie concreta all’art. 2094 c.c., sia comunque tale da “rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente”, come la sentenza opportunamente sottolinea nel successivo par. 26.

4.- La “norma di disciplina” e il nuovo testo dell’art. 2, comma 1.
La via d’uscita non penso francamente che possa essere, pure per un interprete naufrago “in una terra di mezzo dai confini labili” (per usare sempre le parole della sentenza), prendere atto che la norma da applicare è stata disegnata dal legislatore come “una norma di disciplina”; il che può spiegarsi “in una ottica sia di prevenzione sia <rimediale>” .
Confesso che sono rimasto non poco sorpreso nel trovare teorizzata (non più in qualche sparuto precedente dottrinale ma) in una sentenza della Corte di Cassazione questa tipologia di norma giacché ritengo l’idea stessa di una norma di mera disciplina un nonsense. Non riesco infatti ad immaginare una norma che contenga una disciplina destinata ad applicarsi ex se, ovvero per virtù propria. Del resto, la stessa sentenza a più riprese riconosce che la disciplina del lavoro subordinato si applica solo quando ricorrono determinati “indici fattuali”, quindi non ex se, e comunque controlla poi (anche nel merito, non solo nella coerenza logica dell’argomentazione, come vedremo), l’utilizzo che la Corte torinese di tali “indici” ha fatto in relazione alla fattispecie litigiosa.
Nel paragrafo 26 la sentenza invoca a conforto le modifiche recate all’articolo 2, comma 1, dal decreto crisi come modificato dalla legge di conversione, specie laddove, “quanto all’elemento della <etero-organizzazione>, eliminando le parole <anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro>”, mostrerebbe “chiaramente l’intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione” .
Tuttavia, come già ho avuto modo di sottolineare, le modifiche recate all’articolo 2, comma 1, se considerate senza pregiudizi, non offrono alcun apprezzabile contributo ulteriore all’individuazione della nuova fattispecie .
In particolare, per un verso è ovvia l’irrilevanza, ai fini della qualificazione, dell’uso di piattaforme digitali essendo rilevante non il mezzo ma il contenuto del potere esercitato dal committente; per altro verso l’eliminazione della frase “anche con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro”, nel sopprimere la necessità di tali requisiti solo amplia la “responsabilità” dell’interprete nell’individuazione degli indici (tra cui certo rientrano i profili spazio/temporali) idonei ad esprimere, nel caso concreto, l’etero-organizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione
Quel che però va soprattutto sottolineato è che la sentenza fa uso delle modifiche recate all’art. 2, comma 1, decontestualizzandole dal sistema costituito, oltre che da esse, dall’inserimento contestuale nel capo V del D.Lgs. n. 81/2015 di un capo V-bis intitolato alla “tutela del lavoro tramite piattaforme digitali” e contenente un articolo 47-bis che detta per tale lavoro una specifica disciplina.
Orbene, il capo V-bis stabilisce una disciplina speciale ed autonoma per i lavoratori cui non è applicabile l’articolo 2, comma 1 (“fatto salvo quanto previsto dall’articolo 2, comma 1”) che vengono definiti dall’articolo 47-bis come “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui …. attraverso piattaforme anche digitali”. Il comma 2 aggiunge che “si considerano piattaforme digitali i programmi e le procedure informatiche utilizzate dal committente che indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”.
Si tratta dunque di una collaborazione all’interno di una programmazione di servizi stabilita dal committente, il quale comunica al collaboratore attraverso una piattaforma digitale gli ordini di presa e consegna di beni con ovvia indicazione dei luoghi dell’una e dell’altra. Ciò, sicuramente per i riders, non integra di per sé gli elementi richiesti dall’articolo 2, comma 1, posto tra l’altro che diversamente la disciplina complessa contenuta nel capo V-bis non troverebbe mai una fattispecie concreta di riferimento cui applicarsi.
Tuttavia il canone sistematico richiede che, in generale, il nuovo testo dell’art. 2, comma 1 sia interpretato in combinazione con l’art. 47-bis, commi 1 e 2. Intendo dire che il canone sistematico, imponendo una interpretazione coerente di norme contenute in un medesimo provvedimento legislativo (qui i commi 1 e 2 dell’art. 1 del d.l. 101/2019), preclude di ritenere che l’etero-organizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione richieste dall’art. 2, comma 1, possa consistere nella mera utilizzazione di piattaforme digitali per impartire al collaboratore indicazioni sul luogo e sui tempi di esecuzione del servizio .

5.- Merito e legittimità.
La Corte specifica le “ragioni della decisione” con riguardo alla concreta fattispecie litigiosa in due gruppi di paragrafi (da 32 a 36 e da 51 a 55) in dipendenza delle diverse censure mosse alla sentenza impugnata dal ricorso.
Prima di considerare tali ragioni, pur non potendo affrontare ex professo l’annosa, ma irrisolta, se non con astratte formulazioni, questione del discrimine tra merito e legittimità nei giudizi dinnanzi alla Corte di cassazione, sento di dover esprimere ancora, affidandomi a qualche rinvio , l’opinione che nei giudizi in cui si verte sulla sussunzione di fattispecie concrete in fattispecie astratte poste da norme di qualificazione (come la nostra) o contenenti clausole generali (come quella di giusta causa) ma anche indicative dei criteri per l’interpretazione dei contratti, il discrimine tra merito e legittimità è tanto esiguo da risultare talora evanescente, come quello che separa genialità e follia.
L’esperienza ci dice che il limite fino al quale la Suprema Corte porta il suo controllo sulla correttezza del procedimento sussuntivo nelle norme anzidette inevitabilmente molto dipende dalla condivisione o meno del risultato, ma anche dall’entità del dissenso rispetto ad esso; un limite su cui non può non incidere l’immanenza in tutte tali norme del principio generale di ragionevolezza che informa il nostro ordinamento costituzionale e cui deve conformarsi l’operazione ermeneutica della sussunzione.
Certo, non sorprende che anche in questa sentenza la Corte (par. 42 su cui tornerò) senta il bisogno di ribadire, con riguardo alla sussunzione nell’art. 2094 c.c., che, essendo notorio “quanto le controversie qualificatorie siano influenzate in modo decisivo …. [da una molteplicità di fattori]” si abbiano in sede di merito “esiti talvolta difformi anche rispetto a prestazioni lavorative tipologicamente assimilabili, senza che su tali accertamenti di fatto possa estendersi il sindacato di legittimità”. Non può sorprendere perché si tratta di affermazione antica e solidificata, tanto che in occasione del convegno in cui ho svolto l’intervento menzionato nella nota 9 fui severamente redarguito dell’allora Primo Presidente della Corte di Cassazione Franco Bile.
Poiché però dalla mia cinquantennale osservazione attenta delle operazioni giurisprudenziali risulta la tenuità del confine fra controllo della coerenza logica dell’argomentazione con cui il giudice del merito utilizza “gli indici sintomatici” e controllo della correttezza, ai fini della sussunzione, dell’utilizzo degli indici stessi, fermo restando, ovviamente, l’accertamento in fatto operato da quel giudice, continuo a perseverare nella mia opinione. Posso anzi anticipare che la sentenza in commento me la conferma.

6.- Sulla congiunzione “anche”.
Già nel primo gruppo di paragrafi in cui la Corte espone le “ragioni della decisione” con riferimento alle fattispecie litigiose non è facile distinguere gli argomenti che attengono alla coerenza logica della motivazione della sentenza d’appello da quelli che esprimono un diretto apprezzamento della valutazione di merito operata dalla Corte torinese.
La Suprema Corte scrive che l’art. 2, comma 1, deve ritenersi applicabile alle fattispecie litigiose giacché il “regime di autonomia” che caratterizza i lavoratori ricorrenti, pur “integro nella fase genetica dell’accordo (per la rilevata facoltà del lavoratore ad obbligarsi o meno alla prestazione)”, non lo è tuttavia “nella fase funzionale, di esecuzione del rapporto, relativamente alle modalità di prestazione, determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smartphone” (par. 33); ciò (par. 36) “anche quando il committente si limiti a determinare unilateralmente il quando e il dove della prestazione personale e continuativa”.
Per avallare tale restrizione degli “indici fattuali” indicati dalla norma la Corte deve svalutare, nel testo normativo, la congiunzione “anche” affermando che, all’interno di tale testo, “il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro esprime solo una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, con la parola <anche> che assume valore esemplificativo” e chiama ancora a conforto l’eliminazione della parola ad opera del decreto dignità.
Senonché simile accezione della congiunzione “anche” è sconosciuta alla grammatica e sintassi italiane. Senza dire che se si trattasse solo di esempi non si potrebbe comunque considerarli esaustivi.
Va aggiunto che il leit motiv della sentenza, circa la distinzione tra la fase genetica del rapporto, in cui il collaboratore esplica la sua autonomia, e la successiva fase in cui si consuma una “ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione”, mal si concilia con l’altro leit motiv (solo in apparenza coincidente) che fa leva sulla estraneità di una collaborazione funzionale con l’organizzazione unilateralmente disposta (dal committente) rispetto “ad un coordinamento stabilito di comune accordo dalle parti”.
Premesso infatti che le “modalità di coordinamento” della collaborazione (art. 409, n. 3, c.p.c.) e le “modalità di esecuzione della prestazione” (art. 2, comma 1) non esprimono affatto, in una corretta ermeneutica, concetti identificabili o sovrapponibili, riconoscere che il rapporto ha una fase genetica in cui il collaboratore esercita la sua autonomia impone di riconoscere che egli esprime il suo consenso circa gli obblighi comportati dal coordinamento (con esclusione di quelli implicanti il dovere di collaborare quando e per quanto tempo chiederà il committente) essendo poi ovvio (direi in rerum natura) che qualsiasi collaborazione coordinata venga eseguita nel contesto di una organizzazione del servizio predisposta dal committente e senza la quale è inconcepibile la collaborazione stessa.
Non ignoro l’enfatizzazione ricorrente del “comune accordo”, con sovrapposizione peraltro degli anzidetti concetti non identificabili. Ma giova al riguardo rammentare che è principio generale nel nostro ordinamento positivo quello per cui, salve espresse eccezioni, tale accordo può concludersi tramite l’accettazione di una proposta negoziale addirittura per fatti concludenti.

7.- Ancora sulla distinzione tra “fase genetica” e “fase funzionale di esecuzione del rapporto”.
Il secondo gruppo di paragrafi (da 51 a 55) in cui sono esposte le “ragioni della decisione” relativamente alle concrete fattispecie di causa è dedicato ad argomentare nel dettaglio la riferibilità e decisiva rilevanza, ai fini decisori di tali fattispecie, della distinzione tra le due fasi del rapporto già evocata nel primo gruppo di paragrafi (da 32 a 36).
Qui l’incursione della Suprema Corte nel merito della vicenda contenziosa, ad esprimere la condivisione su quel terreno della soluzione adottata dalla Corte torinese, è singolare giacché giunge a riscrivere la motivazione della sentenza impugnata al fine di meglio argomentare la ricorrenza, nei casi concreti, della etero-organizzazione della “fase funzionale di esecuzione del rapporto”. In luogo infatti di controllare la coerenza logica e congruità dei dati fattuali enunciati a tal fine dalla sentenza d’appello nelle sei righe di pag. 22 in cui è condensata l’argomentazione della etero-organizzazione spazio/temporale, la Suprema Corte, a conforto della soluzione adottata, scrive estesamente e specificamente i dati fattuali da considerarsi decisivi traendoli dalla descrittiva posta dalla sentenza appellata, sulle orme della sentenza di primo grado, nell’esordio della motivazione.

8.- Sul tertium genus e la selezionabilità della disciplina applicabile.
Tra i due gruppi di paragrafi da ultimo considerati la sentenza, nei paragrafi da 38 a 43 (del par. 42 mi sono già occupato da altra angolazione), svolge una serie di considerazioni che, in assenza di ricorso incidentale sia in punto di subordinazione sia in punto di selezione della disciplina applicabile, appaiono ultronee rispetto alla questione litigiosa.
Anzitutto la Corte, riproponendo la sua teoria “di una norma di disciplina che non crea una nuova fattispecie”, torna a criticare la Corte torinese per avere ricondotto le fattispecie concrete ad un tertium genus [tra lavoro subordinato e lavoro coordinato senza subordinazione] “con la conseguente esigenza di selezionare la disciplina applicabile”.
In verità non è dato cogliere il fondamento di detta consequenzialità a fronte di una norma che per quel genus prevede l’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato; integrale, ovviamente, nelle specifiche vicende contenziose, nei limiti di compatibilità di tale disciplina con le caratteristiche dei rapporti concreti, come del resto sottolinea, nel par. 41, la stessa Suprema Corte. Ma questa è questione diversa.
Come è ovviamente questione diversa, pur se la sentenza al riguardo si diffonde in due lunghi paragrafi, quella che ruota attorno al potere-dovere del giudice di applicare in via diretta la disciplina del lavoro subordinato ai rapporti che, per il loro contenuto, risultino riconducibili alla fattispecie dell’art. 2094. Nessuno del resto potrebbe plausibilmente dubitare che “la norma in scrutinio non vuole, e non potrebbe neanche, introdurre alcuna limitazione rispetto al potere del giudice di qualificare la fattispecie riguardo all’effettivo tipo contrattuale che emerge dalla concreta attuazione della relazione negoziale”.
Peraltro mi parrebbe azzardato leggere in questi due paragrafi una sorta di rimpianto per l’assenza di ricorso incidentale in tema di subordinazione. Se non altro perché la Corte ribadisce la necessaria fedeltà del giudice, nei giudizi di sussunzione ex art. 2094 c.c., ai “criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia” .

9.- La correzione della motivazione della sentenza impugnata.
Nel par. 56 la Corte, recuperando (dai par. 38-40) la critica dell’”opinione della Corte territoriale quanto alla riconduzione dell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81 del 2015, a un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, e alla necessità di selezionare le norme sulla subordinazione da applicare”, aggiunge che la “motivazione deve intendersi corretta in conformità alla presente decisione, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., come richiesto dall’Ufficio del Procuratore Generale”.
Perché, vien da chiedersi, l’esigenza di questa formale correzione?
Quanto al profilo della selettività della disciplina applicabile può forse dubitarsi della sua stessa ritualità, in mancanza di ricorso incidentale, e comunque della sua pertinenza. Lecito pensare allora, specie avendo presente il percorso lungo il quale questa decisione è maturata, che la Corte abbia inteso inserire formalmente in sentenza un messaggio nella prospettiva di una sua proiezione nomofilattica.
Quanto al profilo del tertium genus, trattandosi in definitiva di una innocua esercitazione accademica, la risposta si può avere dal par. 59, ove la Corte dichiara priva della stessa “ragione di essere” la questione di costituzionalità per eccesso di delega della norma applicata giacché, una volta escluso che essa crei una nuova fattispecie ed un tertium genus, “non può parlarsi di eccesso di delega, ben potendo inquadrarsi la norma in discorso nel complessivo riordino e riassetto normativo delle tipologie contrattuali esistenti voluto dal legislatore delegante”.
Non intendo qui rispondere ex professo all’interrogativo se la legge delega, pur nella ampiezza della revisione postulata, precluda al legislatore delegato di creare una nuova fattispecie di lavoro non (ma quasi) subordinato . Sono però convinto che se la risposta fosse affermativa non varrebbe ad esorcizzare la questione dell’eccesso di delega il ricorso alla categoria della norma di disciplina a fronte di una norma che correla un determinato effetto giuridico al ricorrere di determinati elementi (o “indici”) da essa stessa individuati.

10.- La sentenza e la questione delle tutele.
Avviandomi alla conclusione, mi pare di poter osservare che la Corte è andata man mano smarrendo la via indicata dalla bussola di cui pure all’esordio si era dotata: il legislatore ha “stabilito che quando l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato” (così nel già menzionato par. 26, secondo periodo).
La preoccupazione della comparabilità, giustamente postulata a fronte di una piena omologazione delle tutele, si è andata via via affievolendo fino a dar l’impressione che si possa risolvere nella indicazione, tramite piattaforma, degli indirizzi di una presa e consegna e nel dovere di informare la piattaforma stessa del compimento del servizio. Ma forse è solo un’impressione.
Preoccupa tuttavia che un giurista di antico mestiere abbia, pur “a caldo” e in una delle tante voci del web, visto in questa sentenza la recezione ed estensione retroattiva del d.l. 101/2019, “a norma del quale l’elemento della <etero-organizzazione> si deve sempre considerare sussistente quando la prestazione lavorativa <è organizzata mediante piattaforme digitali>” .
Preoccupa seppur se si tratta di una lettura “buttata lì”, a caldo e senza adeguata meditazione, come sempre più spesso accade, ma non dovrebbe accadere, in interventi (e non) sulla stampa e sul web.
Certo, dalla complessiva motivazione della sentenza traspare il proposito della Corte di offrire una soluzione suscettibile di proiezione nomofilattica, tale da assicurare tutele a lavoratori che ne sono sprovvisti in un contesto di certezza del diritto. Ma per un verso la molteplicità e varietà di algoritmi utilizzati da piattaforme digitali in continua evoluzione nell’area estesa della c.d. gig economy, ed anche in quella più ristretta dei riders, e per altro verso l’intreccio complicato degli interessi in gioco, anche di quelli dei lavoratori, rendono assai dubbia la conseguibilità dell’obiettivo.
Resta che la Suprema Corte ha giudicato comparabili, e quindi omologabili, quanto a tutele, lavoratori liberi di decidere se, quando e quanto (e in parte anche come) lavorare, i quali per esperienza prestano la loro attività per un numero di giorni ed ore ampiamente diversificato, e lavoratori che devono lavorare tutti i giorni feriali entro un orario predeterminato nella durata e nella dislocazione.
Rimango convinto che sia irragionevole, anche nella prospettiva indicata dalla sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale, l’integrale estensione delle tutele del lavoratore subordinato a chi non ha comparabili doveri (e per lo più né vorrebbe né potrebbe assumerli).
Beninteso, rimango altrettanto convinto che una questione delicata di tutele si ponga. Non è però compito del giudice di affrontarla e risolverla, bensì del legislatore. Il quale, per i riders, ha imboccato questa strada dettando una disciplina ad hoc di cui ovviamente non posso occuparmi in questa sede.
Può tuttavia dubitarsi della scelta legislativa di erigere i riders non subordinati ad autonoma fattispecie corredata di specifica disciplina . Sarebbe stato preferibile che il legislatore prendesse definitivamente atto che a) tra lavoro subordinato ed autonomo è ineliminabile una frastagliata area di lavoro non omologabile al primo né quanto ad assetto di interessi né quanto a disciplina; b) questo lavoro è riconducibile, senza moltiplicazione di categorie , alla fattispecie dell’art. 409, n. 3, c.c., con opportuna integrazione estensiva della norma e con un rafforzamento mirato delle tutele che già la corredano; c) l’abuso del ricorso alle collaborazioni continuative e coordinate senza subordinazione è sempre stato contrastato in modo largamente soddisfacente dalla giurisprudenza senza che fossero necessari improvvidi interventi come quelli sul lavoro a progetto e quelli dell’art. 2, comma 1, nuovo e vecchio testo.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.