Testo integrale con note e bibliografia
1. La recente sentenza della Suprema Corte n. 1663/2020, di cui si dà per ampiamente conosciuta la motivazione, interviene d’autorità sull’ampio dibattito relativo alle collaborazioni organizzate dal committente, di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, che ha appassionato la dottrina giuridica per l’implicita idoneità a ridefinire gli equilibri giuridici e istituzionali del lavoro prestato a favore di terzi e al contempo a ridisegnare l’area di incidenza della disciplina proiettandola verso nuove prospettive evolutive.
La sentenza è stata sottoposta a critiche anche molto vivaci da un settore della dottrina,ora per l’impiego di formule considerate non del tutto ortodosse, ora per le scelte concettuali e di metodo a cui si ispira. Le critiche non appaiono condivisibili e sono determinate da visioni alternative a quella prescelta che, a nostro avviso, rimane la più aderente al dettato normativo, pur nelle sue ambiguità e imprecisioni. Piuttosto v’è da rilevare una certa ritrosia della Corte ad esplicitare le implicazioni insite nelle premesse enunciate per una sorta di self restraint dovuto probabilmente al timore di sbilanciarsi eccessivamente in una riflessione di stampo prettamente dottrinale.
2. La sentenza individua nell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, una “norma di disciplina che non crea una nuova fattispecie”, e cioè una norma che regola l’estensione di alcune disposizioni normative da un settore disciplinare ad un altro limitrofo, nel caso specifico applicando la disciplina del lavoro dipendente ad una eterogenea fascia di rapporti correntemente inquadrati nelle collaborazioni autonome i quali, ciò nondimeno, sono accomunati da alcuni elementi strutturali e indiziari congeniali alla classica subordinazione tecnico-funzionale al punto da indurre ad uniformare il regime protettivo.
L’espressione (“norma di disciplina”) è pertinente e correttamente allusiva di un processo regolativo in fieri affidato ad una tecnica ampiamente collaudata nella legislazione del lavoro di estendere alcune norme protettive, o addirittura interi comparti normativi, da un settore ad un altro, come avviene diffusamente, oltreché nelle esemplificazioni evocate in sentenza, nella trama del Libro V del codice civile (si pensi in termini generali all’art. 2239 c.c. secondo cui “i rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di un’impresa sono regolati dalle disposizioni delle sezioni 2, 3 e 4 del capo I, Tit. II, in quanto compatibili con la specialità del rapporto”, ma si veda pure quanto dispone l’art. 2129 c.c., a proposito del contratto dei dipendenti da enti pubblici, l’art. 2134 c.c. con riferimento al tirocinio, l’art. 2238 c.c. a proposito delle professioni intellettuali). La stessa tecnica è stata sostanzialmente adoperata a seguito della contrattualizzazione del lavoro pubblico allorquando si è prescritto che i rapporti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche “sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, Tit. II, del libro V del codice civile e dalle leggi speciali sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa” (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165).
In questi termini la qualificazione adottata, che non va letta con piglio professorale, vuole alludere alla circostanza che la norma in questione, da una parte risponde ad una logica di normalizzazione/legalizzazione dei rapporti in questione, portando a compimento un lungo processo evolutivo di delimitazione delle collaborazioni coordinate e continuative,da un’altra parte si proietta a recepire i mutamenti che si registrano nella realtà sociale per effetto di nuove forme di produzione e di inusitate modalità di organizzazione del lavoro.
La finalità antielusiva (e non sanzionatoria), che è dominante nella determinazione degli effetti giuridici, va correttamente intesa nel senso che il legislatore prende atto che determinate modalità organizzative delle prestazioni lavorative non differiscono granché sul piano sostanziale da quelle tipiche del lavoro dipendente, sicché coerentemente viene estesa la relativa disciplina protettiva esonerando da ogni accertamento giudiziario che si prospetta a quel punto ultroneo. Com’è evidente, la norma travalica la tecnica tradizionale della nullità dei rapporti vietati con conseguente inquadramento nell’ambito della subordinazione (come nel caso dell’art. 69, d.lgs. n. 276/03), puntando diritto all’obiettivo in termini generali e astratti e prescindendo da mediazioni giudiziarie.
In questa chiave di lettura la qualificazione della norma come norma di disciplina può essere contestata soltanto se si parte dal presupposto, insistentemente perorato da una qualificata dottrina (A. Perulli), che la riforma avrebbe configurato una nuova fattispecie o tipo legale costruito su requisiti ben distinti da quelli che configurano il rapporto di lavoro dipendente. Ma quel presupposto non è affatto convincente sulla base di una corretta lettura del dettato normativo, che descrive piuttosto una pseudo collaborazione autonoma adulterata dal ruolo organizzativo del committente quanto mai intrusivo al punto da investire i tempi e il luogo di lavoro.
La funzione antielusiva o di legalizzazione si correla intimamente alla istanza di estendere, sia pure surrettiziamente, l’area della subordinazione per inglobarvi rapporti limitrofi o comunque assimilabili alle varie forme di subordinazione, specie se di nuova emersione, che rischiavano di orbitare nell’area confusa dell’autonomia.
La perdita di centralità della fattispecie regolata dall’art. 2094 c.c. e l’esigenza di una dilatazione della categoria per comprendere nuove modalità di lavoro erano da tempo avvertite ed in parte riflesse in molti interventi normativi che si sono registrati negli ultimi anni, sia sul versante del lavoro subordinato (e basterebbe pensare da ultimo al lavoro agile), sia sul versante del lavoro autonomo (e valga richiamare lo Statuto del lavoro autonomo introdotto dalla legge n. 81/2017). La norma fa un salto di qualità in questa direzione cercando di risolvere con un solo colpo gli elementi di ambiguità e di anomia che si erano agglutinati attorno alle collaborazioni coordinate.
3. La formula evocativa adoperata è pienamente pertinente anche rispetto alla finalità protettiva perseguita dal legislatore, tanto più ove si considerino due circostanze decisive, opportunamente richiamate dalla Suprema Corte, che hanno un alto valore ricostruttivo: da una partela norma si collega intimamente a quanto stabilito dall’art. 52 dello stesso decreto sul superamento del contratto a progetto di cui agli artt. 61/69-bis del d.lgs. n. 276/2003 - fattispecie che ha inquinato per anni l’intera elaborazione in materia di collaborazioni autonome - da un’altra parte si raccorda all’art. 54 sulla stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi, e in particolare alla sanatoria, più o meno mascherata, regolamentata dal comma 2 dello stesso articolo.
Con riferimento al primo profilo, è evidente che nel momento in cui si elimina la fattispecie del lavoro a progetto, che sopravvalutava il modello del contratto d’opera in una relazione continuativa rispondente a ben altre finalità, non era possibile lasciare invariata la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., giacché ciò avrebbe significato consentire un’ampia operazione di evasione dai vincoli del lavoro subordinato, del tutto a buon mercato, come una lunga esperienza insegna.
Con riferimento al secondo profilo,la norma riflette la consapevolezza che la maggior parte delle collaborazioni coordinate e continuative è concepita con finalità opportunistiche di contenimento dei costi fissi di produzione ed incremento della flessibilità della manodopera, a tal fine simulando rapporti autonomi alquanto in veritieri in quanto prestati in situazioni sostanziali in cui lo stato di subalternità socio-economico e contrattuale è a volte più accentuato di quello riscontrabile nel lavoro prestato nello stereotipo dell’opificio industriale. In questa direzione la norma colpisce le false o pseudo collaborazioni autonome, i falsi o pseudo “committenti” e i falsi o pseudo poteri “etero-organizzativi”, che altro non sono che un mascheramento dei poteri dirigenziali ordinariamente esercitati dal datore di lavoro.
Che poi in questa operazione di legalizzazione vengano coinvolti anche rapporti di lavoro autonomo correttamente strutturati, ma che vanno comunque a collocarsi in una linea di frontiera tra le due tradizionali categorie di impiego, è un dato del tutto coerente con la tecnica regolativa adoperata e con la ratio di ispirazione della stessa, che semmai disvela la naturale propensione di alcuni rapporti autonomi a modellarsi progressivamente su quelli di tipo subordinato.
In questo senso è corretto ritenere che la norma rappresenti un punto di approdo di una elaborazione giurisprudenziale e dottrinale molto risalente, che ha messo a nudo gli elementi di inconsistenza e farraginosità che si erano accumulati negli anni nel vano tentativo di configurare autentiche collaborazioni coordinate e continuative,anche ricorrendo a tecniche presuntive o sanzionatorie alquanto incisive, che tuttavia si sono rivelate nell’impatto sociale del tutto inefficaci.
D’altra parte, è superfluo dirlo, nella formulazione di tali “letture” della norma incide in maniera decisiva il modo in cui ciascuno di noi ha interpretato e introiettato la fattispecie di cui all’art. 2094 c.c. L’attenzione della giurisprudenza e della dottrina si è focalizzata sull’esercizio dei poteri imprenditoriali come descritti dalla disciplina codicistica, per la semplificazione ricostruttiva che consente, ma è questa una opinione che rimane fortemente controversa,decisamente contrastata da settori importanti della dottrina, sia da quella che valorizza nella formula dell’art. 2094 c.c. il requisito della dipendenza “a discapito della direzione”, considerato un mero effetto dell’obbligo di lavorare in posizione subordinata, sia da quelle attestate su una lettura pluralistica e relativistica della subordinazione che individuano nella formula codicistica una delle tante declinazioni del lavoro dipendente da cui estrapolare un nucleo essenziale di valenza generale.
Peraltro l’elaborazione dottrinale dell’ultimo ventennio ha più volte evidenziato la necessità di una lettura evoluzionistica della formula originaria da aggiornare alla luce dei processi di trasformazione del sistema produttivo e delle conseguenti evoluzioni della legislazione del lavoro . L’introduzione di nuove tecnologie, specie informatiche, la diffusione del terziario avanzato, diversi modelli di organizzazione di un’economia sempre più volatile e “liquida”, la mobilità dei capitali a fronte della staticità dell’offerta di lavoro, nozioni semplificate di subordinazione rilevabili nel panorama internazionale e nell’ordinamento europeo, l’influenza di regole mutuate dai Trattati internazionali, sono soltanto alcuni dei numerosi fattori che, intrecciandosi con una legislazione del lavoro all’insegna dell’articolazione tipologica, fanno emergere molteplici prototipi sociali di lavoro dipendente che si allontanano sempre più dal modello originario, talché “si deve necessariamente mettere in conto che la subordinazione può atteggiarsi in modo diverso a seconda dei diversi contesti” (L. Nogler, 2015).
4. In una sommaria ricostruzione delle teorie venutesi a delineare nell’interpretazione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. cit., la Corte individua quattro principali alternative, per poi mostrare di aderire allo “approccio rimediale”,“che rinviene in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati “deboli”), cui estendere le tutele dei lavori subordinati”. Tuttavia - se è consentita una interpolazione - la prima ipotesi (“di riconoscere alle prestazioni rese dai lavorati delle piattaforme digitali i trattamenti della subordinazione, sia pure ammodernata ed evoluta”) e l’ultima non sono affatto incompatibili o alternative ma anzi possono utilmente integrarsi in una complessiva ricostruzione.
Per contro la tesi prescelta dalla Corte sottende un chiaro rifiuto della teoria del tertium genius (che era stata invece condivisa dalla Corte d’Appello di Torino), il quale si sarebbe venuto a configurare scorporando una parte dei rapporti compresi nell’area dei lavori personali e continuativi. Una tale ricostruzione, che ha particolarmente impegnato una parte della dottrina, non trova conferma né sul piano esegetico, né in relazione agli sviluppi evolutivi della materia. Come altrove diffusamente argomentato, la norma è evocativa di una forma di impiego del lavoro a favore di terzi frequentemente collocata nell’area dell’autonomia, ma che sul piano sostanziale si contraddistingue per forti elementi indiziari di lavoro dipendente, come tali destinati a prevalere nella determinazione del regime giuridico applicabile.
In questa chiave di lettura non è del tutto giustificata l’insistenza con la quale si ritiene che la disciplina estesa alle collaborazioni coordinate e continuative debba necessariamente implicare la configurazione di una fattispecie giuridica di riferimento. Nel caso di specie la fattispecie di riferimento è la stessa che è sottesa alla disciplina di regolazione del rapporto di lavoro subordinato nella sua complessa e travagliata evoluzione. Fattispecie di riferimento, o macro categoria concettuale, che semmai subisce una torsione o una dilatazione, che si desume “all’inverso” dal regime giuridico ad essa applicabile.
La predetta fattispecie viene colta nell’ottica del rapporto (e non del contratto) e dei suoi indici di connotazione, con riflessi immediati sulla sua configurazione,che viene implicitamente aggiornata ed integrata con riferimento a quegli elementi desumibili dall’art. 2, comma 2, segnatamente nella direzione di interpretare il potere direttivo che contraddistingue il datore di lavoro in maniera più elastica,per così dire eclettica, al fine di comprendere situazioni in cui si presenta con tratti meno gerarchici e intrusivi ovvero quando viene filtrato attraverso l’impiego di tecnologie informatiche.
È difficile comprendere perché mai una valutazione qualificatoria che viene effettuata correntemente dalla magistratura in presenza di una casistica analoga non potrebbe essere effettuata dal legislatore in termini generali e astratti, tanto più se riflette principi consolidati sulla prevalenza del momento effettuale o funzionale del rapporto di lavoro a scapito di quello genetico, tradizionalmente irrilevante, ovvero sulla inderogabilità dello stato di subordinazione quale vincolo alla stessa discrezionalità legislativa.
In questa chiave di lettura la norma riflette tuttora la polarizzazione tradizionale dei rapporti di collaborazione all’impresa nelle due ampie categorie del lavoro subordinato e del lavoro autonomo, ed anzi in un certo senso tale bipartizione viene espressa in maniera più netta e categorica (senza ambiguità intermedie).Diversamente da quanto da altri opinato, non viene affatto superata la netta distinzione tra la posizione di chi si rivolge ad un terzo per poter lavorare non disponendo dei mezzi di produzione e quindi accettando una subalternità tecnico-funzionale che investe i valori fondamentali della persona, e la posizione di chi è in grado di intraprendere, in piena autonomia, un’attività lavorativa disponendo dei mezzi necessari ed essendo in grado di sopportare i rischi del mercato e persino quelli di impresa (L. Mengoni, 2000). Che poi anche in questo settore possano affiorare problemi degenerativi, quando, ad esempio, il lavoro autonomo “dipende” da uno o pochi committenti in posizione dominante, significa solo che si registra una condizione evocativa di uno stato di debolezza e di subalternità sociale di cui il prototipo più prossimo è il lavoro dipendente, ma ciò non ne determina l’assimilabilità giuridica con il lavoro dipendente. La predetta distinzione non può essere eliminata in quanto incorporata nel testo costituzionale alla stregua del quale il lavoro subordinato rappresenta una categoria fondativa dell’assetto istituzionale (L. Mengoni,1960)
5. Senza volersi impelagare in una riflessione quanto mai impegnativa, sia consentito mettere in discussione la premessa, e al tempo stesso i corollari, su cui si fonda la teoria del tertium genius allorquando, nella lettura della norma, differenzia nettamente la “etero-direzione” dalla “etero-organizzazione” per costruire, su tale presupposto, due categorie giuridiche autonome e differenziate.
La norma in esame parla genericamente di “modalità di esecuzione delle prestazioni organizzate dal committente”per alludere all’esercizio di un potere affine se non coincidente con quello esercitato dal datore di lavoro ed evocato nell’art. 2094 c.c., che tradizionalmente incide anche sulle condizioni temporali ed ambientali della prestazione. Da questo generico riferimento, di valore esclusivamente descrittivo, non è dato inferire la istituzione di una fattispecie autonoma contraddistinta dal requisito dell’etero-organizzazione in alternativa alla direzione del datore di lavoro, non fosse altro per l’ambiguità e imponderabilità della linea distintiva delle due manifestazioni di potere imprenditoriale (nonostante i distinguo teorici e gli sforzi ricostruttivi dell’importante dottrina più volte richiamata: A. Perulli, 2018, 2020), e, ancor più, per gli effetti ampi e generalizzati che se ne fanno derivare in termini di applicazione dell’intera disciplina lavoristica.
Il potere organizzativo costituisce un tratto tipico della funzione imprenditoriale (artt. 2083 e 2555 c.c.), che ingloba il potere direttivo nel senso che il ruolo imprenditoriale presenta una peculiare conformazione allorquando è diretto ad assemblare il fattore lavoro tra i vari fattori della produzione e a gestire le prestazioni lavorative secondo una logica seriale e transazionale. In questo senso l’etero-organizzazione rappresenta una formula di sintesi per indicare “il riversarsi sulla vicenda obbligatoria di lavoro della funzione di organizzazione della struttura aziendale, tipica del ruolo imprenditoriale” (L. Spagnuolo Vigorita). Non a caso potere organizzativo e potere direttivo sono termini adoperati sovente in maniera promiscua a volte interscambiabile (v. art. 29, d.lgs. n. 276/03 in materia di appalto).Ciò che rileva è l’unilateralità del potere e la sua legittimazione nell’ambito del contratto di lavoro quale movente determinante dello statuto protettivo del lavoro dipendente.
Strutturalmente diverso è invece il potere di coordinamento di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., che, pur riconducibile ad una matrice unitaria, presenta anch’esso caratteristiche peculiari, quale prerogativa imprenditoriale che investe l’adempimento della prestazione di lavoro autonomo, che è appunto coordinata e non diretta in quanto l’intervento del committente è estrinseco alla prestazione negoziale essendo funzionalmente orientato a consentire l’utile inserimento della prestazione di lavoro nell’organizzazione e nel funzionamento dell’impresa. Prerogativa peraltro omologa a quanto si riscontra nelle forme tipiche di lavoro autonomo (somministrazione, mediazione, mandato, trasporto, agenzia), più volte richiamate nelletrattazioni in materia.
Tale fattispecie viene in qualche modo rivalutata in funzione di delimitazione dall’esterno dell’ampia categoria del lavoro dipendente ed a tal fine viene arricchita di un elemento di consensualità, che non contraddistingueva l’originaria fattispecie. Anche qui l’intervento normativo ha una sua precisa giustificazione nella consapevolezza che, in via di fatto, persino il potere di coordinamento presenta elementi di contiguità con il potere organizzativo/direttivo e può tradursi, nella pratica attuazione, in modalità eccessivamente invadenti ed intrusive suscettibili di comportare le stesse istanze protettive che contraddistinguono il lavoro dipendente. Di qui la necessità, avvertita dal legislatore con l’art. 15, comma 1, L. n. 81/2017, di introdurre un elemento negoziale che consenta una legittimazione“a monte” del fondamento giustificativo del relativo potere e delle sue modalità esplicative. Sulla perspicacia di tale criterio distintivo ci sarebbe molto da riflettere; non ci vuole grande fantasia nel pensare che questo criterio assorbirà l’attenzione degli operatori pratici con tutti i limiti di sofisticazione che implicitamente contiene.
6. La sentenza della Suprema Corte è anche apprezzabile negli svolgimenti successivi, là dove opportunamente rimarca la necessità di estendere l’intera disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni organizzate dal committente, precludendo operazioni selettive affidate agli interpreti che avrebbero lasciato ampio spazio a valutazioni soggettivistiche non tollerabili in una materia così delicata. Tutti gli istituti del diritto del lavoro sono potenzialmente applicabili ai rapporti richiamati dalla norma in esame in quanto compresi nell’ampia nozione di “disciplina del rapporto di lavoro subordinato”. L’unica esclusione può riguardare le tutele assicurativo-previdenziali che, oltre ad essere riconducibili ad un distinto rapporto giuridico instaurato con l’ente previdenziale, parallelo al rapporto lavorativo, richiedono imprescindibilmente un’analitica regolamentazione che definisca modalità organizzative, adempimenti contributivi e correlative prestazioni.
È chiaro che la norma esprime un dato di principio riconoscendo che la disciplina sia suscettibile di adeguarsi nel suo insieme alle situazioni giuridiche considerate. Né, in senso contrario, vanno condivisi i tentativi di spiegare che alcune norme non sarebbero applicabili ai rapporti di lavoro contraddistinti dal requisito della etero-organizzazione, in quanto strettamente correlate all’esercizio dei classici poteri gerarchici dell’imprenditore, plasmati sul modello del lavoro industriale. Il rilievo non può essere condiviso, anche perché si fonda sempre sul presupposto aprioristico, di per sé contestato, che staremmo di fronte a rapporti con caratteristiche peculiari sul piano organizzativo, che cioè la recente riforma avrebbe introdotto una fattispecie nuova di lavoro coordinato imperniata sul requisito dell’etero-organizzazione. Vero è invece che una declinazione di principio così indifferenziata e senza riserve può ragionevolmente fondarsi soltanto sul presupposto che stiamo parlando di rapporti sostanzialmente di lavoro subordinato e non di nuovi tipi o modelli contrattuali di incerta configurazione.
Sotto altro profilo è chiaro che la disciplina protettiva del lavoro subordinato si applica là dove esistano i presupposti e le condizioni per la sua applicazione,non è detto che debba operare sempre per tutti i rapporti rientranti in questa ampia categoria contrattuale, altrimenti non si spiegherebbe la specialità di numerosi rapporti di lavoro subordinato.
In questi termini deve interpretarsi il rilievo della Corte, impropriamente bollato di contraddittorietà, secondo cui “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con la fattispecie da regolare”. Il rilievo non è affatto contraddittorio con quanto precedentemente osservato sull’applicabilità di principio dell’intera disciplina del lavoro dipendente, ma vuole piuttosto raccordarsi a quanto previsto dall’art. 2, lett. a), d.lgs. n. 81/2015, e cioè alla deroga a favore dell’autonomia collettiva, molto problematica nell’esegesi già per il motivo che non è chiaro se ci si riferisca alla contrattazione già esistente o a quella futura. Comunque sia,le due osservazioni della Corte si pongono su piani diversi: la prima attiene alla sfera esegetica e come tale è indirizzata prevalentemente alla magistratura del lavoro, la seconda ha una valenza metodologica e di prospettiva, investendo la tematica delle fonti di regolazione della materia, specie nei rapporti travagliati tra legge e contrattazione collettiva.
7. Le più recenti innovazioni legislative (v. in part. le modifiche introdotte all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, in virtù del d.l. n. 101/2019, conv. in l. n. 128/2019) non danno affatto sostegno alla tesi contraria, come pure si è ritenuto, ma anzi in qualche modo rafforzano l’impostazione complessiva prescelta dalla Suprema Corte.
Va pregiudizialmente dato atto di un salto logico della più recente configurazione della norma rispetto alla stesura originaria (F. Carinci, 2020); ciò nondimeno le variazioni apportate presentano una intrinseca doppiezza di valutazione. L’eliminazione della espressione “esclusivamente” sostituita da quella “prevalentemente” (“rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente”) può ragionevolmente riflettere la consapevolezza del legislatore che il riferimento alla esclusività del rapporto avrebbe potuto consentire un facile espediente elusivo per sottrarsi all’applicazione della disciplina del lavoro dipendente, se solo si fosse previsto in sede negoziale che il lavoratore avesse potuto essere occasionalmente sostituito ovvero avvalersi di una qualche collaborazione. Il legislatore, per essere ancora più chiaro nell’impostazione prescelta, ha voluto precludere questa “via di fuga” eliminando preventivamente un ulteriore elemento di artificio e di confusione. È evidente che il legislatore ha ingaggiato una vera e propria sfida ad oltranza contro le false collaborazioni, al punto da inseguire le diverse pratiche simulatorie là dove possono venirsi a realizzare,e ciò nel momento stesso in cui tiene d’occhio le molteplici variabili in cui lo stato di subordinazione può esprimersi per effetto delle nuove tecnologie e dei nuovi lavori, nello svolgimento dei quali ancora più marcato è il rischio di contraffazione.
Neppure è del tutto esatto che il rapporto di lavoro subordinato si contraddistinguerebbe sempre per il requisito della esclusività della prestazione lavorativa, così come non è vero che il lavoro autonomo si contraddistinguerebbe per la circostanza che le prestazioni di lavoro sono prevalentemente personali. La modularizzazione che ha subìto la fattispecie del lavoro subordinato per effetto delle varie tipologie di lavoro flessibile (v. job sharing, per non parlare di alcuni rapporti speciali, come il lavoro a domicilio, il telelavoro e da ultimo lo smartworking),dimostra che lo stato di subordinazione è compatibile con una varietà di situazioni fattuali anche molto eterogenee, che anzi tendono ad accentuarsi per effetto delle nuove tecnologie informatiche e digitali. Così come sul versante opposto il lavoratore autonomo ha perduto alcuni tratti tipici che lo avvicinavano ad un piccolo imprenditore e si presenta sovente in una veste molto elementare e scarnificata, specie in alcuni contesti produttivi in cui viene ad esplicarsi.
8. Né più producente alla tesi contraria è la soppressione della espressione “con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro” (art. 1, comma 1, l. n. 128/2019). Anche questa modifica, che interviene sulla definizione originaria risponde ad una logica estensiva e fa piazza pulita delle argomentazioni, francamente cervellotiche,di una parte della dottrina che ha preteso di individuare una fattispecie tipica di lavoro coordinato contraddistinta da un potere di organizzazione del committente riferito anche ai tempi e ai luoghi di lavoro.
Eliminare il riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro,recuperando al contempo una nozione più sobria di lavoro dipendente, non difforme da quella pragmaticamente accolta nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea( S. Giubboni,2019),significa accentuare la spinta espansiva delle tutele del lavoro dipendente eliminando un elemento di incertezza e di ambiguità circa la necessarietà di taluni elementi sintomatici della subordinazione non più necessari e non sempre caratterizzanti.
Allo stesso tempo, espungere il riferimento (ai tempi e) al luogo di lavoro risponde ad una esigenza di coerenza con quanto stabilito nella definizione del lavoro prestato a mezzo di piattaforme informatiche quando incidentalmente si precisa “indipendentemente dal luogo di stabilimento”, che sottende la acquisita consapevolezza di una promiscuità dei luoghi di svolgimento della prestazione coordinata attraverso piattaforme digitali.
9. La ricostruzione prescelta dalla Suprema Corte trova piuttosto conferma in due dati normativi innovativi quanto mai pregnanti: anzitutto nell’art. 1, comma 2, l. n. 12/2019, là dove ha aggiunto il periodo: “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”, da collegare a quanto stabilito dal comma 2, art. 47-bis, che esordisce richiamando il comma 1 (“ai fini di cui al comma 1”), per poi precisare:“si considerano piattaforme digitali i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”. La determinazione unilaterale del compenso e delle modalità di esecuzione della prestazione hanno un naturale riferimento a situazioni lavorative contraddistinte da uno stato sostanziale di subordinazione.
Ancora più importante è quanto stabilisce l’art. 47-bis secondo cui “fatto salvo quanto previsto dall’art. 2, comma 1, le disposizioni del presente capo stabiliscono livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui in ambito urbano, e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore di cui all’art. 47, co. 2, lett. a) del codice della strada”. È evidente che il legislatore, anche con riferimento al lavoro prestato attraverso piattaforme eventualmente digitali, abbia voluto rimarcare la distinzione di fondo tra situazioni lavorative che orbitano integralmente nell’area della subordinazione, segnatamente per quanto riguarda la disciplina applicabile, e situazioni di fatto che invece si muovono nell’area dell’autonomia, per le quali vanno comunque definiti i livelli minimali di tutela (come da relativa regolamentazione).
La normativa riportata ribadisce per l’ennesima volta l’impostazione binaria dei rapporti di collaborazione alle attività di impresa,nell’ambito della quale non sono contemplate situazioni intermedie tra il lavoro subordinato e quello autonomo di carattere personale e continuativo, atteso che sarebbe stato a dir poco irragionevole pensare che il legislatore, dopo avere istituito un’asserita terza categoria intermedia, fosse intervenuto, dopo un breve tempo, per introdurre una categoria collaterale, quasi similare, anch’essa orbitante nell’area dell’autonomia ma con un regime di tutela minimalistica. Né per sfuggire a questo paradosso, può valere il rilievo, del tutto artificioso, che il legislatore con la nuova disciplina prescritta per i lavoratori autonomi impiegati attraverso piattaforme anche digitali avrebbe voluto introdurre dei “paletti”nei confronti dell’autonomia collettiva, come contemplata dal comma 2, lett. a), art. 2, d.lgs. n. 81/2015, e cioè “in ragione delle particolari esigenze produttive e/o organizzative del relativo settore”.
La delega all’autonomia collettiva ha una logica di ispirazione nell’esigenza di tenere conto di alcune peculiarità produttive e organizzative in via di emersione nei rapporti sociali e produttivi e segnala pertanto l’opportunità di un processo di specializzazione all’interno della stessa ampia categoria, che tuttavia non può prescindere dalla regola di base secondo cui ai rapporti di collaborazione in questione “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”. Sicché l’autonomia collettiva può esprimersi soltanto in termini di adeguamento e di integrazione di quella disciplina,vale a dire in margini relativamenteristretti,non essendo credibile che i sindacati intervengano per privare del tutto (o quasi) i lavoratori interessati dalle tutele che hanno ormai acquisito in virtù della disposizione legislativa. In ogni caso si tratta di una norma di carattere promozionale che dà ampia fiducia all’autonomia collettiva, là dove l’innovazione contenuta nell’art. 47-bissottenderebbe, secondo la tesi avversata, una valutazione radicalmente opposta di diffidenza e di sfiducia nella capacità dei soggetti sindacali di garantire condizioni adeguate, o almeno minimali, per il relativo settore. Com’è mai credibile una contrattazione collettiva che priva i lavoratori interessati della disciplina del lavoro dipendente e al contempo non è neppure in grado di introdurre quelle tutele (almeno) minimali che sono descritte nel capo 5-bislegge cit. con riferimento ai lavoratori autonomi impiegati tramite piattaforme digitali?
10. Una conferma indiretta dell’assetto bipolare prospettato dalla riforma delle collaborazioni coordinate e continuative, si desume dalla omologa disciplina operante nel settore pubblico, come contenuta nell’art. 7 del d.p.r. n. 165/2001, anch’esso assoggettato a reiterate modificazioni e manipolazioni. L’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 81/2015, si è limitato a precisare che la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni, per poi aggiungere che “dall’1.1.2017 è comunque fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di stipulare i contratti di collaborazione di cui al comma 1”.La più recente riforma Madìa ha confermato il divieto delle collaborazioni con le pubbliche amministrazioni cosiddette“etero-organizzate” (in realtà di vero e proprio lavoro dipendente), che cioè si concretino in “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro” (art. 7, comma 5-bis, come inserito dall’art. 5, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 75/2017 a decorrere dall’1.1.2018, termine poi prorogato con decorrenza dall’1.7.2019), mentre ha lasciato in essere le collaborazioni occasionali o coordinate e continuative di matrice tipicamente autonoma. Il divieto ha una sua coerenza con la parallela modifica intervenuta nel settore privato con riferimento alle collaborazioni organizzate dal committente: nel momento in cui queste collaborazioni sono state ricondotte nell’alveo del lavoro subordinato con l’applicazione della relativa disciplina, non sarebbe stato giuridicamente coerente che analoghe forme di collaborazione continuassero a sopravvivere nel settore pubblico non fosse altro perché sarebbero venute a configurare a tutti gli effetti rapporti di lavoro pubblico. Vi è cioè una precisa simmetria di ispirazione nel settore pubblico e in quello privato, con la differenza che mentre nel settore privato le collaborazioni organizzate dal committente sono ricondotte nell’alveo naturale del lavoro dipendente, nel settore pubblico sono ormai vietate per le implicazioni che ne deriverebbero entrando in rotta di collisione con la disciplina vincolistica prescritta anche a livello costituzionale.
Sono invece rimaste in vita (oltre alle collaborazioni occasionali) le collaborazioni coordinate e continuative che si muovono integralmente nell’area dell’autonomia,come avviene per le analoghe collaborazioni del settore privato, benché nel settore pubblico siano state assoggettate ad una serie di vincoli, formali e sostanziali, che se avevano un senso nell’impostazione precedente, per contenere per quanto possibile collaborazioni artificiose, risultano ridondanti e comunque non coerenti con la configurazione in via esclusiva di rapporti di collaborazione autenticamente autonomi.
È il caso infine di evidenziare che anche nel settore pubblico il riassetto delle collaborazioni personali si collega strettamente ad un’operazione di sanatoria realizzata attraverso le procedure di stabilizzazione (da ultimo disciplinate dall’art. 20 del decreto n. 75/2017). Il che vuol dire che una volta sanate le situazioni anomale che si erano accumulate sia nel settore privato sia nel settore pubblico, con la formazione di una vasta area di precariato, il legislatore ha provveduto a restringere progressivamente gli spazi di operatività del lavoro autonomo onde evitare che quel precariato potesse ricostituirsi. In questa prospettiva si è ritenuto che l’unico rimedio idoneo a prevenire un tale rischio fosse quello di ribadire il carattere epicentrico e per così dire egemonico del rapporto di lavoro dipendente.