Testo integrale con note e bibliografia

Nuovo giro di vite da parte della Cassazione in materia di tutela rimediale derivante da licenziamento illegittimo.
E’ di pochi giorni la fa la notizia (tutt’altro che sorprendente!) secondo cui la Corte di legittimità, prendendo le distanze da un orientamento che sembrava in via di consolidamento se non anche consolidato, afferma con noncurante disinvoltura che anche le fattispecie disciplinari individuate dai contratti collettivi oltre che dai codici disciplinari applicabili per il tramite di una formulazione aperta (es. insubordinazione lieve) possono dar luogo alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro in luogo della sanzione originariamente prevista dal legislatore della legge n. 92/12 e ritenuta congrua dalla stessa Corte regolatrice (tutela indennitaria).
Ma procediamo pure con ordine.
Come noto, a seguito della riscrittura dell’art. 18 St. Lav. ad opera della legge n. 92/12 prima (c.d. Legge Fornero) e, ancor più, dopo l’introduzione del c.d. Jobs Act (D. Lgs. n. 23/2015) la sanzione della reintegrazione quale conseguenza ordinaria del licenziamento illegittimo ha subìto un notevole ridimensionamento.
Volendo rifuggire fin da subito alla tentazione di annegare in disquisizioni astratte i propositi di ricerca concreta, ritengo che la mia analisi non possa che partire dalla previsione contenuta nell’art. 18, comma IV, della legge n. 300/1970 nella parte in cui prevede che il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro “nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Fin dal principio ci si è posti il problema di cosa si debba intendere per “fatto contestato” rilevante ai fini della determinazione del regime di tutela applicabile: se il “fatto materiale” (rispetto al quale, al di là della sua concretizzazione all’interno della materialità fenomenica, deve ritenersi estranea ogni valutazione in ordine al profilo della antigiuridicità della condotta ovvero, più correttamente, circa la proporzionalità della sanzione adottata) o il “fatto giuridico”, inteso nella sua globalità, ovvero nell’unicum della sua componente soggettiva ed oggettiva.
Secondo una prima lettura, la scelta del regime di tutela applicabile doveva porsi a valle di un processo di valutazione bifasico articolato in due diverse fasi: nella prima il giudice era chiamato ad operare una ricognizione in ordine alla ricorrenza o meno di una causa legittimante il recesso attraverso la sussunzione della vicenda fattuale all’interno delle c.d. “clausole elastiche” e/o parametri esclusivi della legittimità del recesso (giusta causa ex art. 2119 c.c. o giustificato motivo soggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966); nella seconda fase, logicamente successiva, lo stesso era invece tenuto a determinare il meccanismo sanzionatorio applicabile alla specie senza tuttavia che il requisito della proporzionalità potesse estendere la sua longa manus anche all’indagine da compiersi in questa fase.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23669/2014, sembrava aver inizialmente aderito alla prima delle due opzioni interpretative, optando per una concezione del fatto da intendersi nella sua componente strettamente “materiale”: “Il nuovo art. 18 ha tenuto distinta, invero, dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”.
Il predetto orientamento, nel vigore del quale è stato emanato medio tempore il D. Lgs. n. 23/2015 in materia di “contratto a tutele crescenti”, è stato tuttavia progressivamente superato a partire dalla sentenza n. 20540/2015 con cui la Corte ha introdotto un primo correttivo ritenendo applicabile la tutela reintegratoria non solo nei casi di insussistenza del “fatto materiale”, ma anche in presenza di un fatto che, ancorchè “sussistente” nella sua materialità, risultasse tuttavia privo del carattere di illiceità, ovvero totalmente inapprezzabile sotto il profilo sanzionatorio.
Sull’ipotesi della sussistenza o meno del fatto e sulla sua “materialità”, dopo tanto dibattito si è pervenuti ad un approdo definitivo, riassunto nel principio secondo cui «l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 St. Lav. come modificato dall’art. 1 comma 42 della l. n. 92 del 2012, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità» (Cass. 23 maggio 2019 n. 14054, che cita Cass. 20540/2015; Cass. 18418/2016; Cass. 11322/2018).
Il predetto principio si è consolidato a tal punto da essersi esteso anche agli assunti dopo il 7 marzo 2015 in regime di «tutele crescenti», per i quali il legislatore delegato, con l’intenzione di porre fine alla querelle interpretativa sul testo del nuovo art. 18 della legge 300/70, aveva espressamente parlato di «insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore».
Volendo trarre una prima importante conclusione va pertanto considerato “materialmente insussistente” anche un fatto materialmente sussistente ma privo del carattere di antigiuridicità della condotta.
Ma tale approdo deve ritenersi tutt’altro che satisfattivo rispetto al tema in argomento ove si consideri che l’altro criterio che dovrebbe orientare il giudice nell’individuazione della tutela secondo il IV comma dell’art. 18 risiede nella “tipizzazione” del comportamento all’interno del codice disciplinare o nei contratti collettivi applicabili. Con la conseguenza che se il fatto sussiste, non costituisce giusta causa e ciò nondimeno non sia sussumibile all’interno di una corrispondente previsione collettiva che preveda per quel comportamento una sanzione di natura conservativa il giudice applicherà la tutela indennitaria.
In quest’ottica è da notare come la legge Fornero, prevedendo la reintegrazione nel caso di condotte previste e sanzionate dal contratto collettivo con provvedimenti conservativi ha, sin dalle sue prime battute, ingenerato il dubbio se debba rinvenirsi una previsione esplicita della specifica mancanza da parte del Ccnl di riferimento o se il giudice possa utilizzare le diverse previsioni come paramento per una valutazione di proporzionalità, eventualmente attraverso una interpretazione analogica o estensiva.
Il tema in oggetto pone diversi problemi interpretativi a cominciare da quello generale del ruolo da attribuire al principio di proporzionalità nella scelta della sanzione ex art. 2106 c.c., per finire a quello della lacuna e dalla mancata tipizzazione puntuale del comportamento nel codice disciplinare.
Come è noto, le tipizzazioni contrattuali hanno una rilevanza fondamentate ai fini della valutazione giudiziale in ordine alla legittimità della sanzione, conservativa o espulsiva, che sia stata irrogata dal datore di lavoro e impugnata dal lavoratore.
In ordine a quest’ultimo aspetto, si è sempre affermato che mentre il giudice, nell’accertamento della sua sussistenza o meno, in quanto nozione legale, non è soggetto ad alcun vincolo derivante dalla tipizzazione contrattuale di “giusta causa” attesa la sua valenza meramente esemplificativa e, dunque, non preclusiva della sua valutazione in ordine all’idoneità di un grave inadempimento alle norme della comune etica o del comune vivere civile all’irreparabile rottura del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr. Cass. civ., sez. lav., n. 9304/21), in caso di licenziamento irrogato per un fatto punito con una sanzione conservativa lo stesso è, invece, vincolato da tale previsione dovendo dichiarare illegittimo il licenziamento non potendo estendere il “catalogo” della “giusta causa” o del “giustificato motivo” oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr. Cass. civ., sez. lav., n. 15058/2015).
Del resto, pur non essendo vincolato a ritenere proporzionato il licenziamento a fronte di una tipizzazione contrattuale che prevede quella condotta come giusta causa o giustificato motivo, il giudice deve comunque tenere conto di tale tipizzazione alla luce di quanto previsto dall’art. 30, comma 3, della Legge n. 183/2010 nella parte in cui si legge che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni”.
Senonchè, ed è qui il punto, l’art. 30 della L. n. 183/2010, pur non vincolando in termini tecnici il giudice, impone allo stesso di ritenere proporzionata la sanzione espulsiva nei casi in cui essa è espressamente contemplata dal CCNL salvo che ricorrano motivi particolari - da motivarsi espressamente - per discostarsi dalle previsioni delle parti sociali.
Va da sé che l’operazione di riconduzione della condotta alla tipizzazione contrattuale assume importanza fondamentale sia per orientare a monte le scelte dei datori di lavoro e dei lavoratori rispettivamente in ordine alle sanzioni da irrogare e ai comportamenti da assumere, sia per definire l’esatto perimetro dell’indagine giudiziale.
Sotto tale profilo, va sottolineato come all’indomani della entrata in vigore della legge Fornero numerosi giudici di merito, bypassando more solito il dato testuale della norma, avevano ritenuto di non circoscrivere la tutela reintegratoria alle sole ipotesi espressamente individuate dalla contrattazione collettiva come suscettibili di sanzione conservativa.
A titolo esemplificativo la Corte d’Appello di Genova, nel recepire integralmente le motivazioni del giudice della fase precedente, afferma che “La norma dell’art. 18, comma 4, ha mantenuto il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro per i casi in cui il difetto di giustificazione del recesso sia di più immediata evidenza per le parti, nella logica - perseguita poi in modo ancora più avanzato dal decreto legislativo 23/2015 - di rendere tendenzialmente prevedibili per il datore di lavoro le conseguenze dell’eventuale contestazione di legittimità da parte del lavoratore licenziato. A questi fini la codificazione disciplinare compiuta dalle parti collettive è stata assunta a parametro di valutazione obbligato, consentendo alle parti del rapporto di farvi utilmente riferimento per verificare a priori la correttezza dell’operato datoriale. È chiaro che il C.C.N.L., così come ogni altra fonte richiamata scopo interpretativo, assolve ad una tale funzione non con la singola fattispecie ipotizzata, ma nel suo complesso: il giudizio di conformità che ne scaturisce, infatti, deriva anche dalla constatazione che per un comportamento (meno grave), seppure lesivo degli stessi beni giuridici, non sia stata stabilita la stessa sanzione di altro comportamento (più grave).
Delle “tipizzazioni” compiute dalle parti collettive il giudice ha in questo senso sempre potuto tenere conto nel proprio ragionamento giuridico [cfr. ad esempio, Cass., se. Lav. 22 giugno 2009, n. 14586]; con la legge 183/2010 egli vi ha obbligato.
La lettura suggerita invece dalla difesa di …….. - e da una parte della dottrina - limiterebbe il vaglio consentito dall’art. 18, comma 4, alle sole fattispecie espressamente contemplate dalle parti collettive. In questo modo i contratti collettivi sarebbero chiamati ad articolare una casistica tanto minuziosa da catalogare esaustivamente ogni condotta di possibile rilievo disciplinare.
Oltre che concretamente impraticabile, questo assunto risulterebbe inapplicabile a vicende, come quella in esame, soggette alla contrattazione preveggente, non ancora adeguata alle prescrizioni della legge 92/2012. Ed anche quando le parti collettive avessero aggiornato i codici disciplinari in funzione del nuovo regime, le soluzioni ingiustamente diseguali non sarebbero scongiurate, poiché non è pensabile che tutte le violazioni possano trovarvi spazio. Di conseguenza, l’applicazione della tutela più o meno piena verrebbe condizionata in modo decisivo dal fatto che lo specifico addebitato sia o meno nominato in modo espresso nella codificazione del contratto collettivo applicato al caso concreto. Se così interpretata, dunque, la norma dell’art. 18, comma 4, sarebbe sospetta di incostituzionalità, così come ipotizzato in dottrina, per la manifesti ragionevolezza del trattamento riservato ai lavoratori” (cfr. Corte d’Appello Genova, Rel. Dott.ssa Ponassi, sent. n. 223/2016).
Parallelamente in sede interpretativa c’era già chi, innestando il tema della gravità dell’illecito disciplinare nell’ambito dell’individuazione della sanzione applicabile in relazione alla specificità del caso concreto, invocava la necessità di un “rovesciamento” del criterio delle sanzioni conservative tipizzate assumendo che i rinvii alla contrattazione collettiva possono rappresentare “dati equivoci ed elastici che suggeriscono essi stessi risultati estensivi sul piano interpretativo; e che non consentono di separare quasi mai con certezza (tanto meno nella tecnica di redazione che li ha contraddistinti fino ad oggi) il discrimine da individuare in materia di sanzione; né quindi di estromettere l’apprezzamento del giudice ex 2106 c.c. per rimediare a lacune, ambiguità ed indeterminatezza delle fonti disciplinari.
… Non si può porre a carico dell’incolpevole lavoratore la mancata tipizzazione della sanzione conservativa: a meno che non si assuma l’ottica rovesciata di una tutela ex art.18 modulata non sulla mancanza del lavoratore ma sul comportamento del datore da orientare al momento nell’intimazione del licenziamento e dunque sulla gravità della sua colpa nella scelta della sanzione. Ma, oltre alla legge 604/1996 che riporta il licenziamento disciplinare esclusivamente all’inadempimento del lavoratore (contrariamente alla disciplina dell’art.1455 c.c.) , la stessa nuova formula di legge parla al comma 4 dell’art.18 di insussistenza del fatto contestato al lavoratore e di condotte del lavoratore punibili con sanzioni conservative; e ciò dimostra che il focus del giudizio in punto di scelta della tutela resta ancora l’illecito del lavoratore: che se manca va tutelato con la reintegra; e se non è grave va ancora tutelato con la reintegra (a meno, come si dirà, il CCNL non preveda espressamente una legittima sanzione espulsiva) …” (cfr. Roberto Riverso, i licenziamenti disciplinari: irrazionalità normative e rimedi interpretativi in WP CSDLE “Massimo D’Antona” - 177/2013).
Per converso, a partire dalla sentenza del 9 maggio 2019 n. 12365 (Pres. Di Cerbo, Rel. Boghetic) si registra una interpretazione restrittiva della norma.
Nella specie il Supremo Collegio, in una controversia seguita dal nostro studio, ha cassato la decisione della Corte d’appello di Trieste che aveva riconosciuto il diritto alla reintegra ex art. 18 quarto comma l. 300/1970 di un lavoratore sorpreso addormentato durante il turno di lavoro notturno, considerando la sua condotta riconducibile anche sul piano naturalistico nell’alveo della fattispecie costituita dal cd. “abbandono del posto di lavoro”, punibile dal Ccnl Industria Metalmeccanica con una sanzione di natura conservativa, statuendo il principio di diritto secondo cui «non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita (…) al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare».
Nel pervenire alla suestesa conclusione la Corte di legittimità ha chiarito che le previsioni del contratto collettivo non si prestano a essere intrepretate analogicamente, dovendo essere utilizzati i criteri ermeneutici previsti dagli articoli 1362 ss. cod. civ.; e ha ulteriormente specificato che deve ritenersi consentita l'interpretazione estensiva in applicazione dell'articolo 1365 cod. civ. solo ove risulti “l’'inadeguatezza per difetto" dell'espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione. ln tale ipotesi, I'interprete deve tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l'elencazione esemplificativo dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell'esemplificazione, attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutico, al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma. È evidente che Ia suddetta verifica deve essere eseguita dall'interprete con particolare severità in un contesto, come quello in esame, nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente”.
Con la conseguenza che solo nel caso in cui il fatto contestato ed accertato sia espressamente contemplato dalla disposizione contrattuale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con una sanzione conservativa, il licenziamento sarà sanzionabile con il regime di cui al IV comma dell’art. 18, dovendo altrimenti trovare applicazione la regola generale del comma V, rispetto alla quale quella del comma IV si configura come eccezionale (cfr. Cass. SS. UU., n. 30985/2017).
Del resto, è di intuitiva percezione che l’apertura all’analogia o ad una interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati, produrrebbe invece effetti esattamente contraria a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto.
Nella stessa scia interpretativa si colloca anche la sentenza n. 14888/20 nella parte in cui si legge che “in ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo ed alla previsione di una scala valoriale recepita dal contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dall’art. 1362 ss. c.c., che sussiste il divieto di interpretazione analogica delle clausole contrattuali e che l’interpretazione estensiva è possibile solo ove risulti “l’inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, verifica che deve essere condotta con particolare severità e in un contesto nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che prevede una eccezione (tutela reintegratoria nel testo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92 del 2012) rispetto alla regola generale (tutela risarcitoria) deve essere interpretata restrittivamente …”.
In conclusione, secondo il Giudice di legittimità la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato comporta l'applicazione della tutela di cui all'art. 18, quarto comma, solo nell'ipotesi in cui la fattispecie accertata sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa; al di fuori di tale caso la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l'art. 18, quinto comma prevede la tutela indennitaria c.d. forte (Cass. 05/12/2019, n. 31839; Cass. 19/07/2019, n. 19578; Cass. 14/12/2018 n. 32500, in motivazione, Cass. 12/10/2018, 25534; Cass. 25/05/ 2017, n. 13178, in motivazione).
Al riguardo, non è privo di rilievo considerare che la limitazione della tutela reintegratoria alle sole ipotesi di tipizzazione della condotta punita con sanzione conservativa dalla previsione collettiva è coerente con la lettera dell'art. 18, quarto comma, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l'eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria nonché, dal punto di vista sistematico, con la chiara ratio nel nuovo regime, in cui la tutela reintegratoria presuppone l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica, a sua volta, una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell'ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore.
Come segnalato nell’incipit di queste mie considerazioni, di tutt’altro avviso è invece l’ordinanza n. 14777/21 che, sconfessando apertamente l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, ha rispolverato il regime della tutela reale per quelle fattispecie di fatto/inadempimento individuate dai contratti collettivi e dai codici disciplinari applicabili attraverso formule aperte (es. negligenza lieve) in relazione alle quali venga prevista una sanzione di natura conservativa.
Nella specie, al fine di legittimare il proprio intervento deviante rispetto alla formulazione testuale della norma e all’indirizzo fino ad oggi consolidato, la Corte rileva preliminarmente che l'attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale.
In particolare, nella richiamata ordinanza si legge che “il giudice non compie una autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, ma interpreta il contratto collettivo e lo applica alla fattispecie concreta. Il suo compito è stabilire, ad esempio, se una determinata condotta sia sussumibile nella nozione giuridica di negligenza lieve e non decidere se per la condotta di negligenza lieve sia proporzionata la sanzione conservativa o quella espulsiva.
La circostanza che alcune condotte non risultino tipizzate dai contratti collettivi come suscettibili di sanzioni conservative, specie in presenza di formule generali o aperte oppure di norme di chiusura, non può costituire un indice significativo e plausibile della volontà delle parti sociali di escludere tali condotte dal novero di quelle meritevoli delle sanzioni disciplinari più blande, cioè conservative …”.
Alla luce delle superiori premesse, la Corte ha quindi concluso nel senso che il discrimen tra tutela reale e tutela indennitaria non può essere affidata alla tipizzazione generica dell’illecito da parte dei contratti collettivi e dei codici disciplinari pena la realizzazione di una ingiustificata disparità di trattamento tra comportamenti non gravi tipizzati e comportamenti di rilievo equivalente non espressamente contemplati dal CCNL.
Sembra quasi di sentire risuonare nelle stanze del Palazzaccio il grido di allarme di qualche Consigliere della Suprema Corte allorquando, all’indomani dell’entrata in vigore della legge Fornero e del tentativo, rivelatosi vano, da parte del Governo di circoscrivere il perimetro del sindacato giudiziale, scriveva “Non si può porre a carico dell’incolpevole lavoratore la mancata tipizzazione della sanzione conservativa: a meno che non si assuma l’ottica rovesciata di una tutela ex art.18 modulata non sulla mancanza del lavoratore ma sul comportamento del datore da orientare al momento nell’intimazione del licenziamento e dunque sulla gravità della sua colpa nella scelta della sanzione.
… La scelta della reintegra il giudice dovrà adottarla anche quando manchi una esplicita tipizzazione del comportamento disciplinare e sia però previsto un catalogo generico di comportamenti costituenti infrazioni disciplinari accompagnati da una clausola di graduazione (“nei casi più gravi”). Ed inoltre in tutti i casi in cui il codice disciplinare nel comminare un licenziamento si limiti a rinviare a sua volta all’art.2119 c.c.; ossia dinanzi a casi in cui le violazioni disciplinari non siano tipizzate neppure in astratto e vengano richiamate solo attraverso il rinvio alla giusta causa (“per l’ipotesi in cui configuri giusta causa”). In questi casi non c’è alcuna espressa previsione disciplinare e la scelta della sanzione reintegratoria ripete da quella stessa mancanza della giusta causa che porta all’annullamento dell’atto” (cfr. supra, riferimenti a pag. 5).
In conclusione, a dispetto del tentativo di profonda rivisitazione dell’impianto normativo dell’art. 18 St. Lav. realizzato con la legge Fornero ed in seguito con il Jobs Act, la “Penelope fatta giurista” (cfr. Perulli, Correzioni di rotta. La disciplina del licenziamento illegittimo di cui all’art. 3, comma 1, d. lgs. n. 23/2015 alla luce del c.d. Decreto Dignità e della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018) “sembra non trovare pace, esponendo il diritto del lavoro a continue correzioni di rotta proprio nel suo cuore regolativo, quello da cui si irradiano le “pulsazioni normative” che danno vita all’intera materia: il modello di regolamentazione del recesso condiziona infatti non solo gli effetti rimediali previsti in caso di licenziamento ingiustificato, ma, più in generale, le sorti dell’intero assetto degli interessi fra le parti e la sua dinamica proiezione nei vari istituti del rapporto di lavoro, che da quella disciplina sono, più o meno direttamente, influenzati”.

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