Testo integrale con note e bibliografia

1. La condizione femminile nell’Università: gli indici della disparità
Per descrivere la condizione della donna all’interno dell’accademia sono stati condotti diversi studi. Il più interessante è quello della Commissione europea, sistematizzato nei periodici rapporti She Figures . I dati mostrano come tra il 2003 e il 2018, la presenza delle donne sia mutata significativamente. Mentre nel 2003 esse rappresentavano una esigua minoranza in tutti i livelli della carriera, oggi esse sono la maggioranza tra i titolari di dottorato di ricerca e avanzamenti sono stati fatti anche nei ruoli più elevati. Si tratta però di progressi minimi e considerati unanimemente dagli studiosi dell’argomento insufficienti. Nel rapporto 2018 si afferma come l’aver gettato il seme dell’eguaglianza all’interno delle carriere accademiche non sia di per sé sufficiente a superare l’enorme gap di genere tuttora sussistente, soprattutto ai livelli più alti della carriera . La parità raggiunta tra i titolari di dottorato di ricerca non si riflette infatti sul successivo livello di ricercatore, dove le donne, a livello europeo, continuano a essere una minoranza, peraltro con significative differenze anche sulla qualità dei rapporti di lavoro, con una prevalenza di lavoro a tempo parziale e precario.
Anche gli studi sociologici sulla posizione delle donne all’accademia scientifica hanno avuto una considerevole fioritura negli ultimi anni, caratterizzandosi per l’elaborazione di dati statistici e di diversi indici e criteri di misurazione delle disparità e della situazione di svantaggio femminile.
In origine, la maggior parte degli studi si è focalizzata sul classico Gci (Glass Ceiling Index), inteso nella sua accezione ristretta di barriera invisibile situata nella fase finale della carriera, ma nel corso del tempo gli studi hanno portato all’utilizzo delle metafore della Leaky Pipeline e dello Sticky Floor per fare riferimento alla costante e progressiva riduzione della presenza femminile lungo le varie fasi della carriera. Si è inoltre elaborato il Gdi (Glass Door Index) per misurare il livello di sotto rappresentazione delle donne nel primo gradino della carriera. Altro indice elaborato dagli studi delle colleghe sociologhe, mi riferisco in particolare gli studi di Gaiaschi e Musumeci, è il Gbi (Glass Bottleneck Index), che consente di misurare la proporzione delle donne nei diversi gradi della carriera in rapporto al gradino più alto e, quindi, di vedere quale sia lo svantaggio a metà carriera. Questi studi più recenti hanno inoltre migliorato l’analisi guardando non più solo allo stock del personale impiegato, ma anche all’andamento del reclutamento .
Questo secondo tipo di analisi conferma sostanzialmente il dato dell’incremento del reclutamento femminile rispetto a quello maschile, ma al contempo consente di epurare il risultato dell’incidenza della variabile demografica, in particolare dal fenomeno intervenuto negli ultimi anni di pensionamento del personale docente maschile. Il risultato è senz’altro positivo e segno di un miglioramento della posizione femminile rispetto a quella maschile, ma ancora una volta si conferma l’analisi finale della eccessiva lentezza del progresso in atto.
Il confronto tra i diversi indici ha portato a individuare i punti in cui si concentrano i maggiori ostacoli. In sintesi: si conferma anzitutto la presenza di un considerevole Glass Ceiling, in quanto il passaggio a professore ordinario rimane sempre il più difficile. È invece notevolmente migliorato negli ultimi anni il passaggio da ricercatore a professore associato, ma questo, come si vedrà, dipende più che altro dallo spostamento della Glass Door. Se fino alla riforma del 2010 il passaggio da ricercatore ad associato era difficile e i dati indicavano il più veloce avanzamento di carriera degli uomini da ricercatore ad associati, oggi il punto più problematico di ingresso è quello al contratto di RtdB ovvero la base dell’accesso alla tenure track. Come dire che l’avanzamento di carriera da ricercatore ad associato, divenuto pressoché automatico dopo la riforma, ha semplicemente spostato di un gradino più in basso la Glass Door.
Per completezza, si segnala che altri indici sono stati elaborati a livello di singoli Atenei, prevalentemente nell’ambito delle politiche volte alla redazione del bilancio di genere. Ricordiamo il Unibo-Ugii (University Gender Inequality Index) che è un indicatore finalizzato a misurare la diseguaglianza di genere negli Atenei sviluppato nell’Università di Bologna nell’ambito del Progetto Horizon 2020 PLOTINA (2016-2020) e, per quanto consta, altri sono stati sviluppati a Foggia e a Padova. Si tratta di indici molto interessanti, che misurano la diseguaglianza di genere non solo nelle carriere accademiche, ma coinvolgendo tutto il personale e gli studenti, andando ad analizzare la condizione femminile oltre che sotto il profilo dell’accesso alla carriera accademica, anche relativamente alle condizioni di lavoro.
Essi si inseriscono nel contesto di un fiorire di iniziative poste in essere anche dai più alti livelli istituzionali. Il riferimento è chiaramente alle Linee guida per il Bilancio di Genere negli Atenei italiani presentate dal Gruppo Crui per il Bilancio di Genere nel settembre 2019 , su cui si tornerà in prosieguo.

2…e le sue cause
Gli studi hanno posto in luce in vario modo quali sono i fattori che incidono sulle diseguaglianze di genere nell’accademia. Essi sono stati ricondotti a elementi di carattere culturale, strutturale e istituzionale, in grado di operare a livello micro- individuale, a livello meso-organizzativo e a livello macro-istituzionale .
A livello micro, le analisi si sono concentrate sulla produttività, evidenziando come le responsabilità familiari incidano sul numero di pubblicazioni delle ricercatrici, su cui occorre fare alcune osservazioni. La prima riguarda le conseguenze della pandemia che, costringendo tutti al lavoro da casa (che pure rappresenta un privilegio nel contesto attuale di perdita del lavoro soprattutto da parte delle lavoratrici precarie) limita notevolmente le possibilità per le lavoratrici con responsabilità familiari di portare avanti il lavoro scientifico . Più in generale, e al netto delle conseguenze negative derivanti dai provvedimenti antipandemia, si deve però osservare che il dato relativo alla minore produttività scientifica femminile è stato in parte contestato, perchè si è dimostrato come il rallentamento nella fase della maternità delle ricercatrici venga poi ampiamente recuperato nella fase più avanzata della carriera.
Altri fattori che incidono al livello micro sono stati individuati nella propensione dei valutatori a prediligere candidati dello stesso genere: si parla in questo senso di fenomeni inconsci nei selezionatori per l’avanzamento in carriera e nell’assegnazione delle risorse. Si pone in evidenza la diffusione della prassi di privilegiare alcuni temi di ricerca rispetto ad altri, con una sistematica sottovalutazione in particolare degli studi di genere o la prospettiva di genere nella ricerca.
È d’altra parte evidente come i fattori micro si intersechino con quelli di carattere organizzativo e questi ultimi, a loro volta, con quelli di tipo istituzionale.
A livello meso si individuano alcuni elementi del contesto organizzativo che incidono sulla carriera delle donne. Questi sono individuati nella richiesta di un maggior impegno didattico e amministrativo alle colleghe, che rallenta la loro produttività scientifica; nel fatto che viene riservato loro meno supporto e mentoring e nella loro maggiore difficoltà di inserimento nei network delle comunità scientifiche che pure svolgono un ruolo cruciale dei processi di reclutamento. Un esempio emblematico di quest’ultimo tipo di difficoltà è il dibattito che spesso si solleva quando si guarda al numero di donne relatrici a convegni e seminari.
Più in generale, mi pare si possa condividere l’osservazione di chi ritiene che l’organizzazione dell’accademia continui a fare riferimento a un modello esemplare di scienziato definito come Unconditional Worker: un lavoratore disposto a qualsiasi spostamento, a qualsiasi orario e a qualsiasi carico di lavoro, nonché privo di (o ben disposto a mettere da parte le) responsabilità familiari. Il modello produttivistico di ricerca scientifica che si è sviluppato con l’introduzione dei parametri di valutazione e di reclutamento basati sulle mediane, spinge nella medesima direzione. A partire dalla riforma del 2005 abbiamo assistito a un incremento del carico di lavoro del personale docente, che si è verificato non solo con l’aumento delle ore di didattica - mediamente tre corsi per docente - ma soprattutto con un incremento degli adempimenti burocratici connessi all’assolvimento delle varie funzioni. La partecipazione a consigli, collegi e commissioni è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, e con essa la richiesta di compilazione di documenti e schede di vario genere. La pur necessaria e importante produzione di lezioni e materiali multimediali connessa alla pandemia è stata solo l’ultima di una lunga serie di aggravi. Ma tornando alla questione della produttività scientifica, pare da un lato evidente che la congerie di impegni indicata limita la capacità di dedicarsi appieno alla ricerca e questo soprattutto quando è alle donne che sono assegnati i maggiori incarichi di carattere burocratico e i corsi con il maggior numero di studenti. Dall’altro lato, il sistema di reclutamento basato sulle mediane ha portato a innescare meccanismi di iper produttività che, oltre a porre in una situazione di svantaggio le lavoratrici con maggior carico familiare, pongono delle questioni di carattere generale relative alla qualità del lavoro che stiamo svolgendo. Restando nel campo del diritto del lavoro, che è quello meglio conosciuto, mi limito a segnalare che la mediana relativa al numero di articoli e parti di libro che si deve possedere per essere commissario d’esame ha raggiunto il numero 33 nell’arco di 10 anni. Vorrei sapere quanti colleghi ritengono di essere in grado con gli attuali carichi didattici di poter pubblicare 3,3 saggi all’anno di media che siano di alto livello scientifico e di essere in grado di farlo nell’arco delle 1500 ore di impegno annuo che sono dovute dal docente universitario.
Come noto, la riforma del 2010 ha portato a una netta riduzione delle occupazioni stabili e a un incremento del lavoro precario, che a sua volta si riverbera in modo negativo sulla condizione femminile. Sono state poste alla Corte di giustizia dell’Unione Europea alcune questioni interpretative relative alla conformità rispetto alla dir.99/70/Ce in materia di contratti a termine delle previsioni della legge n. 240/10 relative alla natura necessariamente a tempo determinato dei contratti di ricercatore, senza possibilità di conversione in contratti a tempo indeterminato . Gli esiti del primo ricorso sono stati negativi, e sulla quesitone, come si vedrà, è intervenuta la recente riforma del reclutamento dei ricercatori, che pur mantenendo il carattere temporaneo dell’impiego, aspira a limitare la successione di contratti brevi. Sarebbe interessante però chiedere alla Corte di giustizia di verificare la legittimità del sistema di reclutamento anche sotto il profilo del rispetto del divieto di discriminazione indiretta di genere.

 

 

3. Gli spazi per l’azione in giudizio avverso le discriminazioni nell’accesso alla carriera…
Da un punto di vista giuridico, potremmo interrogarci su quale sia la valenza da riservare ai risultati delle analisi di cui si è sino a qui dato conto. Chi scrive ha dedicato al tema dell’uso dei dati statistici all’interno dei procedimenti per discriminazione uno studio interdisciplinare condotto con una collega di sociologia che ha portato a conclusioni che mi permetto qui di ricordare, perché ritengo particolarmente utili e importanti. In un contesto di generale discredito dell’uso dei dati statistici ai fini della discriminazione, generato perlopiù dalla storica diffidenza dei giuristi nei confronti della possibilità di inferire da tali dati precise relazioni di causa-effetto, abbiamo cercato di individuare un criterio di discrimine che possa consentire di considerare in talune circostanze - invero limitate - il dato statistico quale prova piena della discriminazione e in altre una prova indiretta della sussistenza di un comportamento discriminatorio che poi deve essere provato sulla base di altri elementi di fatto sufficientemente precisi e gravi. Senza potere qui entrare nel merito e rinviando a quanto già pubblicato in materia , possiamo osservare come quando il dato statistico sia raccolto con i criteri scientifici adeguati e rispondenti a quelli accolti nella comunità scientifica, esso rappresenta una c.d. naked statistics ovvero il nudo dato dal quale emerge all’interno di una popolazione di riferimento la differenza fra il gruppo protetto dal diritto antidiscriminatorio e il gruppo che non lo è; quando quel dato è basato sull’analisi dell’intera popolazione di riferimento e non è invece raccolto a campione; quando l’universo statistico (cioè la base di riferimento presa in considerazione per l’elaborazione numerica) coincide con l’ambito entro il quale nel giudizio antidiscriminatorio si procede alla comparazione tra soggetti appartenenti a diversi gruppi, allora quel dato non costituisce altro che un modo per rappresentare in numeri la realtà della situazione nella quale un gruppo è trattato meno favorevolmente di un altro sulla base del fattore sesso. A queste limitate condizioni, il dato statistico costituisce la rappresentazione dell’elemento costitutivo principale della fattispecie discriminatoria, in presenza del quale opera il principio di inversione/alleggerimento dell’onere della prova e spetta al convenuto dimostrare l’impedimento, ovvero la sussistenza di elementi tali da escludere che si tratti di una discriminazione .
È noto che l’uso dei dati statistici è stato più volte ammesso dalla Corte di giustizia in varie circostanze e che si è sviluppato soprattutto con riferimento a particolari forme di lavoro tipicamente femminili, come ad esempio part-time, e che da ultimo ha avuto largo uso anche nei sistemi di previdenza sociale.
È evidente che i dati e gli indici di cui si è dato conto sopra rappresentano meri indizi della sussistenza di un quadro complessivamente discriminatorio e non prove dirette delle fattispecie di discriminazione diretta o indiretta. Queste ultime potranno però essere accertate a livello di singolo Dipartimento, o, sul piano nazionale, con riferimento all’abilitazione scientifica (Asn) settore per settore, livello per livello. Nella maggior parte dei casi però non si potrà parlare di dato statistico, per l’esiguità dei numeri coinvolti. Nonostante ciò, i dati nudi potranno costituire elementi di fatto tali da far presumere l’esistenza di una discriminazione e giustificare pertanto l’applicazione delle più favorevoli regole probatorie.

4. …e gli ostacoli che vi si frappongono
Veniamo ora al punto più dolente: la pressoché totale assenza di contenzioso in materia. I casi in cui, in generale, l’accesso alla carriera universitaria viene contestato giudizialmente sono pochi. Per dare un’idea di cosa stiamo parlando, l’interrogazione delle banche dati per individuare le decisioni relative all’accesso all’impiego dà come esito numerico: meno di 20 per le cause relative all’art. 24 l.n. 240/ 2010; meno di 30 per quelle relative all’art. 18. Si tratta di un numero certamente esiguo confrontato all’ormai decennale vita delle nuove procedure di reclutamento. Ma anche se si guarda più in generale alla voce concorsi universitari, e si aggiunge il filtro “discrimina*”, delle 1420 massime che risultano dalla ricerca, ne restano 4, di cui due relative a una fattispecie di discriminazione per età risalenti al 1987, una del 2020 in cui si parla genericamente di discriminare tra i vari criteri di valutazione della professionalità dei candidati e una sola di interesse ai nostri fini che riguarda la composizione delle commissioni di concorso ex articolo 57 d.lgs. 165/01 .
Nella giurisprudenza più recente, per quanto consta, si ritrova un solo caso in cui una ricercatrice ha lamentato una discriminazione di genere connessa alla violazione della tutela della maternità. Tali doglianze però non sono state valutate sotto lo specifico profilo della violazione del Codice delle pari opportunità (Cpo) ma assorbite dalla valutazione di carattere generale relativa al difetto di motivazione .
In conclusione, il contenzioso per discriminazione di genere nell’accesso alla carriera universitaria è pressoché inesistente. Su questo aspetto occorre fare diverse riflessioni. La prima è costituita dai limiti insiti nel diritto antidiscriminatorio e ormai noti e denunciati dalle più attente dottrine. Mi riferisco al fatto che abbiamo a che fare con un “complaints- based enforcement by individuals” che si deve misurare con la constatazione che l’azione giudiziaria non è l’unica delle strategie possibili che la vittima di discriminazione può adottare . La dottrina ne ha individuate altre:
- il c.d. lumping it, ovvero il rassegnarsi alla discriminazione subita;
- l’avoidance, l’evitare contatti con gli autori della discriminazione;
- l’exit, cioè l’allontanarsi dal rapporto di lavoro discriminatorio.
Incidono certamente la percezione soggettiva che la via giudiziaria “non sia il modo più appropriato per gestire aspetti di una relazione insoddisfacente” e la valutazione dei costi derivanti dal ricorso legale.
Nel caso dell’accademia, dove i legami tra maestri e allievi e il senso di appartenenza a comunità scientifiche normalmente ristrette sono elementi fortemente caratterizzanti, la creazione di un clima conflittuale con i colleghi è certamente un elemento che induce a desistere, nonostante che il divieto di ritorsioni sia parte essenziale della tutela antidiscriminatoria: essa infatti non sembra poter incidere adeguatamente sul clima che si può creare intorno alla persona che abbia fatto ricorso, sia a livello del singolo Dipartimento o del settore disciplinare a cui appartiene. Uso qui il termine appartenenza pour cause, a indicare una relazione non solo formale, ma anche di condivisione. Infatti, rispetto alle procedure di reclutamento di Ateneo, il contenzioso relativo all’Asn, dove non sempre è in gioco il legame stretto con la propria comunità di ricerca, è stato negli ultimi anni ben più consistente, sebbene non caratterizzato da questioni di genere .
Altre considerazioni incidono sulla scelta di non ricorrere alla via giudiziale. Un elemento che certamente pesa nella scelta di non ricorrere giudizialmente attiene ai tempi del processo, che si uniscono qui a una questione di competenza giurisdizionale. Gli studi di diritto antidiscriminatorio hanno da tempo segnalato l’anomalia costituita dal fatto che il ricorso avverso le discriminazioni di genere nel rapporto di lavoro è l’unico a seguire un rito diverso rispetto a quello di cui all’art. 28, d. lgs. 150/11: ad esso si continuano ad applicare infatti le disposizioni del Codice le pari opportunità ed è conseguentemente l’unico ricorso per discriminazione che rimane soggetto ancora alla giurisdizione del giudice amministrativo . Ciò significa continuare a misurarsi con un organo poco avvezzo all’analisi delle fattispecie discriminatorie e all’uso dei rimedi propri del diritto antidiscriminatorio e più propenso a riconoscere, come si vedrà tra breve, la discrezionalità amministrativa. Inoltre, si pongono problemi di giurisdizione quando oltre agli atti relativi alla singola procedura di reclutamento si impugnino anche i criteri generali di valutazione indicati dal d.m. n. 243 del 2011: qualora si contesti la sola procedura della singola università gli atti saranno di competenza del Tribunale amministrativo regionale ove questa ha sede, mentre nel secondo caso sarà competente il Tar del Lazio. Come accennato sopra, nella decisione se ricorrere in giudizio si deve anche considerare il tempo necessario per il procedimento: mediamente di almeno un anno davanti ai tribunali amministrativi ma che rischia di dilungarsi oltremodo in caso di eventuale ricorso in secondo grado al Consiglio di Stato, sicchè pare preferibile attendere altre opportunità di avanzamento in carriera.
L’analisi del contenzioso conferma inoltre che il principale nemico storico della parità è la discrezionalità amministrativa. La ricorrente che si ritenesse vittima di una discriminazione si scontrerebbe anzitutto con una posizione pressochè granitica della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “le valutazioni espresse dalle commissioni giudicatrici in ordine alle prove di concorso,....costituiscono pur sempre l'espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l'idoneità tecnica e/o culturale, ovvero attitudinale, dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo, se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico od un errore di fatto, o ancora una contraddittorietà ictu oculi rilevabile” . A livello di singolo Ateneo, il contenzioso è praticato solo in presenza di vistose anomalie nella compilazione dei verbali o per contestare situazioni di incompatibilità tra candidati e commissari. Gli esiti, in quest’ultimo caso, sono per lo più negativi, in quanto la giurisprudenza non ritiene i rapporti di collaborazione scientifica con i candidati motivo di astensione da parte del commissario .
Sinora i due passaggi più critici per il genere femminile, quello alla posizione di RtdB e quello alla prima fascia sono di fatto caratterizzati dal massimo grado di discrezionalità concessa agli Atenei. In entrambi i casi l’avvio di una procedura di reclutamento si basa sulla programmazione del singolo Dipartimento. Inoltre, la legge ha per lungo tempo consentito il ricorso alle procedure di chiamata ex art. 24 anche per l’accesso al ruolo di professore, ciò che ha esteso ulteriormente i margini di discrezionalità dei singoli Dipartimenti, che si esprimono sia nella programmazione attraverso la scelta su quale settore, fascia e procedura attivare, sia nella fase di selezione dei commissari, sulla quale, come si è visto, non sussistono stringenti vincoli di incompatibilità con i candidati rispetto ai profili di collaborazione scientifica e accademica. Si è discusso se la programmazione debba essere fondata esclusivamente sulle esigenze didattiche e di ricerca o se debba e possa tenere conto anche del merito individuale, in ogni caso sono stati rari i casi in cui si è riconosciuta una sindacabilità delle scelte di programmazione e di opzione tra le varie forme di reclutamento. Un primo orientamento ha ritenuto che il potere di chiamata da parte delle strutture di Ateneo di uno dei candidati sia “espressione dell'ambito di autonomia che la Costituzione riconosce alle Università, cosicché il sindacato del giudice amministrativo è limitato alla verifica dell'adeguata esposizione delle ragioni della scelta, che avviene "intuitu personae", senza che sia necessaria una motivazione sulla comparazione con gli altri candidati” .
Per alcuni versi, la discrezionalità nelle scelte delle procedure da avviare è stata confermata da Corte cost. n. 165/2020. Chiamata a decidere della legittimità dell’attribuzione agli Atenei della discrezionalità nella scelta se avviare o no le procedure di valutazione per l’immissione nella II fascia dei ricercatori (procedure doverose per gli RtdB e discrezionali per i ricercatori in ruolo), la Corte ha ritenuto la questione non fondata, affermando che “il carattere discrezionale del potere dell’università di chiamata ex art. 24, comma 6, esprime un non irragionevole bilanciamento fra l’interesse dei ricercatori a tempo indeterminato, ai quali è offerto in via transitoria un canale di accesso, alternativo e a partecipazione riservata, alla posizione di professore associato, e l’interesse degli Atenei a operare autonomamente le proprie scelte di reclutamento del personale”. Gli interessi pubblici che giustificano il bilanciamento sono individuati dalla Corte nelle effettive esigenze didattiche e di ricerca, nell’interesse all’uso più consono delle risorse destinate al reclutamento in relazione alle proprie politiche di reclutamento e nella necessità di salvaguardare il prioritario obiettivo di messa a regime del nuovo sistema.
Peraltro, in alcune recenti decisioni, i giudici amministrativi hanno iniziato a porre alcuni limiti alla discrezionalità degli Atenei. Ciò è avvenuto anzitutto con riguardo a quei regolamenti e decisioni di Atenei e Dipartimenti che non subordinavano le procedure ex art. 24 a una valutazione comparativa di tutti i soggetti in possesso dei requisiti. In questo senso il Consiglio di Stato ha affermato che “La rinuncia alla massima concorsualità tipica della procedura aperta, tramite un meccanismo di reclutamento eccezionale riservato agli interni, non significa affatto che tale peculiare forma di reclutamento sia rimessa a valutazioni «libere» (secondo il criterio dell'intuitus personae), né tantomeno che possa avvenire a mezzo di procedure opache” . Già in altra occasione il Consiglio di Stato aveva ritenuto che “ogni limitazione del precetto costituzionale del pubblico concorso, alterando le condizioni di parità di trattamento degli aspiranti, deve considerarsi del tutto eccezionale”, riconoscendo il diritto di tutti i candidati interni alla stessa Università, in possesso dei medesimi requisiti, di essere posti in grado di partecipare alla procedura di reclutamento in condizioni di parità” e negando la costituzionalità di norme che consentano “ad una pubblica amministrazione di potere operare progressioni interne «ad personam»” .
Vi è poi un tema relativo al rispetto dell’equilibrio di genere nella composizione delle commissioni di concorso. La prima questione è se la riserva di posti di almeno 1/3 al genere femminile prevista dall’articolo 57 d. lgs. 165/2001 si possa applicare all’accesso alle carriere universitarie, stante la sottrazione della materia alle disposizioni del d. lgs. 165/01. Inoltre, la norma prevede la riserva di posti in commissione alle donne “salva motivata impossibilità”. Ciò pone la questione se la mancanza, o la notevole scarsità di professoresse ordinarie in determinati settori concorsuali costituisca una valida esimente. La giurisprudenza amministrativa ha in ogni caso ritenuto che né l'art. 57 del d.lgs. 165/2001, né ulteriori documenti di carattere ammnistrativo, quali l’aggiornamento 2017 del piano nazionale anticorruzione dell'ANAC; né l'atto di indirizzo del MIUR n. 39/2018 (che raccomandano alle Università di prevedere nei propri regolamenti che “ove possibile”, sia rispettato il principio delle pari opportunità tra uomini e donne nella formazione delle commissioni giudicatrici") prevedono che l'eventuale violazione di tale principio determini la nullità, l'annullamento o l'inefficacia del provvedimento di chiamata dei docenti.
In ogni caso, l’interpretazione dell’art. 57 è in generale restrittiva: con riferimento ad altri concorsi pubblici il Consiglio di Stato ha infatti più volte affermato che la violazione della norma è rilevante soltanto in presenza di una condotta discriminatoria della commissione in danno dei concorrenti .
Peraltro, il carattere obbligatorio dell’equilibrio di genere delle commissioni esaminatrici si desume dai rinvii contenuti sia nell’art. 18, sia nell’art. 24, l.n. 240/10 alla Carta europea dei ricercatori, di cui alla Raccomandazione della Commissione delle Comunità europee n. 251 dell'11 marzo 2005, che richiede ai datori di lavoro e ai finanziatori di mirare ad un rappresentativo equilibrio di genere a tutti i livelli del personale, sulla base di una politica di pari opportunità al momento dell’assunzione e nelle seguenti fasi della carriera. La Carta infatti prevede espressamente che “per garantire un trattamento equo, i comitati di selezione e valutazione dovrebbero vantare un adeguato equilibrio di genere” e le due norme della l. 240/10 stabiliscono che le procedure sono disciplinate “nel rispetto dei principi enunciati dalla Carta europea dei ricercatori”.
Infine, un’ulteriore problematica in grado di dispiegare rilevanti effetti di genere attiene ai profili c.d. fotografia, che delineano i requisiti dei candidati entrando nel merito di specificità e competenze tecniche particolarmente dettagliate e tali da far sostanzialmente individuare a priori il potenziale vincitore del concorso. Su questo aspetto vi è stato un certo contenzioso e la giurisprudenza ha da tempo riconosciuto la scorrettezza di un simile comportamento e lo ha sanzionato stabilendo con chiarezza che il profilo serve a indicare le specifiche funzioni cui sarà chiamato il vincitore della selezione e hanno finalità meramente informativa, mentre la valutazione dei candidati deve basarsi solo su requisiti attinenti al più ampio settore scientifico disciplinare da prendere in considerazione ; ma è anche vero che il diritto antidiscriminatorio ci insegna come, anche così ridimensionate, simili condotte possano avere l’effetto di far desistere i candidati dal presentare domanda . Sicchè la fotografia indicata nel bando non inficia la validità della procedura e sortisce comunque l’effetto di escludere candidati non graditi.

5. Dal Bilancio di genere alle riforme del Pnrr: quali effetti sulla parità di genere nell’accesso alle carriere?
Abbiamo assistito, nel corso degli ultimi anni, a una serie di interventi di carattere legislativo e amministrativo volti a sollecitare il riequilibrio di genere nell’ambito dell’accademia. Tra i vari provvedimenti ricordiamo anzitutto l’art. 8, d. lgs. 150/2009, che ha inserito le pari opportunità nella valutazione della performance, cui ha fatto seguito l’elaborazione dei bilanci di genere delle Università . Le Linee guida per il Bilancio di genere degli Atenei italiani del gruppo Crui per il Bilancio di genere del settembre 2019, avanzano diverse importanti proposte. Si richiede che il rispetto degli obblighi legali in tema di parità di genere sia considerato ai fini dell’assegnazione della quota premiale del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) (art. 15 d.lgs. 19/2012); di monitorare il tempo trascorso dal conseguimento dell’Abilitazione al momento della chiamata; di rispettare la composizione di genere delle Commissioni di concorso del personale docente e di tenere in considerazione i risultati di genere nell’attribuzione delle premialità e nella valutazione delle performance.
Più recentemente, sulla scia delle politiche europee per la parità e in relazione al nuovo Programma R&I, Horizon Europe, è stato emanato il Vademecum per l’elaborazione del Gender Equality Plan negli Atenei italiani, realizzato dal Gruppo di Lavoro GEP della Commissione CRUI sulle Tematiche di genere, approvato nell'Assemblea Generale della Crui lo scorso 22 luglio 2021 . Il Gep sarà requisito per la partecipazione ai bandi Horizon a partire dal 2022 e indica la “Uguaglianza di genere nel reclutamento e nelle progressioni di carriera tra gli obiettivi prioritari”. Il Vademecum ha senz’altro l’effetto positivo di attivare meccanismi virtuosi volti, quanto meno, ad acquisire conoscenza della problematicità della situazione. Il suo limite è costituito dal fatto che si basa su suggerimenti volutamente non prescrittivi, poiché, si legge, “i processi trasformativi per l’uguaglianza di genere debbono intercettare le specificità dei contesti locali” e promuovere processi che attivino pratiche partecipative, capaci di coinvolgere la governance dell’Ateneo e di valorizzare ricerche, competenze ed esperienze condotte localmente da tutti gli stakeholder”. Infine, nell’ambito di attuazione del d.l. n. 77/21, conv. in l.n. 108/21, che definisce il quadro generale di governance del Pnrr sono state adottate le Linee guida per le iniziative di sistema della Missione 4: Istruzione e Ricerca che assumono particolare rilevanza, in quanto estendono l’obbligatorietà del Gep a tutti i progetti finanziati nell’ambito del Pnrr e l’applicazione anche al reclutamento universitario dei vincoli di rispetto delle pari opportunità di genere e intergenerazionali stabiliti per gli appalti pubblici all’art. 47del citato decreto. Più in specifico le Linee guida prevedono che i progetti debbano obbligatoriamente definire un piano operativo per la promozione delle pari opportunità e integrare, nei campi in cui ciò sia appropriato, la dimensione di genere nelle attività di ricerca e innovazione. La misura più incisiva è contenuta nelle linee di indirizzo destinate ai proponenti, ove si richiede che “almeno il 40% del personale assunto a tempo determinato deve essere di genere femminile e almeno il 40% delle borse di dottorato deve essere assegnato a ricercatrici”.
Tali misure, encomiabili nello sforzo di raggiungere gli obiettivi delle pari opportunità pongono però una serie di problematiche che qui si possono solo accennare. La prima attiene al carattere a tempo determinato delle assunzioni, riferibili, se ben intendo, sia agli assegni di ricerca o ai corrispondenti nuovi contratti di ricerca (su cui v. infra), sia ai contratti di ricercatore. La misura quindi non sembra incidere in modo rilevante sulle Glass Doors presenti nelle carriere accademiche, che come si è visto si trovano all’accesso alle posizioni di RtdB e di professore ordinario. In secondo luogo, occorre chiedersi in quale modo sia possibile conciliare l’obbligo di risultato della garanzia del 40% di posti con le vigenti procedure di concorso e con le attuali, più moderate, regole vigenti in materia di pari opportunità nell’accesso ai pubblici impieghi di cui all’art. 48 Cpo. La via preferibile parrebbe quella di considerare le disposizioni attuative del Pnrr eccezionali rispetto a quelle del Cpo, tali da consentire una esplicita riserva di posti o concorsi espressamente riservati alle donne, che avrebbe il merito di aprire finalmente la strada nel nostro paese ad un effettivo sistema di quote, sia pure con il limite del carattere temporaneo della misura e dell’incidenza solo sull’accesso al lavoro precario. Peraltro una simile interpretazione pare in parte contraddetta della ulteriori disposizioni contenute nella recente riforma dell’accesso alle carriere universitarie, attuata con il d.l. 30 aprile 2022, n. 36, recante ulteriori misure urgenti per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), conv. in l.n. 79/22. Il capo I, intitolato Misure per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza in materia di pubblica amministrazione e Università e ricerca, contiene alcune disposizioni di carattere generale relative al reclutamento e alla mobilità nell’ambito della p.a., al conferimento di incarichi e contratti a termine per l’attuazione degli obiettivi del Pnrr, oltre che misure specifiche per singole amministrazioni e agenzie. Tra queste compare l’art. 14 in materia di Università e ricerca. La norma, di scarsa intelleggibilità per i continui rinvii, contiene vari aggiustamenti della disciplina del reclutamento e dello stato giuridico dei docenti sulle quali non è possibile qui soffermarsi. Per quanto riguarda l’accesso all’accademia, le novità principali, riguardano la riforma dei settori scientifici disciplinari, le procedure per l’abilitazione scientifica nazionale e la figura del ricercatore, con il superamento delle due fattispecie di RtdA e RtdB e il passaggio ad un unico contratto di ricercatore. Per quanto riguarda l’Asn, peraltro, le modifiche sono sostanzialmente rinviate alla decretazione ministeriale, sicchè le dichiarazioni della Ministra a favore del passaggio al sistema di valutazione basato esclusivamente sul raggiungimento delle soglie numeriche di pubblicazioni, sono rinviate alla modifica del decreto ministeriale attuativo, il quale peraltro non potrà sottrarre le competenze già attribuite alle commissioni dall’articolo 16 della l. 240/10.
In linea generale, nell’ambito di un tentativo di stabilizzazione, almeno parziale, delle carriere dei ricercatori, si riconferma la discrezionalità degli Atenei nelle procedure di reclutamento. Questo avviene sia per quanto riguarda i nuovi contratti di ricerca, per i quali le Università disciplinano le modalità di selezione e di conferimento dell’incarico, sia per il nuovo contratto di ricercatore a tempo determinato, della durata di sei anni non rinnovabile, per il quale si confermano le procedure attualmente in vigore.
Rimane invece automatico il passaggio dalla figura di ricercatore a quella di professore con la conferma del dovere dell’Università di valutare, dopo il terzo anno di contratto, su richiesta dell’interessato, il passaggio alla seconda fascia. Rispetto all’analisi di genere svolta con riferimento al Glass door index, si evidenzia il rischio di dover assistere in futuro a un ulteriore slittamento verso il basso della soglia di selezione, nel senso che, come con la riforma del 2010 si è assistito allo spostamento della Glass Door - fino ad allora posta innanzi al ruolo di professore associato - davanti a quello di Rtb, in futuro la porta potrebbe spostarsi ancora più in basso nel passaggio dal contratto di ricerca a quello di ricercatore a tempo determinato. Alcuni effetti di genere potranno altresì verificarsi in relazione alla disciplina transitoria che consente di continuare a stipulare contratti di Rtda per 36 mesi nell’ambito dei progetti relativi al Pnrr. Se si considera altresì la riserva di posti alle donne nell’accesso ai contratti collegati al Pnrr, pare evidente il rischio di un possibile dirottamento delle donne verso gli Rtda e degli uomini verso i nuovi contratti per ricercatore.
Ampi margini di discrezionalità si confermano anche nelle possibilità di chiamata di professori e ricercatori da istituzioni estere a norma dell’art. 1, co. 9, l.n. 230/05, che il nuovo art. 14 rilancia, consentendole anche in deroga alle facoltà assunzionali, durante il periodo di esecuzione del Pnrr. Anche in questo caso i rischi di selezioni avverse al genere femminile non sono irrilevanti, soprattutto per quanto riguarda le professoresse, non incluse nelle riserve di posti previste dalle Linee guida del Mur per l’attuazione del Pnrr. Se ne ha conferma nella recente analisi del Cun relativa alle chiamate dirette ex art. 1, co.9, l.n. 230/05, non soggette ad alcuna procedura di concorso, che ha evidenziato una netta disparità di genere .
Nel complesso, le nuove norme si caratterizzano per la totale assenza di qualunque attenzione alle questioni di genere. L’unica norma del d.l. 36/22 che rileva in materia è il nuovo art. 5, dedicato al “rafforzamento dell’impegno a favore dell’equilibrio di genere”. La norma impone alle amministrazioni di adottare “misure che attribuiscono vantaggi specifici ovvero evitino o compensi non svantaggi nelle carriere al genere almeno rappresentato” stabilendo poi che i criteri di “discriminazione positiva” debbano essere proporzionati allo scopo da perseguire e adottati “a parità di qualifica da ricoprire e di punteggio conseguito nelle prove concorsuali”. La norma rinvia poi la definizione delle modalità di attuazione a (ulteriori?) specifiche linee guida ad adottarsi dai Dipartimenti della funzione pubblica e per le pari opportunità.
Pur non potendosi qui approfondire la quesitone, non si può non sottolineare come la disposizione appaia profondamente deludente, non solo per il linguaggio utilizzato, con l’uso di espressioni - quali discriminazioni positive - in contrasto con tutta l’elaborazione teorica materia, ma soprattutto per la mancanza di risorse e per la cautela con la quale il legislatore si approccia al tema delle quote. Invero, nel complesso la norma sembra presentare tratti addirittura regressivi rispetto all’obbligo di adottare piani di azioni positive già sancito dalla legge 125/91 e ora dall’art. 48 Cpo e anche rispetto alle specifiche disposizioni contenute nel medesimo art. 48 in materia di accesso agli impieghi pubblici, in base al quale, sia per le assunzioni, sia per le promozioni, “a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l’eventuale scelta del candidato di sesso maschile è accompagnata da un’esplicita ed adeguata motivazione”. In conclusione solo la finalità esplicita del rafforzamento dell’impegno a favore dell’equilibrio di genere, consente di escludere che il nuovo art. 5 d.l. 36/22 abbia abrogato le previgenti e per alcuni versi più stringenti norme.

6. Qualche suggerimento per legislatori disattenti e amministratori lenti
I recenti provvedimenti rappresentano l’ennesima conferma del ritmo frustrantemente lento con cui si fanno progressi in materia di equilibrio di genere. Ciò induce a ritenere necessaria una stretta sia sui tempi di realizzazione degli obiettivi di parità, sia sull’incisività delle misure da porre in campo. Occorre anzitutto colmare i limiti delle analisi: verificare ad esempio i tempi di attesa tra il conseguimento dell’Asn e l’effettivo avanzamento in carriera e monitorare attentamente quali saranno gli effetti delle misure adottate nell’ambito del Pnrr, anche in relazione all’accesso alla nuova riforma della figura del ricercatore a tempo determinato.
È evidente in ogni caso che il punto più critico risiede nel momento della programmazione da parte degli Atenei e dei singoli Dipartimenti. Su questi aspetti appare indispensabile proseguire lungo la direttrice già indicata dal gruppo Crui sul bilancio di genere, andando a incidere sul momento principale delle scelte discrezionali. Come si è faticosamente fatto (e pur con risultati sinora deludenti) con riferimento alla rappresentanza politica, occorre insomma introiettare l’idea che l’equilibrio di genere sia un requisito per il buon funzionamento dell’amministrazione pubblica, tanto più in un settore chiave come quello della ricerca e dell’istruzione. Conseguentemente occorrono interventi, normativi e amministrativi, volti a vincolare tutti i finanziamenti pubblici al rispetto degli equilibri di genere e agli obblighi di attivazione delle azioni positive. Analoghi vincoli dovrebbero poi porsi con riferimento alla distribuzione dei punti organico, con provvedimenti volti a penalizzare i Dipartimenti che non raggiungano determinati obiettivi, o con l’attribuzione, per periodi predeterminati e sino al raggiungimento di target prefissati nell’ambito dei piani Gep, di un peso diverso, in termini di punti organico, alle chiamate del genere sottorappresentato.
Si può pensare inoltre, a un piano straordinario di assunzioni di ricercatori riservato alle donne, sempre nei settori in cui il genere femminile sia sottorappresentato in misura rilevante. Per vero, nonostante i tentennamenti del nuovo art. 5, d.l. 36/22, si potrebbe pensare di giungere a un risultato parzialmente analogo anche mediante l’azione giudiziaria. Si allude alle possibilità di intervento dei Consiglieri e delle Consigliere di parità ex art. 37 Cpo, applicabile anche al personale non contrattualizzato, con ricorso innanzi al Tar. L’azione potrebbe basarsi sull’utilizzo dei dati statistici a livello di singolo Ateneo e/o Dipartimento e, ove questi rivelassero la sussistenza di una situazione meno favorevole per il genere sottorappresentato nell’accesso e nelle progressioni in carriera, in assenza di eccezioni dell’Università tali da giustificare l’impedimento, il giudice potrebbe ordinare l’adozione di un piano di rimozione della discriminazione.
Va da sé che misure specifiche sono necessarie con riferimento alle procedure di concorso. Si possono sciogliere i nodi relativi all’applicazione dell’art. 57, d. lgs. 165/01 anche al personale non contrattualizzato e si può rendere obbligatoria la presenza femminile nelle commissioni e garantire che, quanto meno a livello di Ateneo, sia raggiunto un rapporto paritario tra commissari uomini e donne.
Si dovrebbe inoltre rafforzare la regola, contenuta nell’art. 48 Cpo, di richiesta di una motivazione specifica qualora a parità di merito la scelta cada sul candidato di sesso maschile, e allinearsi alle migliori prassi che prevedono al scelta del candidato del sesso sottorappresentato non solo nei casi di valutazioni eguali, ma in tutti i casi in cui i candidati dei due sessi soddisfino i requisiti necessari per coprire l’incarico o, quanto meno, imponendo l’obbligo di specifica motivazione in presenza di tali condizioni.
Un ulteriore aspetto su cui pare fondamentale incidere è quello relativo ai c.d. profili fotografia, che dovrebbero essere eliminati, imponendo l’indicazione nei bandi del solo settore disciplinare ed eventualmente sanzionando la presenza di indicazioni troppo dettagliate.
Infine, l’attuale fase di uscita dalla situazione di pandemia non può far dimenticare gli effetti negativi che questa ha determinato sulla condizione delle giovani studiose. Ove i dati dimostrassero l’impatto negativo, vi potrebbero essere elementi sufficienti per considerare discriminazione indiretta di genere l’utilizzo dei dati relativi al periodo di pandemia ai fini del calcolo delle mediane necessarie per l’accesso all’Asn. Anche a prescindere da tale valutazione giuridica, vi sono sufficienti elementi per ritenere quanto mai opportuna la sterilizzazione dei periodi di pandemia dai calcoli delle mediane, da effettuarsi in modo neutro, nei confronti di tutti i professori e ricercatori di ogni genere.

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