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È quasi impossibile, oggigiorno, discutere dell’uso del femminile dei nomi di professione o delle cariche senza cadere in mistificazioni o degenerare in diverbi. Lo stesso atteggiamento si ritrova più o meno in tutti settori professionali, con una maggior veemenza in quelli nei quali la presenza femminile è più recente, inusuale o comunque minoritaria. Da una parte, che si senta il bisogno di discuterne è un buon segno, perché indica che la questione è “sentita” anche al di fuori del contesto dei linguisti; dall’altra, l’opinione di molte persone – di entrambi i sessi – è ancora oggi troppo spesso viziata da nozioni imprecise o parziali, che diventano un impedimento rispetto alla possibilità stessa di confrontarsi serenamente sulla questione.

1. L’aspetto linguistico

Dal punto di vista linguistico, il “problema” dei femminili professionali non esisterebbe. La nostra lingua, che è una lingua gendered, cioè nella quale ogni sostantivo è di genere grammaticale maschile o femminile, prevede che la distribuzione di genere sia de facto imprevedibile per oggetti inanimati e concetti astratti (in altre parole, non c’è nessun particolare motivo perché la sedia sia di genere femminile e l’armadio di genere maschile); contemporaneamente, il genere grammaticale di un termine riferito ad animali o esseri umani tiene invece conto del genere semantico dell’animale o della persona a cui ci si riferisce. In altre parole, nel caso di esseri animati, il genere della parola segue tendenzialmente quello di ciò che designa: il gatto e la gatta, il sarto e la sarta.
La morfologia della nostra lingua, dunque, prevede già l’esistenza e la formazione, alla bisogna, dei corrispettivi femminili dei termini maschili. Chiaramente, non si tratta di cambiare la -o in -a in maniera automatica e ineluttabile: le regole per la formazione dei femminili variano a seconda del tipo di sostantivo con cui si ha a che fare. In particolare, in italiano esistono quattro tipi possibili di coppie maschile/femminile (ed è bene conoscere questi meccanismi, onde evitare battute sciocche come “e allora io da domani mi definisco pediatro”):
1) I nomi indipendenti o di genere fisso, nei quali il maschile e il femminile sono due sostantivi completamente differenti, come fratello-sorella o bue-mucca;
2) I nomi di genere comune, che possiedono un’unica forma per maschile e femminile, come il/la docente o il/la borsista. Spesso, sono termini che derivano (alla lontana) dal participio presente di un verbo (o latino o italiano), oppure sono termini che finiscono in -a per ragioni etimologiche (astronauta, geriatra). In questi casi, al singolare basterà cambiare l’articolo (ma eventuali aggettivi saranno concordati con il genere della parola); al plurale, talvolta la forma è la stessa per entrambi i generi (i/le docenti), talvolta cambia anche quella (i borsisti e le borsiste).
3) I nomi di genere promiscuo, normalmente riservati ai soli animali, che possiedono un’unica forma per maschile e femminile e per i quali il genere opposto si forma aggiungendo una specificazione al sostantivo: la tigre maschio, il tasso femmina. Potremmo, con una piccola forzatura, includere in questa categoria quei nomi riferiti a esseri umani che hanno solo un genere, a volte perfino incongruo con la persona alla quale sono riferiti: il pedone, la vittima, ma anche la guardia, la spia o il soprano (sempre riferito a una donna, in lirica). Non formiamo *la pedona o *il vittimo e nemmeno *il guardio, *lo spio o *la soprana; nemmeno aggiungiamo “maschio” e “femmina” alla parola; piuttosto, il contesto ci aiuta quasi sempre a comprendere il genere della persona a cui ci stiamo riferendo.
4) I nomi di genere mobile, che formano il loro femminile o con un cambio di desinenza o con l’aggiunta di un suffisso, a seconda del caso. E la casistica, per questo tipo di termini, è molto ampia: abbiamo la coppia o/a come maestro/maestra, la coppia e/a come infermiere/infermiera, la coppia -tore/-trice come direttore/direttrice, la coppia -sore/-sora come incisore/incisora, ecc. Il settore dei nomi di genere mobile è ricco di eccezioni, come doge/dogaressa, dio/dea, re/regina o abate/badessa: per questo motivo, nell’impossibilità di mandare a mente tutti i possibili femminili, conviene sempre fare riferimento a un dizionario sufficientemente aggiornato. Lo Zingarelli, ad esempio, registra più di ottocento forme femminili (sotto i corrispondenti maschili) dall’edizione del 1994. Il Vocabolario Treccani, almeno nella sua versione online, ne riporta qualcuno in meno; in alcuni casi, la forma femminile è lemmatizzata a parte, quindi, prima di decretare che il femminile “non esiste”, è bene cercare entrambe le forme.

2. I femminili “strani”

Ho volutamente usato, negli esempi, tutte forme femminili alle quali siamo ampiamente abituati. I problemi, invece, sorgono quando ci si confronta con femminili “insoliti”, poco sentiti e poco conosciuti, soprattutto quelli professionali, come gestrice, avvocata, assessora, questora, ministra o sindaca. Alcuni li definiscono neologismi e li trattano con lo stesso fastidio riservato generalmente alle parole nuove, che vengono guardate con diffidenza e perplessità. Altri li reputano superflui, o cacofonici, o una corruzione dell’italiano tradizionale. Ma non è propriamente così.
Intanto, si potrebbe dire che i femminili “insoliti” non sono neologismi veri e propri, ma sono forme morfologicamente previste dalle regole della nostra lingua che fino a tempi recenti non erano in uso in quanto non esistevano, “in natura”, le persone che indicano. E noi esseri umani, normalmente, sentiamo il bisogno di nominare ciò che vediamo (o ciò che ci immaginiamo), non ciò di cui non abbiamo esperienza. Siamo abituati a maestro/maestra perché sentiamo queste parole “da sempre”; mentre non siamo abituati ad assessore/assessora perché fino a non troppi anni fa le assessore scarseggiavano, e quindi non si poneva il problema di nominarle.
Per quanto insoliti, questi femminili sono corretti; il fatto che siano forme a oggi poco sentite, però, genera un giudizio non unanimemente positivo, dato che noi esseri umani tendiamo a diventare, piuttosto precocemente, conservatori, soprattutto a livello linguistico: vorremmo che la nostra lingua rimanesse tale e quale a quella che abbiamo imparato a scuola e ogni cambiamento ci destabilizza. L’intelligenza sta nel comprendere che la reazione di fastidio è quasi un riflesso pavloviano, e come tale la si può superare con un minimo di raziocinio. Peraltro, non si pensi che la reazione di fastidio per i femminili sia legata per forza a una bassa scolarizzazione o a scarse competenze comunicative: spesso, una persona “più semplice” (absit iniuria verbis) tenderà a usare istintivamente il femminile professionale (“Cara nipotina, da oggi sei un’ingegnera, giusto?”, dice la nonna alla nipote appena laureata), dimostrando così involontariamente quanto la forma sarebbe di per sé naturale nella coscienza di un parlante medio. Le resistenze sembrano venire da altrove.

3. L’intreccio socioculturale

Dunque, se la questione linguistica può definirsi chiara, da dove nascono tutti i problemi e tutte le remore che sembrano ostare all’uso pacifico dei femminili professionali, anche nel settore forense? Più che linguistici in senso stretto, i problemi appaiono essere di natura sociale e culturale. Come spiega Maria Pia Ercolini (Il sessismo linguistico a scuola, in Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole, a cura di M.S. Sapegno, Carocci, Roma 2010, pp. 135-152, a p. 140), «La grammatica dice chiaramente come formare il femminile: Se certi femminili grammaticalmente corretti […] “suonano male” o sono avvertiti come meno “prestigiosi” dei corrispondenti maschili, il problema non è nella grammatica, bensì nel pensiero (sessista) di cui il linguaggio è veicolo. Le forme come “giudice donna” sono inaccettabili, come lo sarebbe “uomo casalinga”, di cui è più facile avvertire l’inadeguatezza. […] Solo da pochi decenni le donne occupano posizioni prestigiose, in precedenza esclusivamente riservate agli uomini. L’ambiguità lessicale nel designarle rivela la difficoltà di accettare come normale un fatto che è ancora percepito come anomalo o eccezionale. Se alcuni agentivi femminili sembrano “ridicoli”, ciò non dipende dai vocaboli, ma dai pregiudizi di cui siamo portatori e che quei vocaboli vanno a intaccare. Sembra il nome a suonare strano, ma in realtà è il significato a destare la diffidenza. In tali casi è bene consultare sempre la grammatica e stare attenti: se una parola corretta “suona male”, è la spia di un pregiudizio sessista latente».

4. Il peso della tradizione

Siamo, dunque, (quasi) tutti e tutte sessisti, in maniera più o meno esplicita? Mi piace pensare che tendiamo piuttosto a essere abitudinari; un mio commentatore su Facebook, qualche giorno fa, ha parlato di “inerzia delle parole”: ci abituiamo a usarne certe, o a usarle in un certo modo, e ogni cambiamento diventa difficile da digerire. E soprattutto in contesti lavorativi tradizionalmente maschili: il “si è sempre detto così” viene spesso usato come clava, come giustificazione per resistere al cambiamento, anche da parte delle donne.
Tuttavia, quando si invoca la tradizione, si dovrebbe tenere conto del fatto che le lingue vive cambiano al cambiare della realtà. E se la realtà è cambiata, nel senso che le donne oggi possono accedere (o possono accedere più facilmente) a carriere e posizioni dalle quali prima erano o del tutto escluse o era presenti in maniera fortemente minoritaria, è naturale che la lingua – prodotto della coscienza dei parlanti – tenga conto di questo cambiamento. Tra l’altro, il cambiamento non è certo iniziato di colpo pochi anni fa: diciamo pure che la lingua si è sempre comportata così (anche nel latino medievale, nota la linguista Maria Pia Marchese, si coniavano nomina agentis femminili “alla bisogna”, cioè quando un ruolo normalmente riservato ai maschi si trovava a venire ricoperto da una donna), e che molti femminili professionali (o nomi di ruoli al femminile) sono entrati nell’uso senza grosse levate di scudi (penso, ad esempio, a deputata o senatrice, che trent’anni fa erano ancora insoliti). Per chi dovesse pensare che queste istanze siano derubricabili come “boldrinate”, giova ricordare che uno dei primi documenti in cui si parla di linguaggio di genere in Italia in forma approfondita è rappresentato dalle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, a cura di Alma Sabatini, che risalgono al 1987). Chi le leggesse, scoprirebbe che Sabatini era molto più “estremista” rispetto alla maggior parte delle persone che oggi promulgano l’uso dei femminili professionali.
La consuetudine, peraltro, sembra venire invocata molto meno nel caso opposto, ossia quando è un uomo a ritrovarsi in un ruolo professionale tipicamente femminile, come l’ostetrico o l’estetista (che, se maschio, sarà bravo, mica brava) o il parrucchiere (temporibus illis c’erano i barbieri e le parrucchiere, ricordiamolo).
La differenza nelle reazioni rispetto ai “nuovi femminili” e ai “nuovi maschili” sembra il segnale di qualcosa di sotteso: ossia un’asimmetria esistente, ancora oggi, tra uomini e donne in ambito lavorativo (e non solo). L’uso dei femminili diventa quasi per forza una “rivendicazione”, mentre i maschili sono semplicemente consequentia rerum. Per quanto mi riguarda, l’uso dei femminili, in una situazione ottimale, non dovrebbe essere una rivendicazione: se chiamare infermiera un’infermiera non è “ideologico”, non dovrebbe esserlo nemmeno chiamare ingegnera un’ingegnera. Tuttavia è innegabile: considerato il ruolo (percepito più che reale) della donna nella società italiana odierna, i nomina agentis al femminile diventano per forza una rivendicazione; e questo è, contemporaneamente, il punto di forza dell’istanza e il suo tallone d’Achille, perché come ogni questione che si vena di tratti ideologici incontrerà il favore di una parte della società e lo sfavore di un’altra.
E così, ancora oggi, per una donna definirsi ministra è diventato “di sinistra” e dire di essere ministro “di destra”. La questione linguistica si incrocia giocoforza con altri piani, soprattutto quello sociale, come dicevamo poc’anzi, ma anche quello culturale e politico.

5. Le reazioni dei parlanti

Sovente, la reazione di molti maschi rispetto a tutta la questione analizzata è di “non vedere il problema”, anzi, di considerarlo alla stregua di un capriccio femminile: “A me non importa il genere della persona che ho di fronte, basta che sia brava, quindi mi è indifferente come si appelli”; questo, può sicuramente essere frutto di un pensiero sincero da parte dell’uomo; ma il punto è che rimane una questione che lo riguarda indirettamente (non è egli stesso una donna, non dovrà mai chiedersi se sarà meglio farsi appellare al maschile o al femminile), per cui in molti casi farà più fatica a capirne le motivazioni profonde.
Parallelamente, è interessante la reazione, spesso ambivalente, di molte donne che si misurano con l’istanza. Non poche rifiutano, infatti, la denominazione al femminile, in maniera particolarmente accesa proprio nel contesto forense, dove molte professioniste dicono “io voglio essere chiamata avvocato”; “esigo di essere il giudice”. Le motivazioni fornite vanno spesso da “ho faticato tanto per arrivare al titolo di avvocato, non lo voglio svilire/annacquare/rovinare con quella a” a “io valgo in quanto avvocato, indifferentemente dal mio sesso: non ho bisogno della a” all’intramontabile “i problemi delle donne sono ben altri”. In tutti questi casi, quasi sicuramente le stesse persone non si pongono alcun problema a nominare al femminile una sarta, una cassiera, un’operaia, ma anche una regina o una imperatrice. Come mai questo meccanismo mentale scatta solo con determinate professioni (di solito la propria)?
Osserviamo le frasi che ho citato come esempio (tratte da interazioni realmente capitatemi). In esse, è la donna stessa a sentirsi squalificata dall’uso del femminile, come se al titolo professionale maschile venisse dato un valore maggiore. Il che, però, ci racconta molto dell’autopercezione della donna in questi ambiti professionali: sentendosi “meno” del maschio, ecco che preferisce essere nominata come il maschio. Il tutto nasce dall’idea che sia più paritario essere nominate al maschile: “il genere non conta”. Tuttavia, a essere davvero precisi, il genere arriverebbe a non contare se chiamassimo le professioniste al femminile esattamente come chiamiamo al femminile, senza alcuna esitazione, le donne in professioni in cui siamo abituati alla loro presenza (a volte, peraltro, cadendo nel tranello dello stereotipo opposto: quella dell’asilo è spesso automaticamente maestra, anche se esistono docenti di sesso maschile). Insomma, se a noi donne davvero non importasse niente della questione di genere, ci definiremmo serenamente al femminile in qualsiasi campo, senza alcuna remora. Al momento, le cose non stanno proprio così.
L’altra questione ostativa, per molte professioniste, è che richiedere (o pretendere) di essere appellate al femminile comporta molto spesso di essere additate come “femministe”. Comprendo il timore, che soprattutto in alcuni ambienti può avere conseguenze spiacevoli (anche se trovo brutto che essere femministe possa essere considerato deleterio, dato che si tratta, nella sostanza, di dichiararsi a favore di una parte della popolazione che non ha ancora esattamente gli stessi diritti dell’altra, checché ne dica la giurisprudenza); tuttavia ritengo che si potrebbe smettere di pensare che essere chiamata avvocata sia in qualche modo più “femminista” che essere chiamata professoressa. In entrambi i casi, si tratta della semplice conseguenza dell’essere donna. L’unico vero discrimine tra i due casi, come già detto, è l’abitudine.
Personalmente, ho incontrato molte avvocate che fanno esattamente i ragionamenti di cui sopra, tra l’altro spesso con poca serenità (cioè assumendo una posizione di difesa, magari con un pizzico di aggressività). Ora, dalla trattazione fino a questo punto dovrebbe essere ormai evidente che il problema non riguarda la lingua o la norma linguistica, ma qualcosa di diverso. Normalmente parlo di questioni sociali o culturali, ma in ultima analisi si potrebbe concludere che ci sono motivi ostativi di natura anche psicologica. So che leggendo queste righe molte avvocate si potranno sentire tirate in causa; io non ho intenzione di dire a nessuno che sta sbagliando, perché penso che sia un atteggiamento poco generativo. Vorrei solo invitare chi si sente colpito dalle mie affermazioni a fermarsi un attimo a riflettere sulla possibile radice delle reazioni di fastidio alla questione dei nomina agentis al femminile. Penso che la strada della riflessione sul proprio caso sia l’unica strada per uscire dalla empasse in cui molte si sentono incastrate.
Un altro motivo per cui non sono in assoluto avversa alle donne che vogliono farsi appellare al maschile si trova nel passato. È necessario infatti assumere per un attimo una prospettiva storica e ricordare che il femminismo stesso è fatto di correnti differenti. In particolare, esiste una corrente storica che ha ricercato, e forse ancora ricerca, la parità nell’uguaglianza assoluta (e quindi ritiene rilevante adottare il maschile sovraesteso), mentre un’altra corrente, più recente, ritiene più utile ricercare la parità nella differenza – e conseguentemente trova più naturale e corretto l’uso del femminile ogni volta che serve. Non siamo qui per decidere chi abbia ragione: in fondo, rendiamoci conto che entrambe le correnti sono alla ricerca dello stesso risultato, ossia la parità tra i sessi; il fatto di volerci arrivare in maniere diverse non inficia che l’obiettivo sia comune.

6. Cacofonie e incostituzionalità

Tornando un attimo sulla mera discussione linguistica, il giudizio di bruttezza o cacofonia che spesso tocca queste forme femminili lascia, letteralmente, il tempo che trova: nella lingua comune, infatti, le parole non vengono usate in base all’eufonia, ma piuttosto in considerazione al livello di utilità percepita. Finché non siamo in ambito poetico o letterario, la bruttezza di una parola è irrilevante, tanto che nessuno si lamenta per la cacofonia di dispregiativo o di transustanziazione. Il giudizio estetico personale, poi, pesa in maniera davvero relativa su un intero costume linguistico (come del resto il ricorso all’esperienza personale: “Conosco due donne che fanno gli avvocati e voglio essere chiamate al maschile…”).
A parte il giudizio di cacofonia, che potremmo definire basic, una delle obiezioni apparentemente colte più comuni è dire che “i ruoli sono neutri” o che “le cariche pubbliche sono neutre”, o, addirittura, che “cambiare le denominazioni dei ruoli al femminile è incostituzionale”. A ben vedere, abbiamo a che fare con un non sequitur: non c’è bisogno di cambiare nome ai ruoli – cioè si può continuare a parlare di “ruolo dell’avvocato”, “ruolo del giudice” o “incarico di professore” – per poi usare, come appellativo per rivolgersi a una donna, le denominazioni avvocata, giudice e professoressa. Il lavoro potrà anche essere neutro, ma le persone che lavorano, normalmente, hanno un genere.

7. Un giudizio da linguista

Quale sarebbe, dunque, l’atteggiamento giusto nei confronti dei femminili professionali? Dal mio punto di vista di linguista, non posso che confermare la loro correttezza. Tuttavia, poiché ho ben chiaro che alla questione linguistica si sovrappongono resistenze culturali e sociali e perfino semplici questioni di gusto, troverei sbagliato imporne l’uso: ritengo che ogni persona – soprattutto ogni donna – debba per quanto possibile poter per sé cosa preferire come appellativo.
Il mio orientamento è sempre stato quello di favorire i femminili professionali, perché ritengo che nominare le donne che lavorano tramite i nomina agentis declinati al femminile contribuisca non solo ad accrescerne la visibilità in campo professionale, ma anche a normalizzarne la presenza: se è vero che si nomina ciò che si vede, è anche vero che ciò che viene nominato si vede meglio. Dunque, cerco di non giudicare chi preferisce farsi appellare al maschile, ma appoggio chi invece si vuole fare appellare al femminile, e invito tutti a fare altrettanto: prendere in giro chi la pensa diversamente è un atteggiamento che non porta da nessuna parte.

8. Alcuni nomi professionali di ambito forense

Caliamoci infine nell’ambito specifico delle professioni forensi e vediamo alcuni tra i mestieri più comuni dell’ambito, al maschile al femminile.
Il femminile di avvocato è avvocata. Come mai non avvocatessa, che pure ha avuto una sua circolazione? I femminili in -essa nascono in un momento storico della nostra lingua nel quale si era sentito il bisogno di indicare il femminile con quel suffisso tutto sommato ingombrante, -essa, che tra l’altro spesso era usato per indicare la “moglie di” (sindachessa) o veniva usato in senso dispregiativo (ostessa). Per questo motivo, i linguisti (e le linguiste) consigliano, per i femminili non ancora stabilizzati nell’uso, di preferire il suffisso zero: avvocata invece di avvocatessa. Avvocata, peraltro, è di antichissima tradizione, tanto che si trova anche nel Salve Regina (nella quale la Madonna viene definita avvocata nostra). Sempre per una questione di praticità linguistica (è sempre molto difficile modificare usi già acclimatati) si consiglia di non intervenire su dottoressa, professoressa o studentessa, anche se sarebbero possibili le forme dottora, professora e (la) studente. Troviamo traccia di tutto questo ragionamento anche nel Vocabolario Treccani, che chiosa: «Per indicare una donna che esercita l’avvocatura nell’uso giuridico è usato il maschile avvocato, ma sono sempre più frequenti, nell’uso com., i femminili avvocata e avvocatessa, quest’ultimo anche per indicare scherzosamente la moglie di un avvocato, o una donna che ha la parlantina sciolta, che si accalora nel discorrere e nel sostenere le ragioni proprie o altrui».
Il femminile di cancelliere è cancelliera. Abbiamo già il caso famoso della cancelliera Angela Merkel (in tedesco Bundeskanzlerin); anche la persona che sta a capo dell’ufficio della cancelleria può avere lo stesso titolo di Merkel, al femminile.
Il femminile di consulente tecnico è consulente tecnica. Cambia il genere dell’aggettivo, mentre consulente, come docente o insegnante, rimane invariato, modificandosi solo l’articolo. Le sciocchezze come *consulenta, come il famoso *presidenta coniato per prendere in giro Laura Boldrini, lasciano il tempo che trovano. Quella di Boldrini presidenta non è altro che una bufala inventata per screditare lei e le sue rivendicazioni. Peraltro, nessuna persona che si dichiara a favore dei femminili professionali userebbe mai presidenta, che è diventata, in italiano, una forma tenuta in vita soltanto dai suoi oppositori.
Il femminile di giudice è la giudice. Come preside, il termine rimane invariato e cambia solo l’articolo. Esiste, storicamente, il termine giudicessa o giudichessa, usato da Eleonora D’Arborea in Sardegna (ma stiamo parlando del XIV secolo). Oggi basta dire la giudice. E il giudice istruttore? Facile: la giudice istruttrice. Nonostante la semplicità dell’articolo al femminile, nota ancora Patrizia Bellucci nel 2015 che «Le donne che si fanno chiamare ‘la giudice’ – a maggior ragione nei lessemi composti ‘giudice delle indagini preliminari’ e ‘giudice dell’udienza preliminare’ – restano ancora una sparuta minoranza».
Il femminile di magistrato è magistrata. Sarebbe da evitare la forma la magistrato o il magistrato donna o la donna magistrato, perché non serve a nulla moltiplicare le forme.
Il femminile di perito di parte è perita di parte, come confermato dallo Zingarelli. Suona sicuramente insolito, ma è la forma corretta. Per chi si lamenta del fatto che perita è polisemico e ricorda “la morta”, ricordo che anche perito ha più significati; solo che, siccome il nostro orecchio vi è abituato, lo notiamo meno.
Il femminile di presidente di tribunale è, ovviamente, la presidente di tribunale. Di presidente, derivato dal latino praesidĕnte(m), participio presente di praesidēre ‘proteggere, governare’, abbiamo già parlato, chiarendo che in italiano *presidenta non è necessario (così come non diciamo *insegnanta o *gerenta); la presidente è meglio di la presidentessa perché questa forma veniva spesso usata per indicare la moglie del presidente.
I femminili di procuratore legale e procuratore della Repubblica sono procuratrice legale e procuratrice della Repubblica. Ancora una volta, troviamo conferma nei dizionari; non è necessario usare la forma procuratora, che pure sarebbe possibile, dato che abbiamo già procuratrice, ed è meglio non creare forme sovrabbondanti.
Il femminile di pubblico ministero è meno scontato: Bellucci 2015 suggerisce la pubblica ministera, ma Robustelli 2016 propone la pubblico ministero. In ogni caso, ce la possiamo cavare più facilmente con la sigla, la PM.
Infine, ecco il dilemma del sostituto procuratore: occorre riferirsi al genere della persona che sostituisce o della persona sostituita? Un buon parametro generale è quello di concentrarsi sul genere della persona che deve portare l’appellativo: se è donna, che sia la sostituta procuratrice, senza soffermarsi sul genere della persona di cui è sostituta. Allo stesso modo il sostituto di sesso maschile di una procuratrice sarà comunque un sostituto procuratore.

9. Una speranzosa conclusione

Sabino Cassese, nel suo Codice di stile del 1993, scriveva: «il fatto che in italiano il genere grammaticale maschile sia considerato il genere base non marcato, cioè […] valido per entrambi i sessi, può comportare sul piano sociale un forte effetto di esclusione e di rafforzamento di stereotipi. […] l’amministrazione pubblica, attraverso i suoi atti, appare un mondo di uomini in cui è uomo non solo chi autorizza, certifica, giudica, ma lo è anche chi denuncia, possiede immobili, dichiara, ecc.» (qui citato da Bellucci 2015). Forse è ora, nel 2020, che tutto questo cambi, e che anche il mondo forense espliciti, attraverso i nomina agentis al femminile, l’importante presenza delle donne al suo interno.

 

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