TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il principio di effettività della tutela nella proposta di Direttiva sul lavoro tramite piattaforma.

Il Capo V della proposta di Direttiva relativa al lavoro mediante piattaforme digitali declina in termini specifici per la materia il principio di effettività della tutela, così come positivizzato dagli art. 47 della Carta di Nizza e 19 del Trattato sull’Unione europea.
Anzitutto, tale principio si concreta nella conferma, in seno all’art. 13, di un diritto al ricorso effettivo, un diritto all’accesso a una risoluzione delle controversie efficace e imparziale, nonché a una compensazione adeguata, anche – si precisa – dopo la cessazione del rapporto di lavoro o altro rapporto contrattuale . La previsione di un diritto al rimedio adeguato deve, d’altra parte, leggersi in raccordo con l’art. 19, comma 3, che nel fissare i classici e concorrenti requisiti di dissuasività, proporzionalità ed effettività dell’apparato sanzionatorio impone agli stati di configurare in tal senso ogni strumento che compone l'apparato rimediale, sia esso a contenuto inibitorio, ripristinatorio o risarcitorio.
Si può solo richiamare, in questa sede, la riflessione sul carattere poli-funzionale che il risarcimento del danno può assumere in questa prospettiva: la declinazione del parametro della dissuasività previsto dalle fonti Ue costituisce una sede in cui può realizzarsi la proiezione del risarcimento oltre il versante compensativo-riparatorio verso il versante preventivo della deterrenza e dissuasione nonché quello sanzionatorio-punitivo . Tale proiezione è dettata dall’obbligo di interpretazione conforme a cui, in ogni caso, il giudice è chiamato, al di là delle scelte di implementazione interna operate dallo stato in sede di trasposizione della direttiva.
Si può solo citare, in questa sede, anche la questione dell’efficacia diretta del principio di proporzionalità delle sanzioni sancito dall’art. 49 della Carta di Nizza, come da ultimo affermato dalla Corte di giustizia in relazione a un caso di sanzioni amministrative irrogate dall’ispettorato del lavoro austriaco a seguito di controlli su lavoratori distaccati . Quello che afferma la Corte è che non solo, in virtù di tale effetto diretto, il giudice è tenuto a disapplicare le disposizioni interne sanzionatorie contrastanti ma è chiamato altresì a ridurre le sanzioni a un livello compatibile con il principio .
Il principio di effettività della tutela si traduce, all’interno della proposta, anche nella previsione di un’azione rappresentativa su mandato degli enti esponenziali, qualificati dalla titolarità di un legittimo interesse alla difesa, in conformità ai criteri stabiliti dal diritto o dalle prassi nazionali . L’art. 14 prevede, nello specifico, che tali enti possano agire per conto o a sostegno di una o più persone, con l’approvazione di esse, in questo individuando certamente un’ipotesi di rappresentanza processuale volontaria e, parrebbe, un’ipotesi di intervento ad adiuvandum, come quelli di cui ai nostri artt. 105, co. 2 cpc o art. 425 cpc. Come spiega il Considerando n. 44, ciò «permette di agevolare i procedimenti che altrimenti non sarebbero avviati a causa di ostacoli procedurali e finanziari o per timore di ritorsioni» .
Al pari di quanto avviene nel contesto delle direttive antidiscriminatorie, la proposta tace invece sulla possibilità di un’azione rappresentativa senza mandato . Come ci insegna, tuttavia, la giurisprudenza della Corte di giustizia relativa proprio alle direttive antidiscriminatorie , nulla vieta agli stati membri di introdurre disposizioni più favorevoli, qui ai sensi dell’art. 20, e riconoscere in capo agli enti esponenziali la legittimazione ad esercitare un’azione rappresentativa senza mandato, o in veste di sostituti processuali dei soggetti titolari del diritto violato o quali titolari di un’azione iure proprio per la tutela di un interesse collettivo o degli interessi di un gruppo omogeneo di soggetti, anche non direttamente identificabili.
Quel che è interessante osservare in seno alla proposta è che all’art. 15, in termini strumentali anche all’esercizio dell’azione rappresentativa degli enti, si pone l’obbligo di garantire la creazione da parte delle piattaforme di canali di comunicazione tra le persone che svolgono il lavoro mediante la piattaforma, in modo che esse possano non solo contattarsi e comunicare ma anche essere contattate dai rappresentanti. Come spiega il Considerando n. 45, ciò si rende necessario stante «la mancanza di un luogo di lavoro comune». Per i lavoratori subordinati, l’applicazione di questo sistema va raccordata anche alla specifica garanzia di diritti collettivi di informazione e consultazione di cui all’art. 9 . Chiaramente, l’obbligo di creazione dei canali di comunicazione è accompagnato dal divieto per le piattaforme di accedere ai contatti e alle comunicazioni e di monitorarli, nonché dall’obbligo di assicurare il rispetto della normativa sul trattamento dei dati personali.
A presidio dell’effettività della tutela, si pone anche l’art. 16, ai sensi del quale, nei procedimenti volti ad accertare la corretta qualificazione del rapporto, l’autorità competente a decidere può ordinare alla piattaforma la divulgazione, meglio sarebbe dire l’esibizione, di qualsiasi prova pertinente che rientri nel suo controllo. Comprese, qualora ci si collochi in un procedimento giudiziario, prove che contengono informazioni riservate, con obbligo per l’organo giurisdizionale di disporre misure efficaci per proteggerle .

1.1. Contemperamento del principio dispositivo istruttorio e bilanciamento con diritto d’autore sul software e tutela del segreto industriale.

Molteplici sono le considerazioni che l’art. 16 sollecita.
Anzitutto, letta in controluce con le regole che sanciscono la presunzione legale relativa di subordinazione, tale disposizione permette di sottolineare come il meccanismo presuntivo esoneri il ricorrente dall’onere di provare il fatto presunto, ma non anche da quello di allegare e provare i fatti-indice su cui si basa la presunzione. Nel caso della direttiva, il meccanismo presuntivo trova applicazione nel momento in cui si accerti l’esistenza di almeno due dei fatti-indice indicati nell’art. 4, comma 2. A quel punto, stante l’effetto giuridico innescato, il giudice dovrà considerare accertato il fatto presunto, ossia la natura subordinata del rapporto, fin quando la parte contro cui opera la presunzione non dimostri il contrario.
Solo in una prospettiva che evidenzia come i fatti-base della presunzione restino bisognosi di prova si può comprendere l’utilità dell’art. 16 , che nel prevedere il possibile ordine di esibizione delle prove al convenuto stabilisce un contemperamento, una deroga al principio dispositivo istruttorio, a ulteriore vantaggio della parte ricorrente e in collegamento con il principio di prossimità/vicinanza della fonte di prova, che già giustifica l’inversione dell’onere, come precisa il considerando n. 28. Il contemperamento del principio dispositivo istruttorio si realizza, ai sensi dell’art. 16, in termini per alcuni aspetti simili se non ancor più accentuati rispetto al modello che possiamo trarre a livello interno dal combinato disposto degli artt. 210 e 421 c.p.c. .
Qualche perplessità solleva l’interazione dell’art. 16 con l’art. 5, comma 3, concernente l’azione del lavoratore volta a riqualificare il rapporto come autonomo. La proposta prevede, nello specifico, l’obbligo della piattaforma di prestare assistenza a tal fine. Anche lasciando da parte il dubbio sull’utilità di una siffatta previsione, incoerente con la logica degli interessi sottesa alla previsione del meccanismo presuntivo, si può rilevare come tale obbligo di assistenza risulti assorbito dall’obbligo di esibizione previsto più in generale dall’art. 16.
Una terza considerazione riguarda la rete di fonti normative di matrice europea che la direttiva può intercettare laddove, nel contesto dell’art. 16, limita l’esibizione alle prove su cui la piattaforma abbia controllo e permette di ordinare l’esibizione in giudizio anche di informazioni riservate, con garanzie per la loro protezione. Nello specifico, si può riflettere sulla necessità di un confronto con le fonti Ue in tema di diritto di autore, in particolare sul software, e di segreto industriale. Una necessità che la stessa proposta evidenzia al considerando n. 33, laddove chiarisce che «le piattaforme non dovrebbero essere tenute a rivelare dati dettagliati che contengono segreti commerciali o sono protetti da diritti di proprietà intellettuale e ciò nondimeno tali considerazioni non dovrebbero condurre a un diniego a fornire tutte le informazioni prescritte».
Rinviando ad altra sede una più puntuale riflessione, basti qui ricordare che più volte la Corte di giustizia ha affermato che il diritto di proprietà intellettuale, sancito dall’art. 17, paragrafo 2, della Carta di Nizza, non è intangibile e deve essere bilanciato con gli altri diritti fondamentali, tra i quali figura il diritto ad un ricorso effettivo garantito all’art. 47 della Carta, diritto che «sarebbe seriamente compromesso se il titolare di un diritto fosse in grado di opporsi alla comunicazione di elementi di prova ad un organo giurisdizionale per il solo motivo che tali elementi di prova contengono un oggetto protetto a norma del diritto d’autore» .
Vi è anche da dire che rispetto ai diritti d’autore sul software, parte della dottrina ritiene che l’ostensione del codice-sorgente costituisca, in questo bilanciamento, una misura di eccessivo pregiudizio, che non rispetta il test di proporzionalità: da un lato, espone il titolare dei diritti di proprietà intellettuale al grave rischio di vanificare definitivamente le libertà di iniziativa economica connesse alla commercializzazione del software; dall’altro, rischia di non soddisfare le esigenze di difesa, posta la non intelligibilità del linguaggio utilizzato e l’interesse del soggetto non tanto ad apprendere il funzionamento tecnico-informatico del programma, quanto a conoscere informazioni sulla logica che muove il sistema e che risulta sottesa alla decisione algoritmica . Questo è tanto più rilevante nel contesto che ci occupa posto quanto chiarito dal considerando n. 31 della proposta, ossia il fatto che le disposizioni del Regolamento UE 2016/679 (General Data Protection Regulation - GDPR) relative alla disclosure sulla logica utilizzata sono sostituite dalle norme più specifiche della direttiva. All’art. 6 si fa in particolare riferimento a «i principali parametri di cui [i sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati] tengono conto e l'importanza relativa di tali principali parametri nel processo decisionale automatizzato» (comma secondo) nonché alla necessità che «le informazioni [siano] presentate in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, utilizzando un linguaggio semplice e chiaro» (comma terzo).
Accanto alla questione del diritto d’autore, il considerando n. 33 citato affianca la connessa questione del segreto industriale. Al riguardo, si può ricordare che la direttiva in materia (dir. 2016/943, recepita nel d.lgs. n. 30/2005, cd. codice della proprietà industriale) prevede l’apprestamento di specifiche garanzie a tutela della riservatezza dei segreti commerciali nel corso di giudizi relativi alla loro acquisizione illecita (art. 9 dir. 2016/943; art. 121 ter, d.lgs. n. 30/2005). Tra questi, possono essere ricordati la limitazione dell’accesso ai documenti e alle udienze a categorie ristrette di persone e l’oscuramento di parti nei provvedimenti che definiscono i procedimenti.
Anche considerata la possibilità che il giudice applichi tali garanzie al di fuori dei giudizi citati in virtù delle regole e dei principi del processo civile ordinario, rimane problematico il contemperamento tra tutela del segreto e tutela del contraddittorio, se solo si pensi alla costruzione della motivazione di una sentenza che debba basarsi necessariamente su dati coperti da segreto.

1.2. Le tutele contro le ritorsioni.

Per concludere, sempre a presidio del diritto a un ricorso effettivo, si pongono alcune disposizioni volte a tutelare il soggetto ricorrente da azioni ritorsive della piattaforma. Trattasi di disposizioni che, nel prevedere anche in questo caso un favor sotto il profilo probatorio, riproducono un modello più volte utilizzato dal legislatore europeo a tutela del lavoratore, nel contesto ad esempio del diritto antidiscriminatorio così come da ultimo nella direttiva sulla conciliazione vita-lavoro. Nello specifico, l’art. 18 dispone che qualora il ricorrente presenti fatti in base ai quali si può presumere che un licenziamento o misure equivalenti (come la disattivazione dell’account ) siano stati adottati in conseguenza dell’esercizio di diritti previsti in seno alla direttiva, incomba alla piattaforma di lavoro digitale dimostrare che il licenziamento o le misure equivalenti fossero basati su motivi diversi. Si consente peraltro allo stato membro di introdurre un regime probatorio ancor più favorevole. Nello schema previsto dalla direttiva si può individuare un’inversione parziale dell’onere probatorio, che si attiva e determina uno spostamento del rischio di mancata prova sul convenuto al raggiungimento da parte del lavoratore di una prova semi-piena dei fatti costitutivi della fattispecie dedotta in giudizio, una prova di probabilità “attenuata”.

 

2. Dimensione transfrontaliera della controversia e raccordo con il diritto internazionale privato.

La ricostruzione sistematica delle possibili azioni giudiziarie esperibili in caso di violazione dei diritti previsti dalla direttiva, nel raccordo con le disposizioni del GDPR richiamate, è un’operazione che presenta una sua specifica utilità soprattutto se si considera la prospettiva di una possibile articolazione transfrontaliera della controversia.
Possiamo distinguere i ricorsi individuali esercitati dal lavoratore subordinato o che intende essere riqualificato come tale, i ricorsi individuali esercitati dal lavoratore autonomo limitatamente alla violazione delle disposizioni in materia di accesso alla trasparenza e al riesame umano nonché monitoraggio umano dei processi automatizzati, le azioni rappresentative degli enti esponenziali, con mandato o senza mandato, se eventualmente previste, queste ultime, a livello nazionale.
Sia l’art. 13, sul ricorso individuale, sia l’art. 14, sull’azione dell’ente con mandato, fanno salve le corrispondenti disposizioni del GDPR. Il primo richiama l’art. 79, che sancisce il diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo nei confronti del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento. Il secondo richiama l’art. 80, che, al primo comma, stabilisce il diritto dell’interessato di conferire agli enti mandato per esercitare per suo conto il diritto al ricorso; al comma secondo attribuisce agli stati membri la facoltà di riconoscere in capo agli enti esponenziali una legittimazione ad agire indipendentemente dal mandato, quindi la legittimazione ad esercitare un’azione rappresentativa senza mandato, in veste di sostituto processuale o iure proprio a tutela di un interesse collettivo, omogeneo, comune al gruppo degli interessati . Al riguardo, pare opportuno evidenziare come la Corte di giustizia abbia chiarito che ai fini dell’esercizio dell’azione rappresentativa senza mandato di cui all’art. 80 comma 2, GDPR non si può richiedere che l’ente proceda alla previa identificazione individuale delle persone specificamente interessate dal trattamento asseritamene contrario al Regolamento: la nozione di interessato, al fine dell’azione rappresentativa, è da intendersi come comprensiva anche di “una persona fisica identificabile”, ossia una persona fisica “che può essere identificata”, direttamente o indirettamente. Anche la designazione di una categoria o di un gruppo può essere sufficiente. Inoltre, l’esercizio dell’azione rappresentativa, di cui al secondo comma, non è subordinato all’esistenza di una violazione concreta, bastando che il trattamento controverso sia idoneo a pregiudicare i diritti che persone fisiche identificate o identificabili si vedono riconosciuti .
Pare opportuno evidenziare che l’opzione facoltativa individuata dal Regolamento all’art. 80 non è stata esercitata dall’ordinamento italiano, che non solo a livello interno, all’art. 141, comma 2, d.lgs. 196/03, prevede solo un’azione rappresentativa con mandato, ma limita addirittura il riconoscimento della legittimazione ad agire alle organizzazioni del terzo settore (enti del terzo settore soggetto alla disciplina del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117), con la stessa contestabile scelta operata a livello di regolamento attuativo per l’azione di classe e l’azione inibitoria collettiva introdotte dalla l. n. 31/2019 . Nel caso della disciplina sul trattamento dei dati, pare d’altra parte potersi riscontrare un contrasto con il dettato europeo, di più ampia portata, peraltro direttamente applicabile (ai sensi dell’art. 80 comma 1 GDPR, è sufficiente che l’ente abbia obiettivi statutari di pubblico interesse e sia attivo nel settore della protezione dei dati) .
Il raccordo con le disposizioni richiamate del Regolamento ha uno specifico rilievo se si considerano alcune problematiche che possono sorgere in merito all’applicabilità delle regole della direttiva all’interno di rapporti contrattuali e quindi controversie di carattere transfrontaliero.
In più punti, la direttiva evidenzia la possibilità che la situazione giuridica regolata si articoli in una dimensione transfrontaliera. Come spiega il Considerando n. 5, «molte delle piattaforme di lavoro digitali esistenti sono imprese internazionali che sviluppano le loro attività e i loro modelli di business in diversi Stati membri o a livello transfrontaliero».
La questione è evidenziata, a monte, per giustificare l’intervento regolativo dell’Unione, in conformità al principio di sussidiarietà (cfr. cons. n. 49), quindi nella disposizione di apertura (art. 1) che individua l’oggetto e l’ambito di applicazione della direttiva, fissando tra gli obiettivi il miglioramento della trasparenza del lavoro mediante piattaforma digitale, anche in situazioni transfrontaliere, favorendo nel contempo le condizioni le condizioni per la crescita sostenibile delle piattaforme nell’Unione.
La questione è intercettata soprattutto rispetto al problema di una possibile mancanza di trasparenza e tracciabilità del lavoro e all’applicazione dei regolamenti sul coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale (Considerando n. 41; richiamo specifico in seno all’art. 11). In tale prospettiva la proposta, che prevede in capo alle piattaforme che sono datori un obbligo di dichiarazione del lavoro svolto dai lavoratori alle autorità competenti (art. 11), affianca alla cooperazione tra garanti della privacy già prevista dal GDPR una cooperazione degli stessi con le autorità nazionali in materia di lavoro e protezione sociale, con scambio di informazioni pertinenti (art. 19) .
La prospettiva transfrontaliera non riceve, invece, un’attenzione dedicata rispetto alle azioni di ricorso e in termini di raccordo con le fonti europee di diritto internazionale privato.
La proposta di direttiva si limita a stabilire che il sistema di regole ivi previsto e implementato con fonte interna dagli stati membri si applica alle piattaforme che organizzano il lavoro svolto nell'Unione a prescindere dal luogo di stabilimento della piattaforma e, come si precisa nell’illustrazione dettagliata dell’art. 1, a prescindere dal luogo in cui viene offerto o fornito il servizio. La direttiva, da un lato, individua nel luogo in cui viene svolto il lavoro l’elemento decisivo per l’applicabilità territoriale delle regole, dall’altro, stabilisce che in tale ambito dette regole prevalgano sul diritto altrimenti applicabile, in tal senso sembrando individuare nel proprio contenuto delle norme di applicazione necessaria ai fini del diritto internazionale privato.
Un raccordo con le fonti europee del diritto internazionale privato richiederebbe, tuttavia, una riflessione dedicata, rispetto almeno a tre problematiche e a partire dalla considerazione che, ovviamente, le norme interne di trasposizione della direttiva potranno prevalere come norme di applicazione necessaria della lex fori solo laddove il giudice adito sia un giudice di uno stato membro.
La prima problematica attiene proprio alla possibilità di attrarre la controversia davanti a un giudice dell’Unione laddove la piattaforma sia stabilita al di fuori dell'Unione europea, ipotesi che, trattandosi di piattaforme digitali, risulta tutt'altro che peregrina.
Il silenzio della proposta sul punto impone di individuare la soluzione all’interno ora del GDPR, ora della Sezione del Regolamento Brussels 1-bis dedicata alle controversie in materia di contratti individuali di lavoro subordinato. In entrambi i casi, infatti, si prevedono delle regole in deroga a quella generale secondo cui il Regolamento Brussels 1-bis si applica solo se il convenuto è domiciliato in uno Stato membro.
Il GDPR, all’art. 3, prevede nel dettaglio i termini della propria applicabilità extra-territoriale nei confronti di un titolare o responsabile del trattamento non stabilito nell’Unione e, a garanzia della possibilità di radicare la controversia davanti a un giudice di uno stato membro, a prescindere dal luogo di stabilimento del titolare/responsabile del trattamento, all’art. 79 prevede come foro competente speciale per le azioni nei loro confronti anche quello dello stato membro in cui l’interessato, a cui siano riferibili i dati personali, risiede abitualmente. Come detto, l’art. 79 GDPR è specificatamente richiamato e fatto salvo dalla proposta di direttiva. Tale disposizione sarà, quindi, invocabile da parte di tutti i soggetti interessati da una possibile violazione delle disposizioni della direttiva in materia di accesso alla trasparenza e al riesame umano nonché monitoraggio umano dei processi automatizzati. Come già evidenziato, trattasi, infatti, di norme specificative e integrative del GDPR, adottate ai sensi dell’art. 88 del Regolamento, e che trovano, infatti, come base giuridica l’art. 16, comma secondo, TFUE. L’art. 79 potrà essere, quindi, invocato anche da lavoratori autonomi ed enti esponenziali, che esercitino un’azione rappresentativa con o senza mandato, ai sensi dell’art. 80 GDPR. Nel caso di azione rappresentativa, il foro speciale dello stato membro dell’interessato potrà essere invocato dall’ente con il limite derivante dal fatto che tutti i soggetti interessati siano residenti nello stesso stato membro e, nel caso di azione senza mandato, a condizione che lo stato membro riconosca una siffatta legittimazione attiva in capo all’ente (e non è, ad esempio, il caso dell’Italia, per quanto attiene alla normativa interna in materia di trattamento dei dati dettata dall’art. 141, comma 2, d.lgs. 196/03, v. supra).
Per quanto riguarda i lavoratori subordinati, assume specifica rilevanza la Sezione V del Regolamento Brussels 1-bis, che all’art. 21 consente di convenire anche un datore non domiciliato nell’Unione davanti a un giudice di uno stato membro se tale è il luogo di svolgimento abituale della prestazione di lavoro subordinato dedotta in giudizio. L’applicazione di questa disposizione solleva almeno due problematiche di raccordo con la proposta di direttiva. Anzitutto, il giudice potrà riconoscersi competente ai sensi dell’art. 21 solo laddove, in via preliminare, abbia ritenuto il rapporto qualificabile come rapporto di lavoro subordinato. È sì vero che tale verifica non è certamente sovrapponibile a quella che sarà effettuata poi nella fase di merito: è meramente strumentale all’accertamento di un presupposto processuale, la competenza giurisdizionale, senza alcun pregiudizio per il merito; avviene sulla base di un’istruzione sommaria, una valutazione delle circostanze emergenti in limine litis, dall’atto introduttivo e dal primo atto difensivo; utilizza come referente la nozione autonoma di worker elaborata dalla Corte di giustizia , non coincidente con la definizione interna di lavoratore subordinato che sarà, invece, rilevante ai fini dell’eventuale confutazione della presunzione nella fase di merito . D’altra parte, si può ritenere che, in una logica di interpretazione sistematica delle fonti Ue, anche nel contesto di questa prima qualificazione, il giudice non possa non tener conto delle garanzie di favor per il ricorrente previste dalle norme della direttiva, pena un loro possibile depotenziamento.
In secondo luogo, l’applicazione del criterio di collegamento del locus laboris - rilevante prima per l’individuazione del foro competente e poi in seconda battuta per l’individuazione della legge applicabile al rapporto una volta accertata la sua natura subordinata in forza delle regole della direttiva - richiede uno specifico confronto con l’ipotesi di prestazione esclusivamente online. Al riguardo, potrà essere valorizzata l’interpretazione estensiva della Corte che individua tale luogo anche in quello in cui il lavoratore riceve le istruzioni datoriali sulle attività da svolgere e organizza il proprio lavoro nonché il luogo dove si trovano gli strumenti di lavoro .
Il tema è chiaramente molto complesso e non è certo risolto da queste linee di raccordo con il diritto internazionale privato, ponendosi poi, rispetto alla questione delle piattaforme extra-Ue, un problema di esecutività delle sentenze e delle sanzioni più in generale, soprattutto nel momento in cui il soggetto stabilito in uno stato terzo non abbia assets patrimoniali aggredibili all'interno dell'Unione. E’ un tema che, non a caso, riceve un approfondimento dedicato con riguardo all’applicazione extra-territoriale del GDPR e per il quale non si può che rinviare ad altre sedi.

 

 

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