TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Trovo particolarmente felice l’idea di Lavoro Diritti Europa di una riflessione, stimolata dal cinquantesimo compleanno del rito del lavoro, che guardi contemporaneamente all’evoluzione che esso ha avuto nell’ultimo mezzo secolo ed alla riforma del 2023, per dare luogo a un’analisi sia retrospettiva che con l’attenzione rivolta al futuro.

1. Il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, occasione per riflettere anche sul passato
Il tema del nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, pur essendo comune a tutto i settori del processo civile (compreso, a mio parere, quello tributario ) si presta particolarmente bene allo scopo, visto che esso aveva una sorta di antenato nel processo del lavoro, vale a dire l’accertamento pregiudiziale sulle clausole dei contratti collettivi di cui all’art. 420- bis c.p.c., inserito nel codice di rito sin dal 2006 , ma previsto per le controversie di lavoro pubblico già dal 1998 .

2. Alcune riflessioni sul rito del lavoro a seguito dell’istituzionalizzazione della trattazione scritta operata dalla riforma Cartabia
Una riflessione di tal fatta richiede però secondo me una premessa, piuttosto amara.
L’esperienza del diritto processuale della pandemia ci aveva portato a confrontarci con la necessità di forzare oltremodo il rito del lavoro, sostituendo le tradizionali modalità di celebrazione dell’udienza con le famose (o famigerate) note di trattazione scritta, che ovviamente avevano destato tante perplessità nei lavoristi.
La riforma Cartabia ha deciso di stabilizzare (peggiorandola un po’) quella modalità di trattazione, ed in molti le perplessità sono naturalmente aumentate. Non è possibile in questa sede soffermarsi su questo aspetto, ma è opportuno svolgere due brevissime considerazioni, premettendosi che si vuole rifuggire da ogni implicazione di carattere “ideologico”. Non voglio cioè pormi dal punto di vista di chi sostiene una tesi, né dimenticare quanto sia comodo per l’avvocato evitare di perdere intere mattinate (o giornate) per un’udienza di pochi minuti che magari si celebra a decine o centinaia di chilometri di distanza dal proprio studio.
Ritengo però che la sostituzione dell’udienza con le note di trattazione scritta di cui all’art. 127- ter c.p.c. sia talmente in contrasto col rito del lavoro così come l’abbiamo conosciuto da poterne segnare la fine. Non voglio dire se ciò sia un bene o un male, né quale dei due strumenti sia migliore: semplicemente a mio parere l’incompatibilità con il processo disegnato dalla Legge n. 533 del 1973 è tale da non consentire di conciliare le due cose.
La prospettiva del legislatore del 1973 era quella di creare un giudizio in cui il giudice e gli avvocati si parlavano per tutta la sua durata; si svolgeva il libero interrogatorio delle parti ed il tentativo di conciliazione avveniva alla loro presenza; la difesa si esplicava sino alla fine del procedimento ed il giudice non era chiuso nella propria stanza a riflettere a distanza di tempo da quando aveva parlato con gli avvocati; infine, solennemente veniva letto il dispositivo . Non posso naturalmente trattenermi oltre – e d’altronde sarebbe anche superfluo – riflettendo su quanto di quest’idea negli anni si fosse perso e su quanti uffici giudiziari avessero accantonato da molto tempo ciò che ho appena descritto; nondimeno, questa era l’impostazione di chi era abituato alle peculiarità del processo del lavoro.
Tutto ciò con il nuovo rito cartolare non può che scomparire.
E, ripeto, non voglio dire se sia un bene o un male: dico solo che a me paiono due cose così diverse, così radicalmente inconciliabili, che se si accetta la trattazione scritta si deve prendere atto che quello del 2023 non è e non può essere il rito del lavoro del 1973.
D’altronde io sono convinto che – ma altro non è che una convinzione personale, naturalmente – se non fossimo venuti da quasi tre anni di esperienza di legislazione processuale dell’emergenza, in molti avrebbero sostenuto che una norma delle disposizioni generali del codice che si contrappone nettamente a quelle del rito speciale del lavoro fosse destinata a soccombere rispetto alle seconde. Insomma, credo che se l’art. 127- ter c.p.c. fosse stato introdotto senza essere stato preceduto dalla pandemia, tantissimi giuristi avrebbero affermato che esso fosse destinato a rimanere fuori dalle aule della Sezione Lavoro .
Quanto sopra per dire che ritengo – e questo certamente con un pizzico di amarezza - che le celebrazioni per il cinquantennale del processo del lavoro probabilmente coincidono con la sua fine; o, perlomeno, con l’inizio della sua fine.

3. L’accertamento pregiudiziale nelle controversie lavoristiche e il rinvio pregiudiziale
Questa premessa fa riflettere sulle tensioni cui è sottoposto il rito del lavoro - pur inciso dalla riforma Cartabia solo marginalmente rispetto ad altri – e contemporaneamente ci porta a vedere come di alcune cose esso sia stato precursore, consentendoci così di ragionare sul nuovissimo istituto del rinvio pregiudiziale tenendo a mente anche la storia - invero non quella del 1973, ma quella recente - del processo del lavoro.
Già sopra si è accennato all’art. 420- bis, inserito nel nostro codice di rito nel 2006, ed all’analoga norma che già si applicava alle controversie di lavoro pubblico dal 1998.
Si trattava di due importanti forme di “interrogazione preventiva” della Corte di cassazione, che si accompagnavano a quelle – di generale applicazione - del regolamento di giurisdizione e di competenza; figure tutte accomunate – pur con le loro notevoli differenze – dalla volontà del legislatore di consentire una risposta anticipata della Suprema Corte a determinati problemi giuridici.
Il codice del 1940 si era mosso in modo molto razionale: sull’individuazione del giudice che deve decidere la controversia (mi riferisco quindi alle questioni di giurisdizione e competenza) è opportuno cercare di sciogliere i nodi in limine litis.
Il fatto che già nel 1998 (e poi nel 2006) si sia scelto di seguire la strada della “interrogazione preventiva” per i contratti collettivi nazionali di lavoro è la conferma delle peculiarità delle cause di lavoro, che immagino potranno emergeranno anche nella vigenza del nuovo istituto.
Sia consentita una piccola digressione.
Secondo quanto già indicato sopra in nota, l’introduzione dell’accertamento pregiudiziale nelle cause di lavoro si è avuto con il Decreto Legislativo n. 80 del 1998. In un vecchio scritto di un autorevolissimo giudice della Corte di cassazione, Stefano Evangelista - che l’Avv. Bruno Cossu mi ha fornito ripescandolo dalla propria sterminata biblioteca – si legge un interessante richiamo ai lavori preparatori del Decreto Legislativo in parola, che all’Autore tornava utile “per considerazioni di tipo più generale sul ruolo e sulla funzione della Corte di cassazione” . La lettura di queste considerazioni ci porta a prendere atto di quanto l’originaria idea di riforma fosse simile all’odierno rinvio pregiudiziale: “il primitivo schema … prevedeva che, ove, per la definizione di una controversia di pubblico impiego, fosse necessario risolvere una questione fra quelle in tale titolo elencate, la stessa dovesse essere rimessa direttamente all’esame della Corte di cassazione, chiamata a decidere «a titolo pregiudiziale». La rimessione alla Corte avveniva in forma di ordinanza motivata emessa dal giudice di merito, con effetto sospensivo del giudizio a quo fino alla definizione della pregiudiziale”.
È davvero interessante – e su questo per esigenze di spazio non svolgerò considerazioni personali – notare come l’Autore proseguisse dicendo: “L’esposto disegno ha, però, avuto vita breve, come era, del resto, fatale per l’ingenuità dell’intento e la dubbia legittimità costituzionale del rimedio. Chi può, infatti, dire, con qualche pretesa di verosimiglianza, quante questioni cesserebbero di farsi quando la diversità degli avvisi giurisprudenziali non fornisse più al litigante la speranza di riportar vittoria anche su questione già decisa altra volta, in senso a lui sfavorevole? Il dubbio è legittimo quando, scorrendo un qualsiasi repertorio e imbattendosi in una sequela di massime conformi, si verifichi quanta gente vi sia disposta a percorrere la strada che porta al giudizio della Corte regolatrice, per sentirsi dire sempre le stesse cose”, concludendo: “Deve, dunque, salutarsi con favore, il tramonto dell’originario disegno del legislatore delegato e la persistente possibilità di iscrivere anche nella materia in esame il ricorso per cassazione fra i mezzi di impugnazione”.
Chiudo questa lunga parentesi richiamando il discorso che facevo sopra circa la compatibilità tra trattazione scritta e rito del lavoro, e la mia ipotesi circa le reazioni che vi sarebbero state al riguardo in assenza di tre anni di legislazione processuale pandemica. È allora interessante ricordare che in questo scritto Evangelista affermava perentoriamente: “È da escludere che la pronuncia dell’ordinanza (con cui si apre il procedimento di tentativo di interpretazione autentica, ndr) possa avvenire anteriormente all’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., non essendo dato, prima dell’esecuzione di almeno alcuni degli incombenti ivi previsti, quali il libero interrogatorio delle parti ed il tentativo di conciliazione, verificare se effettivamente una questione del tipo suddetto sia effettivamente rilevante ai fini della decisione” . Viene da chiedersi cosa avrebbe pensato l’insigne giurista della possibilità di emettere ordinanza di rinvio dopo una prima udienza a trattazione scritta, in cui ovviamente il giudice non ha sentito le parti, né svolto il tentativo di conciliazione.

4. Le prime ordinanze di rinvio pregiudiziale
In effetti, al momento in cui scrivo questo contributo si ha notizia di diverse ordinanze di rinvio pregiudiziale : le prime due sono state emesse dalla Corte d’appello civile di Napoli ; un’altra proviene da un Giudice del Lavoro (il dott. Magazzino del Tribunale di Taranto) ; altra ancora dalla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Agrigento ; ve n’è poi una del Tribunale civile di Verona ; un’altra è stata emessa dal Giudice di Pace di Caserta ; molto articolata - e di interesse perché interseca anche la questione del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea - è l’ulteriore ordinanza della Sezione Lavoro del Tribunale di Taranto (dott. Magazzino) .
La materia del lavoro, con la frequenza delle novità normative e giurisprudenziali che la caratterizzano, sembra prestarsi particolarmente bene all’utilizzo del nuovo rinvio pregiudiziale. D’altronde, non vedo ragioni per escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 363- bis c.p.c. i “contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”, visto che essi sin dal 2006 possono essere oggetto di diretta censura in sede di legittimità ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c.; ciò quindi potrebbe essere un ulteriore elemento per prevedere una diffusa applicazione del rinvio pregiudiziale nelle cause di lavoro.
A ciò si aggiunge la considerazione che il processo del lavoro è una sede naturale per il nascere di controversie seriali . L’art. 363- bis n. 3 c.p.c. stabilisce la possibilità di operare il rinvio se “la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi” e quindi appare quasi automatica la sua applicazione nelle cause di lavoro.

5. Il “vecchio” accertamento pregiudiziale ed il “nuovo” rinvio pregiudiziale
E allora forse il raffronto tra l’accertamento pregiudiziale ed il rinvio pregiudiziale potrà fornirci una chiave di lettura circa l’evoluzione del nostro processo del lavoro, particolarmente per quel che riguarda il modo di pensare dei giudici di merito.
Ritengo sia difficilmente contestabile che le norme sull’accertamento pregiudiziale (sia nel lavoro pubblico che in quello privato) siano state sostanzialmente un fallimento, tanto scarso è stato l’uso che se n’è fatto.
Penso invece che le due ordinanze di rimessione del Tribunale di Taranto, arrivata nell’immediatezza dell’entrata in vigore della nuova normativa, siano probabilmente destinate ad inaugurare – come dicevo – un sostanzioso filone di rinvii pregiudiziali.
Ovviamente, solo il tempo potrà dire se questa idea sia corretta o meno. Devo tuttavia rappresentare quali siano i motivi per cui ritengo che ciò avverrà, perché la ragione che mi spinge a pensarlo è contemporaneamente il punto di partenza e di arrivo del mio ragionamento, il quale necessita di una breve premessa.
Ci sono dei significativi aspetti processuali che mi inducono a pensare che l’esperienza della scarsa applicazione dell’accertamento pregiudiziale potrebbe essere molto diversa da quella del nuovo istituto.
Innanzitutto, l’art. 420-bis c.p.c. e l’art. 64 del Decreto Legislativo n. 165 del 2001 erano utilizzabili solo qualora venisse in rilievo l’interpretazione, la validità o l’efficacia di una clausola di un contratto collettivo nazionale; il rinvio pregiudiziale, invece, riguarda soprattutto le norme. Inoltre, il vecchio accertamento pregiudiziale comportava che il giudice dovesse emettere due sentenze nello stesso processo (una sulla pregiudiziale e l’altra sul merito); infine, una volta che il giudice aveva “attivato” il meccanismo, esso non dava frutti se l’avvocato del soccombente non lo “coltivava” proponendo ricorso per cassazione.

6. L’atteggiamento dei giudici – in particolare di quelli di merito - nel rapporto con la nomofilachia
Al netto di questo, credo che l’istituto avrà successo perché vedo nei tempi recenti un’altissima attenzione alla nomofilachia ; non solo, come è ovvio, nei giudici di legittimità, ma anche nei giudici di merito . Mi pare che il tema della certezza del diritto e dell’avere (e dare) una risposta univoca alle questioni giuridiche sia particolarmente sentito negli ultimi anni. Non dimentico, ovviamente che un atteggiamento del genere ha dei significativi risvolti negativi, ma questo aspetto - su cui pure brevemente mi soffermerò – non interessa particolarmente in questa sede, in cui, più che esprimere giudizi, cerco di trarre degli insegnamenti dalle constatazioni che si possono fare guardando la realtà.
Quest’interesse per la nomofilachia è ovviamente palese guardando alla Corte di cassazione, e mi riferisco sia ai testi legislativi che la riguardano, sia al diritto vivente.
Dal primo punto di vista vengono ovviamente in rilievo innanzitutto il terzo comma dell’art. 363 c.p.c. ed il terzo comma dell’art. 374 c.p.c., come modificati nel 2006. Il primo consente ai giudici di legittimità di enunciare il principio di diritto anche in caso di pronuncia di inammissibilità (o improcedibilità) del ricorso; il secondo obbliga la sezione semplice che dissenta da una pronuncia delle Sezioni Unite a rimettere ad esse la decisione, senza potervi andare in contrasto.
Quanto alle pronunce della Corte, si pensi all’affermazione, contenuta ad esempio nell’importante Cass. Civ., SS.UU., 18 maggio 2011, n. 10864 , per la quale la stabilità degli orientamenti giurisprudenziali è un valore in sé e non si può abbandonare una determinata interpretazione senza significative ragioni .
A questo meccanismo non è estranea la Procura, che in effetti negli ultimi anni ha iniziato a proporre dei ricorsi ex art. 363 primo comma c.p.c.

Non è invece possibile enucleare elementi obiettivi in relazione al fatto, cui accennavo sopra, che ritengo negli ultimi tempi sia molto alta l’attenzione dei giudici di merito per la certezza del diritto e la nomofilachia. Posso fare richiamo solo alla mia personale esperienza ed alle mie impressioni nel dire che mi pare che i Tribunali e le Corti d’appello siano sempre più volenterosi di seguire le rotte tracciate dalla Corte regolatrice, e ansiosi di averne la guida quando su una specifica questione la risposta ancora non c’è .
D’altronde, ritengo che ciò sia anche frutto della straordinaria velocità con cui oggi viaggiano le informazioni. Il fatto di avere immediatamente notizia del sopravvenire di un precedente che mancava sembra creare ancora di più l’aspirazione a che quel precedente effettivamente sopravvenga.
Cerco di spiegarmi meglio.
Fino a pochi anni fa era fisiologico che dopo la data di decisione di una questione nuova da parte dei giudici di legittimità continuassero per un certo periodo ad essere emesse sentenze di merito che ignoravano l’esistenza di tale pronuncia.
tale problema oggi è virtualmente superato: alle parti ed al giudice può sfuggire l’emissione del precedente d’interesse, ma esso è immediatamente conoscibile (in primis tramite italgiure). La pressoché istantanea disponibilità di tutte le decisioni della Cassazione è un elemento che a mio parere influenza notevolmente l’abitudine a cercare il precedente di legittimità (ed a seguirlo).
Ecco allora perché dicevo che le ragioni fondanti della mia ipotesi per certi versi coincidono con la sua stessa conferma. Credo difatti che il rinvio pregiudiziale avrà successo perché i giudici di merito sono ormai sempre più convinti della necessità di conoscere ed “applicare” la giurisprudenza di legittimità; al tempo stesso, se il rinvio pregiudiziale avrà successo, secondo me ciò dimostrerà che i giudici di merito sempre di più vogliono conformarsi alla giurisprudenza di legittimità.
Ed io ritengo che questo sia, pur con i suoi diversi aspetti negativi, un fatto positivo.
La certezza del diritto mal si adatta con una pluralità di giudici che lo applicano in maniera differente: non c’è nulla di più ingiusto di avere cause uguali che hanno esito diverso perché trattate da giudici diversi (magari addirittura nello stesso contesto territoriale).
Non manca però chi evidenzia anche gli aspetti negativi di un simile approccio; sinceramente, pur da sostenitore della tesi opposta, non posso che prendere atto che i rilievi mossi sono seri e fondati.
I giudici di merito che semplicemente ed acriticamente si appiattiscono sulla giurisprudenza di legittimità – questo qualcuno sostiene, e non credo gli si possa dare torto – fanno un cattivo servizio all’evoluzione dell’ordinamento. Il diritto ha bisogno anche di chi vada contro l’interpretazione dominante e ne proponga di nuove e diverse. In questo i giudici svolgono un ruolo fondamentale, seppur, sotto questo aspetto, di minore importanza di quello degli avvocati.
Se la giurisprudenza, ad esempio, sull’efficacia obbligatoria o reale del preavviso, in punto di onere della prova della sussistenza del licenziamento orale o di ricollocabilità in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (solo per stare ad alcuni temi abbastanza recenti cari ai lavoristi) è mutata nel tempo, è stato perché qualche avvocato ha insistito nel portare avanti una tesi che in quel momento appariva “sbagliata” e che invece si è rivelata corretta.
E in questo la sentenza “ribelle”, quella che si contrappone consapevolmente e motivatamente all’indirizzo espresso dal Supremo Collegio, riveste un’importanza fondamentale nel nostro ordinamento .

7. Le parti processuali nel rinvio pregiudiziale
Da avvocato mi viene da fare un’altra riflessione, che riguarda la partecipazione delle parti al procedimento di rinvio pregiudiziale.
La legge delega (art. 1, comma 9, lett. g), legge n. 206/2021) prevedeva che per operare il rinvio giudice avesse “preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti”; il decreto delegato ha invece stabilito che le parti vengano semplicemente “sentite”.
Una volta che il fascicolo è giunto innanzi alla Suprema Corte le parti possono depositare “brevi memorie, nei termini di cui all’articolo 378” e, naturalmente, discutere la causa nella pubblica udienza, visto che il quarto comma dell’art. 363- bis c.p.c. esclude la possibilità di trattazione camerale.
Tale previsione ricorda lo schema del processo dinnanzi alla Corte costituzionale o alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (che pure sotto diversi punti di vista consentono alla parte una partecipazione più attiva). Vi è però una differenza significativa tra questi ed il rinvio pregiudiziale: i primi sono procedimenti che non sono volti a decidere una singola causa, mentre il rinvio alla Cassazione esita in un principio di diritto che diventa vincolante nel giudizio a quo.
Una piccola digressione consente di approfondire il ruolo delle parti nel rinvio pregiudiziale. Come detto, il quarto comma dell’art. 363- bis c.p.c. prevede che le memorie che le parti possono depositare in vista della pubblica udienza debbano essere “brevi”.
Con ciò il legislatore in sostanza non differenzia queste memorie da quelle che normalmente si possono depositare prima della pubblica udienza, per le quali l’art. 378 c.p.c. usa l’aggettivo “sintetiche”. Ma in questa seconda ipotesi i contendenti hanno già svolto le proprie difese con il ricorso o con il controricorso, mentre nel caso del rinvio pregiudiziale si tratta del primo (ed unico) atto depositato dinnanzi al Collegio.
Non è privo d’interesse notare che la relazione ministeriale che accompagna il Decreto Legislativo n. 149 del 2022 spiega perché l’art. 378 c.p.c. stabilisca che le memorie delle parti debbano essere “sintetiche”, senza invece porre questo limite per quelle del pubblico ministero. Ciò deriva innanzitutto dal fatto (indiscutibilmente vero) che le memorie della Procura non sono mai prolisse; inoltre, dice la relazione, “mentre le parti hanno già depositato ricorso e controricorso, il pubblico ministero interloquisce per la prima volta proprio con la memoria”. Va però notato che nel procedimento di rinvio pregiudiziale anche per le parti le memorie sono la prima occasione di interlocuzione con la Corte.
A ciò si accompagna il fatto che è previsto per il deposito delle memorie lo stesso termine stabilito dall’art. 378 c.p.c. La legge delega, invece (art. 1, comma 9, lett. g), n. 4) prevedeva la “facoltà per le parti di depositare brevi memorie entro un termine assegnato dalla Corte stessa”. Considerato il breve lasso di tempo tra il deposito e l’udienza, non pare che al legislatore interessi particolarmente che il collegio abbia il tempo di studiare con attenzione le memorie delle parti, che potrebbero magari avere la necessità di illustrare qualche errore commesso dall’ordinanza di rimessione, o proporre un’interpretazione alternativa rispetto a quelle prospettate dal giudice a quo.
L’analisi delle prime ordinanze di rinvio per certi versi conferma questo timore.
In esse, non si rinviene particolare interesse alle posizioni prese dalle parti, né risulta che esse siano state chiamate a difendersi sul tema mediante un atto scritto, come tale poi magari fruibile anche dalla Corte di legittimità. Ad esempio, nell’ordinanza della Corte di giustizia Tributaria di Agrigento il Collegio dà atto di aver sottoposto la questione “all’esame delle parti nel corso dell’udienza pubblica”. Ciò sembrerebbe riguardare solo la prima delle tre questioni di cui poi la Corte siciliana ha investito la Cassazione; inoltre, aver sottoposto alle parti un’ipotesi di ordinanza molto complicata (perché tali sono le questioni poste dal Collegio siciliano) nel corso dell’udienza potrebbe non aver consentito alle stesse di prendere approfonditamente posizione sulla questione; né, il giudice agrigentino dà atto di quali siano state le difese delle parti.
È chiaro che non si può escludere, visto che non si conoscono le dinamiche processuali di questi specifici giudizi, che le parti non avessero null’altro da dire che quanto già avevano indicato nelle rispettive costituzioni; temo tuttavia che il tempo confermerà il mio timore e le parti rischieranno di essere sostanzialmente relegate ai margini del procedimento di rinvio pregiudiziale.

8. La fissazione dell’udienza dopo la decisione della Cassazione
Ultimo rilievo procedurale riguarda la fissazione dell’udienza dopo la sospensione del giudizio a quo. Una volta che i giudici di Piazza Cavour si sono pronunciati sulla questione rimessagli, gli atti vengono restituiti al giudice di merito.
A mio parere, trattandosi di un’ipotesi di sospensione, una delle parti dovrà attivarsi per chiedere, ai sensi dell’art. 297 c.p.c., la fissazione dell’udienza .
Bisogna però domandarsi da quando decorra il termine trimestrale per il compimento di detta attività.
Sull’analogo problema sorto in caso di accertamento pregiudiziale si era affermato che il termine decorresse dalla data di pubblicazione della pronuncia del Supremo Collegio e che fosse irrilevante il fatto che non fosse prevista la comunicazione della pubblicazione della decisione anche nei confronti della parte che avesse deciso di non costituirsi dinnanzi alla Cassazione.
Non mi pare che quest’orientamento sia traslabile nel nuovo rinvio pregiudiziale, per la ragione che – diversamente dal 420- bis c.p.c. – con esso non s’inizia un nuovo e distinto giudizio.
Mi pare invece che dovrà trovare applicazione la disciplina che regola la ripresa del giudizio dopo l’incidente di costituzionalità (figura che sotto questo punto di vista mi pare più affine al rinvio pregiudiziale) e quindi che la cancelleria del giudice a quo sia tenuta a comunicare alle parti la pronuncia della Corte regolatrice, decorrendo da questo momento il suddetto termine trimestrale (Cass. civ., Sez. I, 07 febbraio 2006, n. 2616;
Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2014, n. 10803).

9. Quale futuro per il rito del lavoro?
Una riflessione conclusiva va fatta guardando al tempo stesso – come detto in limine - ai cinquant’anni del rito del lavoro ed al futuro che ci aspetta.
Il rito del 1973 – lo si è già detto sopra - vedeva con grande favore la presenza delle parti e degli avvocati; questi ultimi, d’altronde, sono stati il motore di numerosi cambiamenti giudiziari della realtà sociale. Oggi invece pare che la tendenza - e nello scriverlo provo un po’ di amarezza – sia quella di considerare le parti, ma soprattutto i loro difensori, come una presenza a volte (anzi, spesso) non necessaria. Sinceramente, escludo che l’esperienza degli ultimi cinquant’anni giustifichi una simile conclusione, anzi! Né credo che questo sia il miglior modo per valorizzare il rito del lavoro e le questioni peculiari che ne giustificano l’esistenza.
Spero quindi – anche se non lo credo – che vi sia a breve un importante cambio di rotta, ritornandosi alla consapevolezza che tutti i soggetti del giudizio sono importanti per la realizzazione di una giustizia giusta. E che ci si ricordi che il processo appartiene alle parti e non si può fare senza il coinvolgimento dei loro difensori, non bastando all’uopo il solo giudice.
O almeno, che se anche forse si può fare lo stesso, con un ruolo attivo dei difensori si fa meglio!

 

 

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