Testo integrale con note e bibliografia

Rispondere alla domanda se, nel corso della mia esperienza professionale, sia cambiato il modo con cui i giudici del lavoro interpretano il loro ruolo può, a prima vista, sembrare semplice, ma in realtà richiede un’articolata riflessione. Semplice perché ho iniziato la mia attività professionale a Milano, come avvocato cosiddetto “datoriale”, nel 1978, vale a dire in un periodo in cui le tensioni sociali e politiche avevano delle caratteristiche fortunatamente non riscontrabili nel contesto attuale. Mi verrebbe dunque spontaneo dire, in prima battuta, che tutto è profondamente cambiato rispetto a quella situazione, già ben descritta nell’intervento che mi ha preceduto dell’avv. Salvatore Trifirò, allorquando le cause erano spesso decise da giudici che avevano una giurisprudenza unidirezionale a favore delle istanze sindacali e dei lavoratori. Naturalmente non è che anche in quegli anni non vi fossero giudici che pensassero e agissero diversamente, ma, di fatto, si venivano a trovare in una posizione di secondo piano rispetto agli orientamenti derivanti dalla giurisprudenza dei primi. Peraltro, se la mia risposta si fermasse qui, sarebbe incompleta perché, in pari tempo, sono portato a dire che i cambiamenti, verificatisi negli anni, sul modo con cui i giudici del lavoro hanno interpretato il loro ruolo si sono sicuramente manifestati in termini numerici, senza però portare ad una situazione di completo superamento dell’atteggiamento proprio del passato sopra ricordato. In altre parole, se è vero che si è progressivamente ridotta la quantità di giudici del lavoro creatori di quella giurisprudenza orientata cui facevo riferimento poc’anzi, è altresì vero che ne permane ancora un consistente numero che tende ad avere un approccio al ruolo, a volte realizzato attraverso complesse operazioni interpretative, simile nella sostanza a quello riconducibile agli anni 70, 80 e dintorni, seppur ovviamente, tenuto conto dell’evoluzione della società e, con essa, del mondo del lavoro, su temi diversi da quelli del passato.
Quanto alla riduzione del numero, ritengo che ciò dipenda soprattutto dal fatto che l’accesso alla funzione di giudice del lavoro sia, nel tempo, sempre più dipesa da fattori vari e contingenti, meno condizionato da scelte dettate dal primario interesse di poter incidere attivamente sul tipo di problematiche che il giudice del lavoro è chiamato a risolvere. In tale contesto, si è così sviluppata una giurisprudenza che, pur nell’ambito della perdurante specificità del diritto del lavoro rispetto a quello civile, mostra attenzione alla lettera della legge e si fa carico di esaminare e valutare anche gli interessi della parte datoriale. Tornando poi alla mia precedente affermazione circa un approccio al ruolo paragonabile, in alcuni casi, a quello del ricordato passato, devo comunque fare una considerazione preliminare all’esame del contenuto della stessa. Quando si chiede ad un avvocato di affrontare questi temi al di fuori del confronto che si ha nelle aule giudiziarie, può comprensibilmente sorgere il dubbio che le risposte non siano pienamente attendibili perché gli avvocati, soprattutto nell’ambito del diritto del lavoro, a seconda che siano di parte datoriale o pro labour, sono portatori di interessi particolaristici profondamente differenziati, dai quali, anche se in buona fede, potrebbero essere, di fatto, condizionati. Pur dando atto quindi che la mia è un’opinione del tutto soggettiva e, pertanto, ampiamente discutibile, mi sembra che conferme rispetto a quanto ho detto sopra in merito all’approccio dei Giudice del lavoro al ruolo, o quantomeno riscontri della sostenibilità, in termini ipotetici, di tale ricostruzione, si possano trarre anche da altre fonti. A tale riguardo, a titolo esemplificativo, ho recentemente letto un interessantissimo articolo, non scritto da un avvocato , in cui, tra l’altro, si evidenzia che “Non soltanto in Italia ma anche in molti altri paesi è in crescita l'attivismo giudiziario che porta il giudice ad assegnarsi impropri “compiti salvifici” ed a supplire l’inerzia colpevole (e talvolta anche voluta) del legislatore e la pigrizia della scienza giuridica. Da qui la produzione di “raffinati e creativi dicta” reclamizzati poi come meramente attuativi della “universalità del diritto naturale” laddove sottendono in realtà proprie e radicate opzioni culturali e non di rado anche perduranti pregiudizi”. Nel medesimo articolo si fa anche riferimento ad “una giurisprudenza che basandosi sovente sulla ambiguità e cattiva fattura delle leggi e delle disposizioni di carattere generico e difficilmente decifrabili, finisce con l’accreditare scelte di carattere ideologico o politiche”. Mi sembra, dunque, di poter dire che il problema esiste e non possa essere confinato nel campo delle mere percezioni personali dell’avvocato di una delle parti del rapporto di lavoro. Ciò premesso, venendo finalmente all’esame del merito di questa tematica, emerge come l’approccio al ruolo in modo orientato venga solitamente giustificato dai protagonisti sull’assunto per cui il diritto del lavoro disciplina un rapporto che non è paritario e, quindi, deve essere interpretato in modo tale da perseguire il principio dell’uguaglianza sostanziale delle parti. Ne consegue che ciò che ad alcuni potrebbe apparire orientato, in realtà altro non sarebbe che il corretto modo di applicare il diritto del lavoro. Molto è stato detto e scritto su questa spiegazione e fino a che punto la stessa possa legittimare eventuali decisioni che, quanto meno apparentemente, non sembrano essere coerenti col corretto uso dei canoni ermeneutici o col comune modo di valutare certe situazioni (a quest’ultimo riguardo penso, a titolo esemplificativo, ad alcune decisioni in tema di illegittimità di licenziamenti). È dunque una questione troppo ampia per poter essere compiutamente affrontata in queste brevi considerazioni. Mi astengo pertanto, in questa sede, da qualsiasi giudizio al riguardo, anche perché, a ben guardare, essendo valore prioritario quello dell’indipendenza del giudice ed essendo i giudici persone che, come tutti, hanno culture e idee, anche politiche, diverse, nella mia prospettiva di semplice avvocato, non so fino a che punto valga la pena di continuare ad interrogarsi su tale tema e di cercare di immaginare una soluzione pratica che riesca a risolvere definitivamente questa problematica, a maggior ragione pensando anche ai limiti di realizzazione di tale eventuale soluzione sul piano concreto nei singoli giudizi. Meglio quindi pensare al rafforzamento dell’utilizzazione di strumenti che, realisticamente, pur con tutti i loro limiti, possano, quanto meno, favorire la riduzione del numero e della portata di eventuali processi decisionali che possano apparire ingiustificatamente orientati. In questa prospettiva, come peraltro da più parti evidenziato, assume, a mio avviso, fondamentale importanza l’esercizio di un’ampia e puntuale funzione nomofilattica da parte della Corte di Cassazione con adeguamento ad essa della giurisprudenza di merito. Detto in altri termini, le soluzioni interpretative cui perviene la Cassazione, anche se magari astrattamente criticabili e non condivisibili nel loro contenuto da una delle parti del rapporto di lavoro, garantirebbero agli operatori del mondo industriale, commerciale, finanziario ecc. maggiori elementi dotati di una, seppur relativa, stabilità sulla base dei quali orientarsi operativamente. In tale quadro, al di là dell’ovvia necessità che vi sia uniformità di indirizzo all’interno della stessa Suprema Corte, particolarmente importante sarebbe, da parte della Cassazione, il richiamo al rispetto della lettera della legge e l’avvertimento di non ricorrere, a fini interpretativi, ad un uso non sufficientemente approfondito e meditato delle norme costituzionali e di quelle comunitarie. Tutto ciò, seppur non significherebbe realizzare appieno il principio della certezza del diritto, sarebbe però un buon passo in avanti, soprattutto se anche sul piano organizzativo si riuscisse ad accelerare la durata dei procedimenti, in modo da avere la possibilità di porre rapidamente rimedio ad eventuali errori decisionali.
Accanto agli aspetti sopra esaminati, vi è infatti da considerare che negli ultimi anni si è focalizzata maggiormente l’attenzione sulla necessità di un processo rapido e, dunque, sul carico e sui tempi di lavoro dei magistrati, temi peraltro da lungo tempo presenti nel dibattito più generale della questione giustizia, anche perché giocano un peso non secondario nella valutazione internazionale del nostro Paese, con tutte le conseguenze politiche ed economiche che ne possono derivare. Devo peraltro dire che nella mia esperienza non ho riscontrato modificazioni nelle scelte processuali dei giudici, in particolare per quel che riguarda l’ingresso o meno della prova testimoniale, determinate dalla necessità di accelerare i procedimenti. Mi sembra, infatti, che, in linea di massima, tutto sia proceduto in modo coerente con le previsioni del codice di procedura. Allo stesso modo, non ho riscontrato il ricorso a scappatoie procedurali o a sommarie valutazioni del materiale raccolto o a interpretazioni semplificanti delle norme col solo fine di pervenire a decisioni più rapide. Certo, non si può escludere che in qualche singolo caso la motivazione della decisione istruttoria fosse in parte determinata da tale, ovviamente non esplicitata, ragione, ma, torno a dire, si tratterebbe di casi eccezionali. Parimenti, non ho notato, in via generalizzata, un diverso uso da parte dei giudici dei loro poteri d’ufficio che, nella mia esperienza, ancora una volta, salvo casi eccezionali, sono tendenzialmente stati usati senza determinare stravolgimenti nel riparto dell’onere probatorio.
Ciò che invece, purtroppo, devo riscontrare è, parlando sempre in via generalizzata, un rilassamento da parte dei giudici nell’utilizzazione, di uno strumento centrale qual è il tentativo di conciliazione, cui, a mio giudizio, non vengono dedicati la dovuta attenzione e impegno, con particolare riferimento alla preparazione del tentativo e alla utilizzazione di tecniche di convincimento delle parti, nel rispetto del principio di terzietà del Giudice.
Infine, ritengo che abbiano una grandissima importanza anche il tema del contributo unificato e soprattutto quello delle spese legali. Personalmente, essendo un avvocato che difende pressoché esclusivamente aziende, non mi sono mai trovato a fare scelte condizionate dal rischio di pagamento delle spese processuali. Tuttavia, nell’esperienza giornaliera, confrontandomi anche con i legali dei lavoratori, ho comunque maturato la convinzione che il tema delle spese legali costituisce effettivamente un problema di possibilità di accesso alla giustizia. Sono pertanto favorevole a quella giurisprudenza che, facendo uso della discrezionalità riconosciuta al giudice dall’art. 92 c.p.c., come interpretato dalla Corte Costituzionale, tende a contenere l’impatto del principio della soccombenza ai fini dell’attribuzione delle spese legali.

 

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.