TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.

L'ordinamento moderno è ormai un ordinamento integrato e multilevel e sia il giudice di merito che quello di legittimità debbono inevitabilmente tener conto delle possibilità di influenza nell'ambito della propria decisione della normativa comunitaria, nonché delle pronunce della Corte di giustizia, volte ad interpretarla .
Ove, poi, sussista un dubbio circa la corretta lettura ermeneutica o circa la validità che possano avere le norme europee, è previsto l'istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell'articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell'unione europea, che prevede una diversa regolamentazione a seconda che debba procedere a tale atto un giudice di merito soggetto a impugnazione o un giudice di ultima istanza.
In particolare, nel primo caso, il magistrato ha solo la “facoltà” e non un vincolo di sollevare la questione presso la CGUE, mentre, viceversa, nel secondo, ha l’“obbligo” di effettuare tale rinvio (cfr. i commi 2 e 3 dell’art. 267).
Quanto, poi, all'importanza di tale istituto, ha recentemente tenuto a sottolineare la stessa Corte di giustizia nella sentenza Consorzio Italian Management del 6 ottobre 2021 che questo costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati: instaura, infatti, un dialogo da giudice a giudice, tra la Corte e i giudici degli Stati membri, che mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione.
Si tratta del significato comunemente attribuito all’istituto fin dalle prime pronunce della Corte di giustizia, potendosi rammentare come, fin dalla storica sentenza del 24 maggio 1977 Hoffmann-La Roche, si sia rappresentato che la normativa sul rinvio pregiudiziale ha la funzione di permettere che il diritto comunitario sia interpretato e applicato in modo uniforme in tutti gli stati membri e che serve ad impedire che in uno stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie.
In ragione di tale significativo scopo, che corrisponde all'esigenza di giustizia di ciascuno , si comprende bene, dunque, la ratio per cui l'articolo 267 TFUE ponga un “obbligo” e non una facoltà per i giudici di ultima istanza di sollevare la questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia, trattandosi degli organi che determinano l'interpretazione ultima in ciascuno Stato membro.

2. Il rapporto tra i giudici nazionali e la Corte di giustizia.

Come ben chiarito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte , ad ogni modo, il rapporto che corre fra il giudice nazionale e la Corte di giustizia non è di alternatività, ma di complementarietà, nel senso che il giudice nazionale è egli stesso interprete del diritto dell'Unione europea, indicandosi tale ruolo spesso con la dizione di “giudice comunitario di diritto comune” .
In questo senso, è stato osservato che, attraverso il rinvio pregiudiziale, il giudice nazionale non si spoglia in alcun modo del proprio potere giurisdizionale, per delegarlo alla Corte di giustizia, ma lo esercita pleno iure, formulando, ove ritenuto necessario ai fini della decisione, la richiesta incidentale alla Corte, in esito alla quale avrà il compito di applicare l’interpretazione fornita.
Si tratta, di un potere che, peraltro, esercita, in egual modo, anche quando ritenga, motivatamente, di non sentirsi nel caso concreto obbligato al rinvio pregiudiziale.
La capacità interpretativa del diritto comunitario riservata dall'art.267 TFUE alla Corte di Giustizia e la vincolatività che deriva dalla pronunzia adottata dalla stessa Corte non possono, dunque, confondersi con la funzione giurisdizionale riservata al giudice nazionale, che rimane di sua unica competenza, anche quando è in discussione una controversia per la quale rileva il diritto europeo, al cui interno si inserisce il rinvio pregiudiziale.
Si potrebbe così affermare che, se alla Corte di giustizia può essere delegata l’interpretazione del diritto europeo ex art. 267 TFUE, certamente, alla stessa non può essere affidata la funzione giurisdizionale, ossia quella di applicare il diritto ai fatti controversi tra le parti nel singolo processo, restando tale ultimo compito pienamente nella competenza del giudice interno al fine di decidere la causa.
Anche in caso di rinvio, poi, al magistrato nazionale appartiene, in via esclusiva, il potere di interpretare e applicare il diritto interno, rendendolo conforme al diritto eurounitario, come interpretato dalla Corte di giustizia nel caso concreto.

3. Gli effetti delle sentenze della Corte di giustizia nei confronti del giudice nazionale.

Si è soliti distinguere l'effetto endoprocessuale, ossia nei confronti del giudice remittente, delle pronunce della Corte di giustizia, rispetto a quello extraprocessuale, nei confronti degli altri organi giudiziari .
Nella prima ipotesi, sicuramente, il giudice remittente è vincolato a seguire l'interpretazione delle norme europee proposta dalla Corte per il proprio caso , mentre, per la seconda, si afferma, però, ormai pure che la decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto comunitario interpretata dalla stessa .
Si comprende, cioè, che le sentenze interpretative possono avere efficacia di “precedente” anche al di fuori del contesto che le hanno provocate, così da diventare vincolanti nei confronti di altri giudici che saranno tenuti in futuro ad applicarle.
D'altronde, come si è anticipato, il rinvio pregiudiziale è finalizzato ad assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione europea e tale scopo verrebbe, evidentemente, meno se le sentenze poi pronunciate avessero un effetto solo endoprocessuale.
Si rilevi, peraltro, che l’art. 23 dello Statuto della Corte dispone che gli Stati membri, la Commissione e le altre Istituzioni hanno il diritto di presentare le proprie osservazioni nelle cause pregiudiziali, con garanzia procedurale che trova la sua ratio proprio nel fatto che, una volta pronunciata la sentenza, la stessa produrrà effetti al di fuori della causa principale e dell’ordinamento giuridico nazionale del giudice remittente .
Peraltro, anche la Corte di cassazione ha argomentato che l'interpretazione adottata dalla Corte di giustizia ha efficacia "ultra partes", sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia interpretative e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, deve essere attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino "ex novo" norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia "erga omnes" nell'ambito della Comunità .
Ciò non toglie che, ovviamente, la linea interpretativa fornita dalla Corte possa anche essere modificata in un momento successivo, anche se tendenzialmente la stessa Corte, normalmente, si vincola al precedente.
Una volta riscontrato l'effetto di precedenti delle pronunce della Corte di giustizia, certamente, con riguardo a tale tematica, si può, ad ogni modo, pure sottolineare che, comunque, il giudice diverso da quello di rinvio mantiene anche un potere di “interpretazione” della sentenza che potrebbe portarlo a ritenerla “non vincolante”, per la distinzione esistente tra il caso sottoposto al proprio processo e quello originariamente proposto per l'analisi esegetica europea, anche sotto l'aspetto dei problemi affrontati, con non pertinenza, quindi, della soluzione ermeneutica rinvenuta (c.d. distinguishing).

4. L'inadempimento nell'applicazione del diritto comunitario e la responsabilità disciplinare.

Per comprendere l’estensione del valore vincolante anche per gli organi giudiziari non remittenti delle decisioni della Corte di giustizia in seguito al rinvio pregiudiziale, si può, poi, far menzione della norma che fonda in materia la responsabilità dello Stato per gli atti dei magistrati, nonché la responsabilità civile e disciplinare degli stessi , ossia l'articolo 2 della legge n. 117 del 1988, che sotto la rubrica “responsabilità per dolo e colpa grave”, così viene a disporre:

“1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia puo' agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali.
2. Fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non puo' dar luogo a responsabilita' l'attivita' di interpretazione di norme di diritto ne' quella di valutazione del fatto e delle prove.
3. Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l'affermazione di un fatto la cui esistenza e' incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
3-bis. Fermo restando il giudizio di responsabilita' contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonche' dell'inescusabilita' e della gravita' dell'inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell'Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonche' del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea”.

Con la legge n. 117 del 1988, è stata, infatti, introdotta - all'esito del referendum abrogativo del 1987 - una disciplina sulla responsabilità civile del magistrato profondamente riformata rispetto alle precedenti regole dettate dagli artt. 55, 56 e 74 cpc e quest'ultima, ad ogni modo, a sua volta, è stata oggetto di significative modifiche ancora apportate dalla legge n. 18/2015 , in conseguenza degli sviluppi della giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea .
Per quanto qui rileva, si noti che l'art. 2 della legge n. 117 del 1988 disegna i tratti della fattispecie illecita e il perimetro dei danni risarcibili richiamando pure il caso del “contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia”, a conferma di come le sentenze della stessa abbiano anche un effetto extraprocessuale, nei confronti di tutti gli organi giudiziari e non solo di quello remittente.
Analizzando, poi, più nello specifico, la disposizione, si può pure rilevare, dalla lettura del suo comma secondo, che non puo' dar luogo a responsabilita' l'attivita' di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove, salve le eccezioni contemplate dalla norma stessa.
Tra queste, il comma 3 illustra che costituisce colpa grave la “violazione manifesta” del diritto dell'Unione europea e il comma 3 bis contempla la possibilità di quest’ultima, per l’appunto, pure per il contrasto con l'interpretazione della Corte di giustizia, oltre che per la mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo (ossia per i soli organi di ultima istanza), del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
Anche per questo tenore normativo, dunque, risulta chiara la vincolatività erga omnes, per ogni organo giudiziario che si occupi della stessa questione affrontata dalla Corte giustizia delle pronunce in materia della stessa, salvo il caso del distinguishing e ricordandosi che la responsabilità civile e disciplinare sussiste pur sempre, però, solo in caso di “violazione manifesta”.
La mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale, come già anticipato, riguarda, invece, solo i giudici di ultima istanza , come si evince dal riferimento al solo paragrafo terzo dell'articolo 267 TFUE, posto nel comma tre bis dell'articolo 2 cit..
Nell'analisi della ratio legis della norma considerata, si può riflettere come venga a porre un bilanciamento tra la necessità di considerare la “libertà interpretativa” del singolo magistrato che deve pur sempre permanere e l'esigenza del rispetto del valore vincolante delle norme di legge interne ed europee.
In proposito, si può far riferimento alla sentenza Traghetti del Mediterraneo della Corte di giustizia , che viene a sottolineare che l'attività ermeneutica delle norme rientra nell’essenza vera e propria dell’attività giurisdizionale poiché, qualunque sia il settore considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti – nazionali e/o comunitarie – al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta.
Tuttavia, richiamando la sentenza Köbler, viene poi a rilevare che non si può escludere che una “violazione manifesta” del diritto comunitario vigente venga commessa, appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente.
Ciò posto, potendosi, dunque, porre, il problema di cosa si possa intendere, a tal punto, per “violazione manifesta”, si rilevi come l’articolo 2 della legge n. 117/88 stabilisca che, a tal fine, “si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonche' dell'inescusabilita' e della gravita' dell'inosservanza”.
Si deve, quindi, trattare di un inadempimento di particolare importanza.
Giova anche aggiungere che, sotto l'aspetto della responsabilità Statale, la materia, è stata, negli anni, affrontata diverse volte dalla Corte di giustizia che ha ricordato che, secondo costante orientamento della stessa, tre sono le condizioni in presenza delle quali innanzitutto lo Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni causati ai singoli per violazione del diritto dell’Unione al medesimo imputabile, vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi .
Ugualmente, la Corte giustizia ha chiarito che la responsabilità dello Stato per i danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado che violi una norma di diritto dell’Unione è disciplinata dalle stesse condizioni e ha precisato che, in tale contesto, la seconda di dette condizioni dev’essere intesa nel senso che consenta di invocare la responsabilità dello Stato solamente nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente .
Si può, dunque, concludere, nel senso che il concetto di “violazione manifesta” costituisce l'equilibrio così individuato tra la libertà interpretativa del giudice assicurata, comunque, dal comma due dell'articolo 2 cit., e l'esigenza che siano rispettate sia la legge interna (considerata nel comma 3), sia quella europea, come interpretata dalla Corte di giustizia.

5. L'immediata applicabilità delle sentenze della Corte di giustizia.

Una volta individuati il destinatari delle pronunce delle sentenze interpretative della Corte di giustizia in tutti gli organi giudiziari, occorre ulteriormente verificare l'effetto vincolante delle stesse nei loro contenuti, sotto l'aspetto della loro “diretta applicabilità”.
Con riguardo a tale tematica, infatti, si deve porre attenzione a come il nostro Giudice delle Leggi con la decisione n. 113/85 abbia affermato una “immediata applicabilità” delle sentenze interpretative del giudice comunitario .
Occorre, allora, verificare cosa si possa intendere con tali parole e prima di giungere alla conclusione per cui la Corte di giustizia potrebbe sempre “dettar legge” all'interno del nostro sistema giuridico con pronunce immediatamente applicabili.
In proposito, si può, innanzitutto, osservare come tale canone sia stato proposto, nel caso di cui alla sentenza n. 113/85, con riguardo a principio derivante per interpretazione della Corte di giustizia di un atto direttamente efficace anche a livello orizzontale, come un Trattato . Poi, è necessario sottolineare come, certamente, non essendo nelle proprie competenze, neppure la Corte di giustizia potrebbe venire a creare diritto oppure, ad esempio, a stabilire una diretta applicabilità a livello orizzontale per un atto come una direttiva che non abbia tale effetto nello stesso ordinamento comunitario o ancora a rendere sufficientemente dettagliata una previsione indeterminata e non autoapplicativa.
Proprio in questo senso, perciò la nostra Suprema Corte è venuta a chiarire che resta sicuramente affidata alla Corte di giustizia l'interpretazione del diritto comunitario, del quale le sentenze della Corte precisano autoritariamente il significato, definendone l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative, senza per questo che però possa creare ex novo norme comunitarie .
Anche la Corte di giustizia, cioè, si deve attenere al suo ruolo unicamente giurisdizionale e alle regole in materia di interpretazione che partono innanzitutto dal rispetto dell'efficacia differente delle singole norme comunitarie (regolamenti e direttive) e del limite ermeneutico per cui ogni soluzione esegetica deve pur rientrare “entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme” , non potendo eccedere rispetto alle parole della previsione da interpretarsi e al loro possibile significato, senza giungere a una inammissibile creazione di diritto.
Solo nei limiti in cui, dunque, la sentenza del giudice comunitario si sia mantenuta in una funzione interpretativa e non creativa di diritto, può godere del requisito dell'immediata applicabilità nel nostro ordinamento e pur sempre rispettando l'efficacia propria della disposizione interpretata (così, per le direttive, certamente solo a livello verticale).
Proprio in questo senso, d'altronde, da ultimo, la stessa Corte di giustizia, nella sentenza della Grande Sezione Thelen Technopark Berlin GmbH , è venuta ad affermare che “la Corte ha già dichiarato che le sentenze pronunciate a norma degli articoli da 258 a 260 TFUE hanno anzitutto lo scopo di definire i doveri degli Stati membri in caso di inosservanza dei loro obblighi e non di conferire diritti ai soggetti dell’ordinamento, fermo restando che tali diritti non scaturiscono da dette sentenze, ma dalle stesse norme del diritto dell’Unione”.

6. L'articolo 267 TFUE e il giudizio sulla validità degli atti comunitari.

 

Una diversa e ulteriore questione, attinente non al rinvio alla Corte di giustizia per l'interpretazione delle norme comunitarie, ma a quello sulla loro legittimità, riguarda, poi, in modo particolare i giudici non di ultima istanza.
E’ noto, infatti che l'articolo 267 TFUE prevede che la Corte di giustizia è competente a giudicare della validità degli atti compiuti dalle istituzioni europee, ossia della legittimità delle norme comunitarie.
Si tratta di un giudizio incidentale sulla legge comunitaria, assimilabile, in questo, a quello sulle norme interne davanti alla Corte costituzionale italiana.
Senonchè, il comma due dell'articolo 267 TFUE dispone che “quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione”.
Secondo il dato letterale di tale previsione - che contempla la parola “può” - dunque, il giudice ordinario non di ultimo grado, teoricamente, ha facoltà di sollevare o meno la questione pregiudiziale in caso di dubbio sulla validità degli atti comunitari.
In ragione di tale dettato normativo, quindi, teoricamente, il giudice non di ultima istanza potrebbe anche giudicare direttamente della validità dell'atto comunitario, avendo solamente “facoltà” e non un obbligo di sollevare la questione davanti alla Corte di giustizia (in modo analogo che per i problemi di tipo interpretativo) .
Tuttavia, di fronte a tale possibilità che il giudice interno ordinario non di ultima istanza venisse a giudicare direttamente della validità degli atti normativi europei, è prontamente intervenuta la Corte di giustizia con la sentenza Foto-Frost , che, in modo radicale, la ha esclusa .
A quest'ultimo resta allora solo la facoltà di respingere i motivi di invalidità dedotti dalle parti davanti allo stesso, concludendo che l'atto è pienamente valido, mentre spetta viceversa unicamente alla Corte di giustizia dichiarare invalido l’atto di un’istituzione, di un organo o di un organismo dell’Unione.
Cosicché, qualora sospetti della legittimità di un atto comunitario, il giudice nazionale può unicamente rivolgere una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte, indicando i motivi per cui ritiene che detto atto possa essere viziato.
Nella sentenza Foto Frost, la Corte di giustizia, poi, tiene ad illustrare che tale regolamentazione è informata, in primo luogo, all'esigenza di uniformità nell'applicazione del diritto comunitario.
Infatti, divergenze fra i giudici degli Stati membri circa la validità degli atti comunitari potrebbero compromettere la stessa unità dell'ordinamento giuridico europeo e ledere il principio fondamentale della certezza del diritto.
Inoltre, sottolinea che la propria impostazione trova conferma nell'allora articolo 173 del Trattato CEE (oggi articolo 264 TFUE) che ha attribuito solo alla stessa la competenza esclusiva per annullare un atto di un'istituzione comunitaria .
Dunque, certamente, il giudice interno non può giudicare della validità degli atti comunitari e nemmeno disapplicarli, neppure quando fossero contrastanti con la Carta di Nizza o con le norme di un Trattato dell'Unione .

 CAPITOLO II: LE CORRETTE MODALITÀ PER SOLLEVARE UNA QUESTIONE PREGIUDIZIALE.

1. Le possibilità di rinvio pregiudiziale e l'autonomia decisionale del giudice nel sollevare la questione di pregiudizialità.

Come finora illustrato, per entrambe le tipologie di giudici, sia ordinari che di ultima istanza, è possibile il rinvio alla Corte di giustizia per due fondamentali motivi, rappresentati nel medesimo articolo 267 TFUE, per il quale la questione pregiudiziale può riguardare l'interpretazione dei trattati e degli altri atti comunitari oppure il dubbio della validità degli atti compiuti dalle istituzioni.
Quanto alle modalità di trasmissione degli atti alla Corte di giustizia, non sono previste particolari forme. Infatti, al giudice nazionale è consentito inoltrare il rinvio pregiudiziale nella forma di un atto giurisdizionale redatto secondo le norme procedurali proprie dello Stato membro di appartenenza.
Ad ogni modo, pur con tale premessa della libertà formale, si deve sottolineare che la Corte di giustizia ha, comunque, pubblicato, negli anni, diverse “Raccomandazioni” circa i contenuti che dovrebbe avere un rinvio pregiudiziale.
Queste ultime saranno esaminate, nel presente scritto, nella versione recente del 2019.
Si può solo qui già anticipare che, una volta che la domanda pregiudiziale sia stata realizzata nel modo più opportuno, è previsto che venga tradotta in tutte le lingue dell'Unione dal servizio di traduzione della Corte.
Poi, la Cancelleria la notifica alle parti coinvolte nella causa principale, a tutti gli Stati membri e alle istituzioni dell'Unione e, inoltre, fa pubblicare nella Gazzetta ufficiale una comunicazione che indichi, in particolare, il contenuto delle questioni e le parti in causa.
Queste ultime, gli Stati membri e le Istituzioni dispongono, da allora, ai sensi dell'articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia, di due mesi per sottoporre alla stessa le loro osservazioni scritte .
Ancora preliminarmente, si può rammentare che i ricorsi previsti dall'articolo 267 TFUE sulla interpretazione e sulla validità degli atti comunitari sono definiti “indiretti”, in quanto le parti non hanno legittimazione immediata di sollevare la questione davanti alla Corte di giustizia, a differenza di quanto accade per quelli c.d. “diretti”, come, ad esempio, quelli di cui all'articolo 263 o di cui all’articolo 265 TFUE.
La natura di ricorso di tipo indiretto non è irrilevante, in quanto, nella materia del rinvio pregiudiziale, il giudice europeo ha precisato, più volte, come l'unico soggetto competente e responsabile di decidere se sollevare la questione sia lo stesso magistrato, a nulla valendo, in caso di diverso avviso di questi, l'istanza delle parti.
Ad esempio, in particolare, nella già citata sentenza Consorzio Italian Management , si è tenuto a illustrare che il sistema di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, instaurato dall’articolo 267 TFUE, è estraneo ad ogni iniziativa delle parti , che non possono privare i giudici nazionali della loro indipendenza nell’esercizio del potere di valutazione, obbligandoli a presentare una domanda di pronunzia pregiudiziale.
Il sistema instaurato dall’articolo 267 TFUE non costituisce, quindi, un rimedio giuridico esperibile dalle difese in una controversia dinanzi a un giudice nazionale.
Pertanto, non basta che una parte sostenga che si ponga una questione di interpretazione del diritto dell’Unione perché il giudice interessato sia obbligato a sollevarla ai sensi dell’articolo 267 TFUE .
Da ciò consegue che anche la determinazione contenutistica e la formulazione delle questioni da sottoporre alla Corte spettano unicamente al giudice nazionale e che le parti in causa nel procedimento principale non possono modificarne il tenore .
Inoltre, spetta al solo magistrato decidere se la questione sia effettivamente “rilevante”, ossia se la norma europea per cui si possa porre un dubbio interpretativo o di validità possa essere decisiva per il giudizio e in quale fase del procedimento sia necessario sottoporre alla Corte la questione pregiudiziale , fermo restando tuttavia che quest’ultima non è competente a conoscere del rinvio, qualora, nel momento in cui esso viene effettuato, il giudizio dinanzi al giudice a quo si sia ormai concluso .
Per questo, ovviamente, nel caso, occorre sospendere il processo, salvo per le questioni, specialmente cautelari, che siano indipendenti e trattabili a prescindere dalla valutazione dalla Corte di giustizia .
Trattandosi di un ricorso indiretto, analoghe considerazioni valgono anche per l'autonomia decisionale del giudice di ultima istanza, che, però, può dirsi esonerato dal vincolo di cui al comma terzo dell'articolo 267 TFUE solo alle condizioni individuate dalla stessa magistratura europea e che saranno esaminate nel prosieguo della trattazione.

2. Le Raccomandazioni del 2019 della Corte di giustizia.

Questi concetti e diversi altri sono ripresi nelle “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale”, pubblicate nel 2019 sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea .
Nella loro introduzione spiegano che debbono servire ad assicurare la piena efficacia di tale procedimento, ricordandone le caratteristiche essenziali e fornendo alcune precisazioni dirette a chiarire le disposizioni del Regolamento di procedura per quanto riguarda, in particolare, l’autore, l’oggetto e la portata della domanda di pronuncia pregiudiziale, nonché la forma e il contenuto della stessa .
E’ interessante, innanzitutto, una prima annotazione contenuta in tali Raccomandazioni, volta a specificare le caratteristiche dell'organo che possa definirsi giurisdizionale e, proprio in quanto tale, dunque, legittimato a sollevare la questione ex articolo 267 TFUE.
In proposito, è chiarito che la Corte, in tale analisi, tiene conto di un insieme di elementi quali il fondamento legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente.
Poi, seguendo il tenore dell'articolo 267, si viene a distinguere il caso in cui il rinvio sia disposto da un giudice che sia o meno di ultima istanza.
In quest'ultima ipotesi in cui il magistrato ordinario non di ultimo grado ha solo la facoltà e non l'obbligo di rinvio alla Corte di giustizia con riguardo alle problematiche ermeneutiche delle norme europee, si viene ad invitarlo, comunque, a trasmettere gli atti, allorché si tratti di una questione di interpretazione nuova che presenta un interesse generale per l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione o quando la giurisprudenza esistente non sembri fornire i chiarimenti necessari, in un contesto di diritto o di fatto inedito.
Quanto, poi, alla diversa tematica della possibilità di giudizio da parte dei giudici nazionali sulla validità degli atti comunitari, nonostante il tenore letterale dell'articolo 267, che sembrerebbe legittimare i giudici, anche non di ultimo grado, pure a un giudizio di validità diretto e immediato sugli atti comunitari, anche le Raccomandazioni vengono ad escludere categoricamente tale facoltà e a richiamare la giurisprudenza costante della Corte di giustizia che, come già anticipato, riserva tale competenza a quest'ultima in modo esclusivo, lasciando ai giudici nazionali solo la facoltà di respingere i motivi di invalidità dedotti contro un atto di un’istituzione, di un organo o di un organismo dell’Unione.
In altri termini, qualora un magistrato di uno Stato membro nutra dubbi sulla validità di un atto normativo europeo, può solo rivolgersi alla Corte, indicando i motivi di rilievo e non disapplicarlo.

 

3. Il requisito della rilevanza della domanda pregiudiziale.

Le Raccomandazioni del 2019 vengono, innanzitutto, a sottolineare come, poiché la competenza della Corte di giustizia riguarda la normazione europea, la domanda di interpretazione che si possa proporre alla stessa non deve attenere alle norme nazionali quanto piuttosto a quelle eurounitarie.
Inoltre, affermano l'esigenza di verificare il requisito della “rilevanza” o “pertinenza” della questione proposta, nel senso che il magistrato remittente deve esporre tutti gli elementi, di fatto e di diritto, che lo inducono a ritenere che determinate disposizioni del diritto dell’Unione siano applicabili nel caso di specie.
Il requisito della rilevanza ben si comprende se si tiene conto che la funzione della Corte nell’ambito del procedimento pregiudiziale è quella di contribuire all’effettiva amministrazione della giustizia negli Stati membri e non di formulare pareri consultivi su questioni generali o ipotetiche.
Qualora, poi, il rinvio venga effettuato per una verifica ai sensi della Carta di Nizza, vi è un’ulteriore importante sottolineatura posta nelle Raccomandazioni medesime.
Infatti, è specificato che, in forza dell’articolo 51, paragrafo 1, della stessa, le sue disposizioni si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione.
Pertanto, è necessario che, dalla domanda di pronuncia pregiudiziale, risulti in maniera chiara e inequivoca che una norma di diritto dell’Unione “diversa dalla Carta” sia applicabile nel procedimento principale. Questo perché, siccome la Corte non è competente a statuire su una domanda di pronuncia pregiudiziale se una situazione giuridica non rientra nell’ambito di competenza del diritto dell’Unione, le disposizioni della Carta eventualmente richiamate dal giudice del rinvio non possono, da sole, costituire il fondamento di tale competenza .
Ancora, si viene a chiarire che la Corte non applica direttamente il diritto dell’Unione al procedimento gestito dal giudice remittente, al quale spetta trarre le conseguenze della pronuncia europea, eventualmente anche disapplicando all’occorrenza la norma nazionale giudicata incompatibile con quella europea.
Quanto al momento opportuno in cui sollevare la questione di pregiudizialità, le Raccomandazioni vengono a confermare la discrezionalità assoluta del magistrato nazionale nella sua scelta, anche se, poi, evidenziano che, siccome la Corte di giustizia deve poter disporre di tutti gli elementi , è necessario che la decisione di effettuare un rinvio venga presa in una fase del procedimento nella quale si sia in grado di definire con sufficiente precisione il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale, nonché le questioni giuridiche da porre.

4. La forma e il contenuto della domanda di pronuncia pregiudiziale

Come già anticipato, l'istanza di pronuncia pregiudiziale può rivestire qualsiasi forma ammessa dal diritto nazionale.
Tuttavia, le Raccomandazioni evidenziano che, poiché vi è la necessità di tradurre la domanda di pronuncia pregiudiziale in tutte le lingue ufficiali dell’Unione europea, è richiesta da parte del giudice del rinvio una redazione semplice, chiara e precisa, senza elementi superflui e che una decina di pagine è spesso sufficiente per esporre in maniera adeguata il contesto di diritto e di fatto, nonché i motivi per i quali la Corte è adita.
Il contenuto di qualsiasi domanda di pronuncia pregiudiziale è, poi, stabilito dall’articolo 94 del Regolamento di procedura della Corte e nelle Raccomandazioni lo si richiama, con la specificazione che l'atto di rinvio deve contenere:
— un’illustrazione sommaria dell’oggetto della controversia di cui al procedimento principale nonché dei fatti rilevanti, quali accertati dal giudice del rinvio o, quanto meno, un’illustrazione delle circostanze di fatto sulle quali si basano le questioni pregiudiziali;
— il contenuto delle norme nazionali applicabili alla fattispecie e, se del caso, la giurisprudenza nazionale in materia, nonché
— l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile al procedimento principale.

Il richiamo è giustificato dall'importanza della completezza della domanda poiché, in mancanza di tali elementi, la Corte può essere indotta, sulla base dell’articolo 53, paragrafo 2, del Regolamento di procedura , a dichiararsi incompetente a statuire sulle questioni sollevate in via pregiudiziale o a respingere la domanda di pronuncia pregiudiziale in quanto irricevibile.
E’ bene, qui, anche rammentare che qualora faccia riferimento alla giurisprudenza della Corte, il giudice del rinvio è inoltre invitato a menzionare il numero ECLI («European Case Law Identifier») della decisione interessata.
Precisano ancora le Raccomandazioni del 2019 che, se il giudice del rinvio lo ritiene necessario ai fini della comprensione della causa, può indicare, succintamente, i principali argomenti delle parti del procedimento principale e sinteticamente il proprio punto di vista sulla risposta da dare alle questioni sottoposte.
Ancora, vi è l'istruzione che le questioni suddette devono figurare in una parte distinta e chiaramente individuata della decisione di rinvio, preferibilmente all’inizio o alla fine di questa e devono essere comprensibili già da sole, senza che occorra far riferimento alla motivazione della domanda.
A tal fine, è utile pure ricordare che viene tradotta soltanto la domanda di pronuncia pregiudiziale, e non gli eventuali allegati a tale domanda.
E’ essenziale, ovviamente, poi, che la istanza suddetta giunga dattilografata alla Corte e che le pagine e i paragrafi della decisione di rinvio siano numerati.
La Corte non tratta, infatti, le richieste redatte a mano.
Inoltre, per la garantire la protezione dei dati personali, vi è l'invito a rendere anonimi gli stessi nel rinvio pregiudiziale, sostituendo, ad esempio attraverso iniziali o una combinazione di lettere, il nome delle persone fisiche menzionate nella domanda e omettendo gli elementi che potrebbero consentire di identificare tali persone.
La istanza di pronuncia pregiudiziale deve essere, infine, datata e firmata, e successivamente trasmessa alla cancelleria della Corte, per via telematica o postale .

5. Il procedimento accelerato e d’urgenza.

Ai sensi dell’articolo 23 bis dello Statuto , nonché dagli articoli da 105 a 114 del Regolamento di procedura della Corte di giustizia, un rinvio pregiudiziale può essere trattato, in presenza di determinate circostanze, con procedimento accelerato o con procedimento d’urgenza.
L’attuazione di tali procedimenti è decisa dalla Corte su presentazione, da parte del giudice del rinvio, di una domanda separata, debitamente motivata, che espone le circostanze, di diritto o di fatto, che giustificano l’applicazione di tale procedimento oppure, a titolo eccezionale, d’ufficio, ove ciò appaia indispensabile in base alla natura o alle circostanze specifiche della causa.
In tale procedimento, è richiesto al complesso degli Stati membri di presentare osservazioni, scritte o orali, in termini molto più brevi di quelli ordinari ed è possibile promuoverlo solo in casi tassativi, come, ad esempio, in caso di rischi elevati e imminenti per la salute pubblica o l’ambiente, che una rapida decisione della Corte può contribuire a prevenire, o quando circostanze particolari impongano di rimuovere in tempi brevissimi incertezze riguardanti questioni fondamentali di diritto costituzionale nazionale e di diritto dell’Unione.
Un'esigenza del giudice del rinvio di decidere rapidamente non costituisce, invece, in quanto tale, una circostanza che possa giustificare il ricorso ad un procedimento accelerato .

6. L'allegato alle Raccomandazioni: gli elementi essenziali di una domanda pregiudiziale.

 

Con riguardo ai contenuti e alle forme dell'atto di rinvio pregiudiziale, ad ogni modo, si può, ancora, da ultimo, richiamare l'allegato alle Raccomandazioni finora descritte, che indica i seguenti elementi da inserire nello stesso:

1. l’identità del giudice all’origine del rinvio e, se del caso, della sezione o del collegio giudicante competente;
2. l’identità precisa delle parti del procedimento principale e, se del caso, dei loro rappresentanti dinanzi al giudice del rinvio;
3. l’oggetto del procedimento principale e i fatti rilevanti;
4. le disposizioni rilevanti del diritto nazionale e del diritto dell’Unione;
5. i motivi che inducono il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione;
6. le questioni pregiudiziali e, se del caso,
7. l’eventuale necessità di un trattamento specifico della domanda legato, ad esempio, alla necessità di mantenere l’anonimato delle persone fisiche interessate dalla controversia o alla particolare celerità con la quale la domanda dev’essere trattata dalla Corte.

 CAPITOLO III: IL GIUDICE DI ULTIMA ISTANZA E LE POSSIBILITÀ DI SUO ESONERO DALL'OBBLIGO DI SOLLEVARE LA QUESTIONE DI PREGIUDIZIALITÀ.

1. I dubbi circa l'esigenza di sollevare sempre la questione di pregiudizialità da parte dell'organo giudiziario di ultima istanza.

Come anticipato, per i magistrati di ultima istanza, l'articolo 267 TFUE pone un obbligo e non una facoltà di sollevare la questione di pregiudizialità in caso di incertezze sull'interpretazione o sulla validità degli atti comunitari, collegato alla ratio di garantire che il diritto comunitario sia interpretato e applicato in modo uniforme in tutti gli Stati membri.
Senonchè, ben presto, fin dalle prime pronunce di rilievo della Corte di giustizia, si sono sollevati dei dubbi circa l'esigenza di avviare sempre e comunque la questione di pregiudizialità, per gli organi giudiziari per cui non sia prevista impugnazione.
Nella storica sentenza Hoffmann-La Roche , ad esempio, è stata, innanzitutto, posta la questione con riguardo all'ambito dei procedimenti di tipo sommario e la Corte di giustizia ha risolto la questione nel senso che si deve intendere che “il giudice nazionale non è tenuto a sottoporre alla Corte una questione interpretativa o di validità contemplata da detto articolo qualora la questione venga sollevata in un procedimento sommario ('einstweilige verfugung'), nemmeno se la decisione da adottarsi nell'ambito di detto procedimento non sia ulteriormente impugnabile, semprechè le parti processuali possano dare inizio o esigere che venga dato inizio ad un giudizio di merito, nel quale la questione provvisoriamente risolta nel procedimento sommario possa essere riesaminata e costituire oggetto di rinvio”.
Ugualmente, poi, il problema si è posto per il caso in cui i contendenti vengano a sostenere che vi sarebbe una questione interpretativa che potrebbe richiedere un rinvio pregiudiziale, laddove, viceversa, l'organo giudiziario di ultima istanza dello Stato membro ritenga la tematica sufficientemente chiara .
Si è, cioè, formulato il dubbio che quest'ultimo, in tali casi, sia sempre necessariamente vincolato a sollevare la questione pregiudiziale.
Inoltre, è sorta la problematica di quali avrebbero potuto essere le conseguenze, qualora l'organo più elevato della magistratura interna, per quanto fosse tenuto obbligatoriamente a inviare gli atti alla Corte di giustizia, non vi avesse provveduto.
Una prima interpretazione a tali domande è stata offerta dalla Corte di giustizia nella sentenza Da Costa del 1963 , nella quale, dapprima, ha rilevato che, nella lettura delle norme sul rinvio pregiudiziale, sebbene l'articolo 177 del Trattato CEE, ultimo comma, imponga, senza restrizioni, ai fori nazionali le cui decisioni non sono impugnabili secondo l'ordinamento interno, di deferire alla Corte qualsiasi questione d'interpretazione davanti ad essi sollevata, “l'autorità dell'interpretazione data dalla Corte ai sensi dell' articolo 177 puo' tuttavia far cadere la causa di tale obbligo e cosi' renderlo senza contenuto. Cio' si verifica in ispecie qualora la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale”.
Dunque, con tale prima analisi esegetica la Corte di giustizia è venuta a impostare quella che poi sarà definita la “dottrina dell'atto chiaro”, ossia la tesi per cui, nonostante il tenore letterale dell'articolo 177 di allora, e oggi dell'articolo 267 TFUE, anche il giudice di ultima istanza non è tenuto al rinvio pregiudiziale, qualora non sussistano effettivi dubbi interpretativi delle disposizioni europee .
La soluzione ermeneutica così rinvenuta risulta apprezzabile per consentire un bilanciamento tra l'esigenza di uniformità dell'interpretazione del diritto europeo tra gli Stati membri e, al contempo, favorire una pronta definizione dei giudizi, senza che venga rallentato il processo da un rinvio pregiudiziale, ove non sia necessario.

2. La sentenza Cilfit della Corte di giustizia e la dottrina dell'“atto chiaro”.

La sentenza Da Costa è stata, poi, seguita dall'ancor più importante sentenza Cilfit che è venuta a chiarire i presupposti in cui il giudice di ultimo grado è esentato dall'obbligo di rinvio pregiudiziale.
In particolare, in quel caso, la Corte di cassazione italiana aveva chiesto alla Corte di giustizia se il terzo comma dell’art. 177 del Trattato implica che l'organo di ultima istanza sia tenuto a rivolgersi a quest'ultima senza alcuna delibazione di fondatezza della questione sollevata ovvero subordini tale obbligo al preventivo riscontro di un ragionevole dubbio interpretativo.
Ora, il giudice comunitario ha innanzitutto evidenziato che è il giudice interno l'unico responsabile e titolato a sollevare una questione di pregiudizialità, cosicché ogni valutazione a questi compete e non basta, per rendere obbligatorio un rinvio, che una parte sostenga che la controversia pone una questione di interpretazione del diritto comunitario.
In secondo luogo, la sentenza Cilfit mette in luce che, dal rapporto fra i commi 2 e 3 dell’art. 177, discende che i giudici di massimo grado dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto comunitario e non sono pertanto tenuti a sottoporre alla Corte una questione di interpretazione di norme comunitarie sollevata, se questa non è pertinente.
Il primo requisito perché sussista un vincolo di trasmissione degli atti alla Corte di giustizia, è, dunque, la “pertinenza”, ossia l'esigenza che la normativa comunitaria da interpretarsi possa incidere nella definizione del processo, in modo simile al presupposto della rilevanza nell'ambito delle eccezioni proposte davanti alla nostra Corte costituzionale.
In proposito, per inciso, si può comunque qui sottolineare, con riguardo al requisito della pertinenza, che, in molteplici decisioni della Corte di giustizia, è affermato che questo elemento dallo stesso giudice comunitario si presume come sussistente in seguito alla valutazione del giudice nazionale.
Infatti, secondo la Corte, spetta soltanto al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolarità del caso di specie, tanto la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, quanto la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte.
Di conseguenza, se le questioni sollevate vertono sull’interpretazione di una norma giuridica dell’Unione, la Corte è, in via di principio, tenuta a statuire, salvo quando appaia, in modo manifesto, che l’interpretazione di una norma dell’Unione non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della controversia principale, qualora il problema sia di natura ipotetica oppure, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una risposta utile alle questioni che le vengono sottoposte.
Quanto agli ulteriori casi in cui si possano esonerare i giudici di ultima istanza dall'obbligo di rinvio pregiudiziale, la sentenza Cilfit, innanzitutto, richiamando ancora il proprio precedente Da Costa, evidenzia come non siano tenuti a sollevare la questione qualora sarebbe identica a un'altra già decisa in precedenza dal giudice europeo (c.d. “atto già chiarito”, c.d. acte éclairé).
Inoltre, un tale vincolo non sussiste, secondo la medesima pronuncia, allorché risulti da una giurisprudenza costante della Corte che, indipendentemente dalla natura dei procedimenti da cui sia stata prodotta, si possa dare per risolta la questione interpretativa, senza ragionevole dubbio.
Occorre, cioè, che “la corretta applicazione del diritto comunitario” possa imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata (c.d. acte clair).
Senonchè, la soluzione esegetica proposta dalla sentenza Cilfit richiede anche che il giudice nazionale debba maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di giustizia (punto 16).
Appare, allora, evidente la complessità di verifica di tale ultimo requisito e, per di più, la configurabilità di tale eventualità, secondo la stessa decisione europea, deve essere valutata in funzione delle caratteristiche del diritto comunitario e delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta.
In particolare, il giudice nazionale, in tale ponderazione, deve rammentare che le norme comunitarie sono redatte in diverse lingue e che le varie versioni linguistiche fanno fede nella stessa misura: l’interpretazione di una norma comunitaria comporta quindi il raffronto di tali versioni.
Inoltre, anche nel caso di piena concordanza delle versioni linguistiche, ancora si deve tener presente, nell'esame esegetico, che il diritto comunitario impiega una terminologia che gli è propria e che le nozioni giuridiche non presentano necessariamente lo stesso contenuto nel diritto comunitario e nei vari diritti nazionali.
Tutto ciò posto, appare, dunque, evidente la difficoltà applicativa di quelli che sono stati definiti i “criteri della sentenza Cilift” e che sono stati richiamati dalla giurisprudenza europea successiva in maniera costante.
Dopo tale pronuncia, regolarmente citandola, infatti, la Corte di giustizia è venuta ad affermare che, certamente, un siffatto obbligo non grava su un organo giurisdizionale non appellabile qualora quest’ultimo constati “che la questione sollevata non è rilevante, o che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi; la configurabilità di una simile eventualità dev’essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali all’interno dell’Unione” .
La giurisprudenza successiva ha, quindi, confermato i principi espressi dalla sentenza Cilfit , con la precisazione, da un lato, che “il giudice nazionale, le cui decisioni non siano più soggette a ricorso giurisdizionale, è tenuto a rivolgersi alla Corte in via pregiudiziale in presenza del minimo dubbio riguardo all’interpretazione o alla corretta applicazione del diritto dell’Unione” e, dall’altro, che “l’assenza di dubbi in tal senso necessita di prova circostanziata” .
Tali ultimi criteri della sentenza Cilfit appaiono, però, parzialmente attenuati e sotto alcuni aspetti specificati, dalla sentenza Consorzio Italian Management del 6 ottobre 2021.

In particolare, in quest'ultima pronuncia, in senso ulteriormente esplicativo della sentenza Cilfit, si può rilevare, ad esempio, che ha chiarito, al punto 4, che un giudice nazionale di ultima istanza non può certamente essere tenuto a effettuare un esame di ciascuna delle versioni linguistiche della disposizione dell’Unione di cui trattasi, ma ciò non toglie che deve tener conto delle divergenze tra le versioni linguistiche di tale disposizione di cui è a conoscenza, segnatamente quando tali divergenze sono esposte dalle parti e sono comprovate.
Inoltre, nel successivo punto 48, ha evidenziato che “la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di queste altre letture appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, segnatamente alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione”.

4. La responsabilità risarcitoria dello Stato membro per violazione del diritto comunitario da parte dei propri organi giudiziari: la sentenza Köbler.

Con tali premesse, risultano chiari i termini del problema per i giudici di ultima istanza, laddove si trovino di fronte a norme comunitarie che riterrebbero già sufficientemente chiare per la loro applicazione, dovendo verificare, per evitare il rinvio pregiudiziale, la sussistenza di tutti i presupposti di cui ai criteri della sentenza Cilfit.
Oltremodo, però, la tematica risulta resa complessa e accesa dall'ulteriore orientamento della Corte di giustizia per cui lo Stato membro può venire a rispondere a livello risarcitorio per la violazione o mancata applicazione del diritto comunitario anche da parte del proprio organo giudiziario di ultima istanza e anche nel caso di violazione del dovere di rinvio pregiudiziale.
Come già anticipato, si tratta filone giurisprudenziale che si è formato in seguito alla sentenza Köbler del 2003 della Corte di giustizia , per la quale in caso di mancato rinvio pregiudiziale, allorché il giudice ne fosse tenuto, lo Stato membro è tenuto al risarcimento del danno alle seguenti tre condizioni: si deve trattare (I) dell'inadempimento rispetto a un vincolo di rinvio alla Corte di giustizia con riferimento a una norma europea preordinata a conferire diritti ai singoli, (II) di una violazione grave e manifesta e deve sussistere (III) un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi .
E’ un criterio generale valido anche per i singoli giudici di merito in caso di inadempimento nell'adozione del diritto comunitario da cui derivi un danno.
Nella sentenza Köbler, ad ogni modo, la Corte di giustizia viene a specificare che il giudice nazionale investito dalla causa risarcitoria deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato (par. 54 e 55), tra i quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l'inescusabilità dell'errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria, nonché la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
In più, la stessa pronuncia è venuta a chiarire che una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata allorché la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte stessa e viene, in questo senso, in quel caso, ad escludere il diritto risarcitorio per il fatto che il giudice che non aveva effettuato il rinvio pregiudiziale aveva compiuto tale scelta leggendo la norma secondo una possibile interpretazione del diritto europeo.

7. Le sentenze successive della Corte di giustizia in materia risarcitoria per violazione del diritto comunitario da parte dell'organo giudiziario dello Stato membro.

La giurisprudenza circa gli obblighi risarcitori per gli Stati membri per le violazioni del diritto comunitario da parte degli organi di ultima istanza nel sollevare la questione di pregiudizialità ex articolo 267 TFUE è stata proposta e sviluppata ulteriormente dalla Corte di giustizia nelle pronunce successive e, da ultimo, nella sentenza Commissione europea - Repubblica francese del 2018.
Con tale pronuncia, la Corte di giustizia, in particolare, dapprima ha ricordato l'importanza dello scopo del rinvio pregiudiziale per l'uniforme applicazione del diritto comunitario , poi ha citato i criteri della decisione Cilfit per cui anche giudice di ultima istanza possa essere esonerato da tale vincolo di remissione degli atti.
Con riguardo agli stessi, richiama, nella specie, il caso di esonero dal rinvio pregiudiziale per cui la disposizione del diritto dell’Unione possa essere già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte ovvero che la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.
Senonchè, la Corte di giustizia, in particolare, viene a sottolineare come il Consiglio di Stato francese non potesse avere certezza della propria interpretazione vertente sulla materia tributaria, considerato come anche le norme fiscali fossero diverse in differenti Stati e perché avrebbe anche potuto imporsi una soluzione esegetica differente, così come, poi, effettivamente è stato, proprio per la stessa pronuncia Commissione europea - Repubblica francese, con sussistenza, pertanto, di un ragionevole dubbio.
Quindi, il giudice europeo ha ritenuto violato il diritto comunitario per l'esigenza di rinvio pregiudiziale da parte dell'organo di ultima istanza francese e meritevole di risarcimento del danno la parte privata pregiudicata da una non corretta soluzione giuridica nell'interpretazione del diritto dell'Unione.
Occorre, a tal punto, riflettere come per giungere alla propria conclusione nella sentenza in commento, la Corte di giustizia non venga ad argomentare in modo particolare il difetto di una corretta analisi da parte del Consiglio di Stato francese, ma venga a trarre la prova del ragionevole dubbio interpretativo solo per l'esistenza di nozioni diverse nella materia tributaria e dal fatto che poi, effettivamente, la stessa Corte è pervenuta a una soluzione ermeneutica differente rispetto a quella adottata da parte della magistratura francese.
Sotto quest'ultimo aspetto cioè, l'esito differente esegetico viene, per la Corte di giustizia, a confermare la possibilità di un ragionevole dubbio che avrebbe richiesto al Consiglio di Stato francese di sollevare la questione pregiudiziale.

8. I nuovi dubbi del Consiglio di Stato italiano.

Di fronte a tutto ciò, appare evidente la difficile posizione in cui si trovino oggi le magistrature di ultima istanza.
Quand'anche, infatti, ritengano la norma comunitaria sufficientemente chiara e non ritengano di sollevare la questione pregiudiziale, nel caso in cui, poi, non sussistano effettivamente tutti i requisiti stabiliti dalla sentenza Cilfit, pur di difficile esame anticipato (si consideri, ad esempio, la complessità di appurare se la soluzione ermeneutica prescelta si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di giustizia medesima ), potrebbero esporre lo Stato membro a un onere risarcitorio.
Diversamente, qualora di fronte a questo pericolo, per prevenirlo, pongano un rinvio alla Corte di giustizia, per raggiungere il risultato di una soluzione ermeneutica che ritengano già chiara, pur certamente evitando una tale responsabilità risarcitoria, determinerebbero un allungamento dei tempi del processo in violazione dell'articolo 111 della nostra Costituzione e dell’art. 47, comma 2, della Carta di Nizza.
Per questi motivi, il Consiglio di Stato italiano, con una recente decisione , ha proposto un'ulteriore questione pregiudiziale, chiedendo al giudice europeo di interpretare nuovamente la propria sentenza Cilfit .
In particolare, il supremo organo di giustizia amministrativa ha evidenziato la problematicità del criterio Cilfit per cui il giudice nazionale dovrebbe maturare il convincimento che l'interpretazione che sembrerebbe allo stesso evidente si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di Giustizia.
In questo senso, ha evidenziato che le condizioni poste da tale pronuncia per escludere l’obbligo di rinvio pregiudiziale gravante sul giudice di ultima istanza ex art. 267 TFUE, risultano:

– di difficile accertamento nella parte in cui fanno riferimento alla necessità che il giudice procedente, certo dell’interpretazione e dell’applicazione da dare al diritto unionale rilevante per la soluzione della controversia nazionale, provi in maniera circostanziata che la medesima evidenza si imponga anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte;
– foriere di responsabilità civile per il giudice supremo nazionale italiano, in base alla norma sancita dall’art. 2, comma 3-bis, l. n. 117 del 1988 e di un rischio di un accertamento disciplinare ai sensi dell’art. 9, comma 1, della stessa legge .

Ha rappresentato, poi, che, con tali condizioni, il magistrato interno è costretto a disporre un rinvio pregiudiziale in ogni caso, allungando di molto i tempi di risoluzione della controversia, in violazione del principio costituzionale (art. 111, comma 2, Cost.) ed europeo (art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), della ragionevole durata del processo.
Per questo, per assicurare una concreta possibilità di applicazione delle condizioni enunciate dalla Corte di giustizia come deroga all’obbligo di rinvio pregiudiziale, nella parte in cui si riferiscono all’evidenza nella corretta applicazione del diritto europeo “tale da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata”, ha chiesto ulteriori chiarimenti, in particolar modo se tale elemento dovesse intendersi in modo soggettivo o in modo oggettivo.
In altri termini, qualora si debba intendere tale carattere in senso soggettivo, il giudice nazionale dovrebbe motivare in ordine alla possibile interpretazione suscettibile di essere data alla medesima questione dai giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di giustizia ove investiti di identica questione.
Viceversa, secondo la preferibile interpretazione di tipo oggettivo, proposta dal Consiglio di Stato al fine di evitare una probatio diabolica, dovrebbe essere sufficiente accertare la manifesta infondatezza della questione pregiudiziale posta nell’ambito del giudizio nazionale, escludendo la sussistenza di ragionevoli dubbi al riguardo, tenuto conto – senza un’indagine sul concreto atteggiamento interpretativo che potrebbero tenere distinti organi giurisdizionali – della terminologia e del significato propri del diritto unionale attribuibili alle parole componenti la disposizione europea, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione. Si tratta, cioè, di un esame oggettivo circa l’esistenza o meno di plurime e/o alternative interpretazioni della norma unionale.
Inoltre, ha proposto ancora un quesito pregiudiziale per cui si dovrebbe escludere una responsabilità civile e disciplinare automatica del magistrato in caso di errore.
E’ chiaro che la magistratura amministrativa è stata particolarmente sensibilizzata dalla decisione di condanna del Consiglio di Stato francese nella sentenza Commissione europea - Repubblica francese e che, con la propria ulteriore questione pregiudiziale, è venuta a porre la tematica di come la Corte di giustizia con la sentenza Cilfit non abbia sviluppato un criterio soddisfacente e ragionevole perché si possa contemperare, anche per un giudice che voglia avere una massima propensione comunitaria, al contempo, l'esigenza di uniformità nell’applicazione del diritto europeo e quella di ragionevole durata del processo, imponendo sostanzialmente, proprio per la difficoltà di discernimento dei casi concreti, un vincolo di sollevare, a scopo cautelativo, la questione pregiudiziale sempre e comunque.
Ma questo risultato, in realtà, non sarebbe quello voluto neppure dalla stessa Corte di giustizia perché rischierebbe di trovarsi ingolfata da un eccesso di processi.
È da riportare, come, ad ogni modo, la nostra Suprema Corte, a prescindere dal menzionato rinvio effettuato nuovamente dal Consiglio di Stato, si sia espressa, recentemente, nella propria sentenza n. 36776 del 15/12/2022, ancora richiamando i criteri tradizionali della Corte di giustizia Cilfit, nonché la sentenza, definita del nuovo decalogo, “Consorzio Italian Management” del 6 ottobre 2021 e abbia ancora affermato che “in tema di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, non sussiste alcun obbligo del giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la questione interpretativa del diritto unionale, ogni volta in cui - vertendosi in ipotesi di "acte clair" - la corretta interpretazione del diritto dell'Unione europea è così ovvia da non lasciare spazio a nessun ragionevole dubbio, nonché nel caso - configurante un "acte éclairé" - nel quale la stessa Corte ha già interpretato la questione in un caso simile, od in materia analoga, in un altro procedimento in uno degli Stati membri”.
Nello stesso senso, poi, la Corte di cassazione ha tenuto anche a precisare, in altra recente pronuncia, che, in tema di rinvio pregiudiziale incombente sui giudici di ultima istanza, in base al criterio del cd. "acte clair", non esiste alcun diritto della parte che formula la relativa istanza all'automatico rinvio, ogniqualvolta il giudice non ne condivida le tesi difensive, essendo sufficiente che le ragioni del diniego siano espresse ovvero implicite se la questione pregiudiziale è manifestamente inammissibile o manifestamente infondata.

 

9. La risposta della Corte di giustizia al Consiglio di Stato.

Dopo il rinvio pregiudiziale operato dal Consiglio di Stato con la sentenza non definitiva n. 6013 del 19.5.2022 sui criteri della sentenza Cilfit, è pervenuta la risposta della Corte di giustizia con un'ordinanza del 15 dicembre 2022 nella causa C- 144.
Quest'ultima, con tale ultima decisione, è venuta ulteriormente a chiarire i propri criteri sull'interpretazione dell'articolo 267 TFUE, precisandoli, in modo più temperato, proseguendo sulla stessa linea, in tal senso, già avviata dalla sentenza Consorzio Italian Management del 6 ottobre 2021.
Infatti, dapprima, confermando la sentenza Cilfit, ha argomentato che il giudice di ultima istanza può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di ermeneutica del diritto dell’Unione qualora l’interpretazione corretta del diritto comunitario s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi e che, prima di concludere in tal senso, deve, però, maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe altresì agli altri giudici di ultima istanza degli Stati membri e alla Corte stessa (punti 35 e 36).
In tale frangente, poi, l'organo giudiziario di ultima istanza deve, altresì, tener conto delle caratteristiche proprie del diritto eurounitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione e del fatto che le disposizioni sono redatte in diverse lingue e che le varie versioni linguistiche fanno fede nella stessa misura.
Tuttavia, richiamando, per l'appunto, la sentenza Consorzio Italian Management, l'ordinanza del 15 dicembre 2022, nei passaggi successivi, viene a temperare quanto appena espresso precisando che il giudice nazionale deve tener conto delle divergenze tra le versioni linguistiche di tale disposizione di cui è a conoscenza, segnatamente quando tali divergenze sono esposte dalle parti e sono comprovate (punto 40).
Rileva, inoltre, che la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione, nei limiti in cui nessuna di queste appaia sufficientemente plausibile, segnatamente alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione (punto 44).
Con ulteriore chiarificazione, poi, la Corte ha specificato che per quanto si debba ancora continuare a ritenere che l'interpretazione al di là di ogni ragionevole dubbio si imponga anche agli altri giudici degli Stati membri e alla Corte medesima, non risulta che il giudice nazionale debba «dimostrare in maniera circostanziata» tale elemento (cfr. punti 46 e ss.).
In questo senso, ha precisato che l'esigenza di rivolgersi alla stessa in presenza del “minimo dubbio” e la richiesta di “prova circostanziata”, nelle precedenti decisioni in materia, sono state formulate solo per l'ipotesi in cui la giurisdizione interna intenda avvalersi della facoltà eccezionale, in capo ai giudici nazionali, di decidere di mantenere, alle condizioni enunciate nella stessa propria giurisprudenza , taluni effetti di un atto nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione.
Dopo tale sintesi dei contenuti dell'ordinanza del 15 dicembre 2022, nel valutare la risposta della Corte di giustizia al Consiglio di Stato, si può osservare come, certamente, in modo opportuno, la stessa abbia proseguito la linea di mitigazione della rigorosità dei criteri della sentenza Cilfit già intrapresa con la pronuncia Consorzio Italian Management, ma anche come la problematica non appaia totalmente risolta.
Infatti, appare necessario, per giungere a un corretto equilibrio e a una ragionevolezza nella verifica della responsabilità dell'organo giudiziario di ultimo grado che ometta di sollevare la questione pregiudiziale in assenza dei presupposti della sentenza Cilfit, osservare come la fattispecie configuri un'ipotesi di omissione colposa.
In questo senso, allora, si potrebbe, ulteriormente, approfondire la tematica posta dal Consiglio di Stato italiano nel senso che il concetto di colpa nell'ambito della responsabilità omissiva viene a corrispondere al difetto di adozione di una condotta che sarebbe stata esigibile con gli ordinari i criteri di diligenza e prudenza, cosicché si possa definire evitabile e prevedibile l’evento dannoso.
Al di fuori dei criteri di evitabilità e prevedibilità del pregiudizio, dunque, non può sussistere colpa e, perciò, ci si può ben chiedere se sia esigibile, secondo gli ordinari parametri di ragionevolezza, nonché di prudenza e di diligenza, che il magistrato di ultima istanza che ritenga di trovarsi di fronte ad un'evidenza interpretativa, per escludere ogni ragionevole dubbio, debba essere certo che quest'ultima si porrebbe, in termini analoghi, anche ai giudici degli altri Stati membri e alla Corte di giustizia.
La tematica sollevata dal Consiglio di Stato, infatti, appare porsi nel senso dell'esigenza dell'individuazione di un limite nell'ambito del quale un magistrato di ultimo grado possa dover rispondere, unitamente allo Stato membro, nel caso in cui si trovi a errare circa il fatto che l'interpretazione proposta si porrebbe con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi a ciascun giudice dell'Unione, oltre che alla Corte di giustizia, poiché può ben essere che la condotta richiesta al fine di evitare lo sbaglio possa porsi al di là dei limiti dell’esigibilità.
Occorre, del resto, rammentare come il parametro di diligenza normalmente richiesto per verificare l'adempimento sia quello dell'homo eiusdem professionis et condicionis e, nel valutare il requisito dell'imputabilità dell'errore dal lato colposo, occorrerebbe, allora, pur sempre un'analisi atta a appurare se il ragionamento proposto dall'organo giudiziario di ultima istanza che non abbia sollevato la questione pregiudiziale si sia posto, nella complessità della situazione concreta, in contrasto con i criteri di prudenza e di avvedutezza tipici di tale soggetto medio che svolga analoga professione, per verificare l’evitabilità e la prevedibilità del pregiudizio.
In questo senso, probabilmente, servirebbe, dunque, che la Corte di giustizia venisse a considerare seriamente tale tematica del limite della responsabilità omissiva colposa, corrispondendo a un'esigenza di giustizia, oltre che di razionalità, non solo l'uniformità dell'interpretazione, ma, altresì, l'individuazione di un criterio che sia ragionevole, chiaro e soprattutto esigibile da parte dell'organo di ultima istanza interessato, venendo, altrimenti, a rispondere lo Stato inadempiente per responsabilità oggettiva o caso fortuito .
Come, infatti, insegnato, nella stessa sentenza Consorzio Italian Management, il rinvio pregiudiziale instaura un dialogo da giudice a giudice, tra la Corte e i giudici degli Stati membri, nell'ambito del quale, nel rapporto tra giurisdizioni interne e organi europei, si possono individuare le soluzioni più corrette.

 

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