TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Premessa
Interrogarsi sul ruolo, oggi, del giudice del lavoro implica necessariamente uno sguardo al passato, alle ragioni che, ormai quasi cinquant’anni fa, hanno indotto il legislatore non solo ad introdurre un procedimento speciale pensato per le controversie di lavoro e quelle “attigue” ma anche a prevedere che quel processo fosse amministrato da un giudice ad esso dedicato.
La scelta del rito, come noto, dipese in massima parte dal fatto che tali controversie avessero ad oggetto diritti fondamentali del cittadino la cui effettiva tutela passava anche attraverso una garanzia di celerità del processo .
Il processo del lavoro, dunque, riprodusse icasticamente il rapporto tra diritto sostanziale e processuale, la strumentalità del secondo rispetto al primo. Come la dottrina, a proposito dell’art. 28 SL ebbe modo di ricordare, infatti, “i diritti individuali sono splendidi, ma è altrettanto vero che la solitudine dei diritti individuali non porta da nessuna parte” .
Il legislatore del 1973, dunque, riconobbe che la disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, ormai largamente compiutasi, rischiava di restare poca cosa senza uno strumento che assicurasse effettività alle sue regole, laddove l’effettività era intesa innanzitutto nel senso di celere applicazione.
La novella della legge 533, però, è andata oltre perché ha dotato quel processo di un giudice ad esso dedicato.
“Un giudice per Cipputi” come lo definiscono (o si definiscono) Rita Sanlorenzo e Carla Ponterio in un libro di qualche anno fa .
Ed allora interrogarsi sul ruolo di quel giudice significa innanzitutto chiedersi se oggi restano immutate le ragioni che giustificarono l’introduzione di un processo “riservato” e poi chiedersi quale è il ruolo del giudice all’interno di quel processo.
In altre parole, occorre chiedersi se il diritto del lavoro mantiene una specialità rispetto a quello civile tale da giustificare la particolare tutela processuale accordatagli nel 1973 e, in caso di risposta affermativa, se il ruolo del giudice del lavoro all’interno di questa tutela è quello di uno specialista chiamato ad applicare la disciplina sostanziale oppure egli è investito anche del ruolo di cooperare attivamente alla costruzione di quel diritto.
La perdurante specialità del diritto del lavoro
La risposta al primo interrogativo non può non partire dalla presa d’atto che alcuni tratti di specialità del diritto del lavoro “delle origini” si sono sfumati, annacquati dal convergere in questa materia di rapporti tra loro anche molto eterogenei . Ma al contempo non si può non rilevare che lo stesso diritto civile ha perso la sua natura monolitica, articolandosi da tempo in numerosi diritti “derivati” che assurgono, ormai, a diritti primi (diritto di famiglia, diritto del consumatore, locazioni).
Non solo, ma è altresì cambiato il piano su cui si posiziona il diritto del lavoro rispetto a quello civile: il nostro diritto ha, infatti, definitivamente perso la funzione ancillare rivestita in passato, non è più una materia che si sviluppa all’ombra del diritto civile.
Ed anzi sempre più spesso il diritto civile guarda al diritto del lavoro, divenuto antesignano di tecniche di tutela e soluzioni (tutela del consumatore, privacy sul piano sostanziale, rito locatizio sul piano processuale ecc.). Lo dimostra la recente legge di riforma del processo civile, marcatamente debitrice dei criteri ispirativi della riforma del 1973.
In questo mutato sfondo, permane, ed anzi si rafforza, la specialità ed autonomia del diritto del lavoro rispetto al diritto civile. Non solo per la qualità degli interessi in gioco ma anche per la qualità degli attori che vi partecipano, ed in particolare per il ruolo degli attori collettivi.
Quanto ai primi, gli interessi in gioco, è innegabile che il diritto del lavoro continua a farsi portatore di istanze legate a soddisfare bisogni primari di una delle parti di un rapporto che, rispetto ai rapporti disciplinati dal diritto civile, ha una caratteristica intrinseca dirimente. Per definizione, infatti, il rapporto di lavoro si connota per l’inserimento continuativo di una parte nell’organizzazione dell’altra con soggezione al potere direttivo e, oggi, eterorganizzativo dell’altra o, quantomeno, con necessario coordinamento tra le due.
Quanto agli attori, ancora oggi, ed anzi sempre più, il legislatore delega alle parti sociali non solo un’importante funzione di tutela e rappresentanza dei soggetti del rapporto, tutela esercitabile direttamente nei luoghi in cui esso si svolge, ma anche una funzione integrativa, quando non sostitutiva, della disciplina sostanziale.
Non ultimo, il complesso delle regole costruite dal legislatore anche con l’aiuto delle parti sociali resta sostanzialmente indisponibile proprio in relazione alla qualità degli interessi che tutela, contribuendo così a qualificare la specialità del diritto del lavoro rispetto a quello civile.
Se, dunque, va rimarcata la perdurante specificità del diritto del lavoro, sono allora opportune alcune riflessioni sul rapporto tra il giudice e questo diritto.
Quale giudice per Cipputi?
La riflessione non può non partire da quanto la Consulta ha affermato quando nel 1977 ha affrontato la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento agli artt. 414 e 416 cpc per possibile contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.
In quella sede la Corte, nel rigettare l’eccezione, ha affermato che “La retta interpretazione delle norme consente, invero, di pervenire alla conclusione che si realizza, invece, nella concreta dialettica del nuovo processo del lavoro, una perfetta simmetria di posizione tra le parti”.
A differenza del diritto sostanziale del lavoro, che ha nel suo DNA il fine di riportare ad equilibrio situazioni che, in base all’id quod plerumque accidit, risultano sbilanciate, il processo del lavoro è equidistante dalle parti e come tale deve essere inteso perché non tradisca le norme costituzionali.
Il rito, cioè, non è pensato per assicurare la parità sostanziale di parti diseguali bensì per assicurare una tutela efficace, id est celere, ai diritti di quelle parti eventualmente lesi.
Il processo del lavoro è infatti, e nonostante l’art. 421 cpc, un processo dispositivo in cui il giudice “amministra” ai fini della decisione il materiale che è stato allegato al processo dalle parti attraverso un sistema di preclusioni e decadenze delineato dagli art. 414 e 416 cpc che assolve alla funzione di garantire la concentrazione e celerità della decisione.
E dunque, come si pone il giudice in questo processo?
“La riforma vuole un giudice consapevole dei valori in gioco e della differente capacità di resistenza anche economica tra le parti: dunque un giudice che, pur restando imparziale rispetto ai litiganti, abbia gli strumenti, e la tensione ideale, per realizzare il compito di cui al secondo comma dell’art. 3 della Costituzione … l’innesto del nuovo processo sulle previsioni sostanziali dello Statuto autorizza i pretori del lavoro a sentirsi investiti di un ruolo promozionale delle garanzie collettive e individuali introdotte dalle leggi” così due protagoniste del processo del lavoro esprimono la loro opinione circa la funzione del suo giudice .
Un giudice che spesso ha una particolare tensione ad essere parte attiva e non mero spettatore del contesto in cui si collocano le dinamiche del lavoro.
Se così è, è però è opportuno chiedersi fin dove può arrivare l’opera di quel giudice, partendo dalla mera applicazione della legge, passando per la sua interpretazione che implica la scelta tra più opzioni e quindi un apporto, un’impronta più o meno marcata, per arrivare a chiedersi se e con quali modalità è ammissibile una supplenza giudiziaria al potere legislativo.
Si tratta di un interrogativo che ricorre periodicamente . E non è un caso, anzi è doveroso, che questa domanda si riproponga in maniera prepotente oggi in cui il cammino del diritto del lavoro verso nuove frontiere (l’impresa orizzontale, la codatorialità, il lavoro tramite piattaforme) - che contemplano modi una volta impensati di rendere la prestazione lavorativa – o in cerca di nuove mediazioni (tra cui spicca la ricerca di flessibilità) deve essere accompagnato da una riflessione a tutto tondo sulle tutele che non possono essere sacrificate da questa marcia e sulle modalità per garantirle.
In questa riflessione, si diceva, torna chiaramente protagonista l’interrogativo circa il ruolo del giudice: mero “notaio” che registra le tappe di un cammino o al contrario un soggetto che può contribuire a tracciarne il sentiero o addirittura prefigurarne la meta?
La prima considerazione generale è che credo, come molti, che la figura di un giudice solo spettatore e “notaio” della disciplina che cambia sia quantomeno anacronistica, ma forse da sempre illusoria.
Le sollecitazioni ad un ruolo attivo del giudice del lavoro si rinvengono, infatti, costantemente.
A partire dalla necessità di inverare alcuni principi costituzionali fondamentali, tra cui quello dell’art. 36 Cost., o dare contenuto alla nozione di sciopero di cui all’art. 40 Cost. di cui si è fatta carico la giurisprudenza (con l’ausilio, quanto all’art. 36 Cost., della contrattazione collettiva).
E via via nel tempo grazie ad un legislatore che, scrivendo norme dai contenuti talora inevitabilmente generali (le clausole o norme generali dell’art. 2119 c.c. e 3 L. 604/66), talora (e forse volutamente per non affrontare il rischio politico di mediazioni difficili) poco chiari, generici o incompleti, ha scaricato e scarica ancora oggi sul giudice, e quindi su un soggetto che non ha una responsabilità politica, un pezzo importante della costruzione delle regole.
Venendo alla cronaca giudiziaria recente, è la Consulta, sollecitata dalle ordinanze di rimessione dei giudici di merito, che con le sentenze 194 dal 2018 e 150 del 2020 sugli artt. 3 e 4 del d. lgs. 23/15 ha sottolineato con forza il ruolo non meramente applicativo del giudice del lavoro al quale spetta, dice la Corte ancora nel 2020, un pezzo del “bilanciamento tra gli interessi costituzionalmente rilevanti”.
Ha così ribadito la Corte che è legittimo che il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità politica, opti per la tutela indennitaria anziché reintegratoria e ne fissi i limiti entro una forbice (così da rispondere all’esigenza di un minimo di uniformità di trattamento e prevedibilità dei costi) ma è necessario che il giudice concorra a questo bilanciamento attraverso “l’apprezzamento delle particolarità del caso concreto” e quindi con la possibilità di stabilire l’indennità entro la forbice assegnata dal legislatore.
Il giudice del lavoro ha sempre colto queste sollecitazioni e nel tempo ha consolidato il proprio ruolo.
Né è un esempio la giurisprudenza in tema di fattispecie di licenziamento previste dalla contrattazione collettiva e facoltà del giudice di discostarsi da quelle previsioni .
Ma certamente un momento significativo di questo cammino si coglie nel recente orientamento che si sta affermando proprio in tema di retribuzione coerente con i principi di cui all’art. 36 Cost.
E’ noto, infatti, che la giurisprudenza, dopo aver per lungo tempo limitato la verifica giudiziale sul rispetto dell’art. 36 Cost. ad un confronto tra la retribuzione percepita ed i minimali retributivi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale , sull’assunto che essi fossero il parametro di riferimento per la verifica di conformità del trattamento economico ai principi costituzionali, ha ora intrapreso un cammino che la vede protagonista attiva attraverso decisioni che si sono spinte oltre le indicazioni date dalla contrattazione collettiva per rivendicare un ruolo autonomo nell’individuazione della retribuzione proporzionata e sufficiente .
Altrettanto il giudice ha fatto rispetto al legislatore.
Emblematica è sul punto la giurisprudenza in tema necessaria preesistenza del ramo di azienda che afferma che “Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto …. L'elemento costitutivo dell'autonomia funzionale va quindi letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza" .
Dunque, si può concludere che con il passare del tempo il giudice del lavoro ha rafforzato il proprio ruolo emancipandosi non solo rispetto alla contrattazione collettiva ma anche, in qualche misura, dal legislatore.
Quali limiti al giudice per Cipputi?
Non sempre, però, le operazioni compiute appaiono convincenti rischiando di sconfinare dalla (legittima) funzione dichiarativa a quella creativa a scapito di un valore primario che giustifica la stessa esistenza dell’apparato normativo e dei codici di rito, la certezza del diritto, di cui è assunto consustanziale l' uniformità.
Lo ha ricordato ancora, con espresso riferimento al diritto del lavoro, il dibattito che ha fatto seguito alla riforma dell'art. 117 Cost.; è stata, infatti, comunemente condivisa l’affermazione per cui il diritto del lavoro rientra all'interno dell'ordinamento civile , e dunque resta appannaggio della competenza esclusiva del legislatore nazionale, perché occorre che esso sia uniforme: non può esistere, infatti, una disciplina del lavoro a macchia di leopardo.
La tensione all’uniformità deve, però, guidare anche l’opera del giudice.
Con ciò, beninteso, non si intende negare l’inevitabile difformità che può derivare da scelte interpretative differenti, oltre che dalla cangiante mutevolezza delle fattispecie concrete. E neppure invocarsi uno stare decisis analogo a quello che regola i sistemi di common law.
Occorre, però, non dimenticare che le scelte interpretative, pur nel rispetto della libertà di decisione del singolo, devono farsi carico di un’esigenza di uniformità a prescindere dall’intervento nomofilattico della Cassazione.
Non solo, ma ogni ragionamento sul ruolo del giudice deve tenere in adeguata considerazione la precomprensione ed il dovere che ciascun giudice ha di controllarla .
E’, infatti, inevitabile ogni decisione passi attraverso la persona di chi la emette, il suo patrimonio culturale ma anche inevitabilmente ideologico: ogni decisione sconta la scelta che a monte viene fatta degli strumenti che verranno utilizzati per assumerla. In ogni decisione inevitabilmente c’è un “pezzo” del giudice che l’ha emessa.
Ed è, allora, fondamentale che il giudice faccia governo della propria precomprensione, faccia una sorta di prova di resistenza della sua decisione sulla base di una serie di parametri che gli evitino di sfociare nel soggettivismo giuridico.
Tali parametri sono in primis la lettera della legge, la sua ratio, e, non ultimo, anzi, la sua integrabilità nel sistema di diritto positivo .
La sentenza, infatti, non è una monade, ma è un pezzo di un puzzle che deve incastrarsi in un disegno più generale.
E’, dunque, auspicabile un’interpretazione “orientata alle conseguenze” , nel senso che il giudice deve essere consapevole del fatto che la sua decisione è una tessera del mosaico che deve collaborare a comporre e che, dunque, va evitata un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice che pone il giudice fuori dal sistema che deve contribuire a comporre, e non a scardinare.
In questa prospettiva è condivisibile dal punto di vista del metodo quanto fatto dalla giurisprudenza in relazione al sistema sanzionatorio introdotto dal decreto 23/2015 ed in particolare in ordine all’automatismo legato all’anzianità mentre non sarebbe stata accettabile un’interpretazione costituzionalmente orientata che travolgendo il dato di legge avesse deciso di modulare il quantum della tutela indennitaria andando oltre la chiara prescrizione del legislatore.
Operazioni travalicanti che in passato si sono viste quando, ad esempio, si è posto il problema del significato dell’art. 19 SL.
La norma era chiara nel suo tenore letterale ma forse non più coerente rispetto al mutato assetto delle Relazioni Industriali in cui si inseriva.
In questo contesto non ritengo condivisibili quelle pronunce che incisero direttamente sul testo affermando che firmatario volesse dire “non firmatario” mentre fu, a mio avviso, corretto in una prospettiva di certezza ed uniformità del diritto, l’atteggiamento del Tribunale di Modena e quello di Torino che rimisero la questione alla Corte Costituzionale.
Più di recente, non convince l’ordinanza del Tribunale di Roma in tema di licenziamento del dirigente in periodo COVID , non perché non se ne comprenda la ratio, quindi non per il fine, ma per il mezzo. Se, infatti, si può convenire sul fatto che non è ragionevole che il dirigente sia escluso dalla tutela emergenziale per i licenziamenti economici, versando egli, in quanto lavoratore, nella stessa posizione di un altro lavoratore di diversa qualifica, però è altrettanto innegabile che per sostenere quella posizione apicale all’impresa non sono stati dati gli stessi strumenti che ha a disposizione per gli altri lavoratori (Cassa Covid, FIS o sgravi contributivi). In ossequio ai principi di certezza ed uniformità, il giudice avrebbe dovuto, invece, demandare alla Corte Costituzionale la valutazione circa la ragionevolezza complessiva di una disciplina emergenziale che escludeva i dirigenti dall’ammortizzatore e li esponeva al licenziamento e non invece equiparare il licenziamento del dirigente a quello intimato ai sensi dell’art. 3 legge 604/66 con un’operazione che, a mio avviso, ha natura creativa innanzitutto poiché la legge invocata esclude espressamente i dirigenti dal suo ambito di applicazione.
Ed ancora, un’interpretazione che si voglia inserire nel sistema senza scardinarlo non può non tenere conto dei dati, delle indicazioni che da tale sistema provengono.
I dati sono innanzitutto i valori della nostra Costituzione e dell’UE, ponendo però attenzione a non cercare di giustificare ogni operazione ermeneutica sott l’ombrello dell’interpretazione costituzionalmente orientata atteso che, come correttamente ricorda alcuna dottrina , “la Costituzione non sta tutta da una parte”.
Ancora, l’interprete deve tenere conto del sistema e quindi delle norme che ci sono e di quelle che volutamente sono state abrogate o novellate.
Su questo aspetto, ed in particolare sulla posizione del giudice rispetto al legislatore, si registrano due orientamenti nella stessa magistratura: vi è chi parla di una “certa qual deferenza” dovuta al legislatore e chi , invece, ritiene invece che legislatore e giudice abbiano pari dignità costituzionale.
Indiscussa la parità del giudice sul piano della dignità costituzionale, il punto sta, però, a mio avviso nel diverso spazio di intervento tra il giudice ed il legislatore. Come giustamente ricordato da una dottrina , la banda di oscillazione dell’intervento del giudice è, infatti, più ristretta di quella del legislatore che di tale banda disegna il confine esterno.
In questo senso si può affermare che il giudice debba una “certa qual deferenza” al legislatore, deferenza che non è sudditanza né applicazione acritica, perché il giudice ha uno strumento forte che è l’ordinanza di rimessione delle norme alla Corte Costituzionale, ma è rispetto dei canoni dell’ermeneutica e, prima ancora, dei ruoli istituzionali.
Dunque, il giudice del lavoro non deve essere il giudice per Cipputi ma un giudice per il processo di Cipputi il cui compito fondamentale è quello di fare in modo che le leggi non invecchino, di mantenerle sempre al passo coi tempi e con i valori che si affermano nell’ordinamento in costante mutazione, sia interpretando dinamicamente le clausole generali sia chiedendosi se una certa interpretazione anche consolidata è ancora sintonica con la realtà empirica.
Ma il giudice deve anche contribuire a fare chiarezza, e non ad alimentare ulteriori motivi di incertezza su una materia che troppo spesso incespica in norme alluvionali, di compromesso e quindi anche per tale motivo spesso mal scritte .
I fattori “endogeni” e quelli “esogeni” che incidono sul processo
In chiusura qualche riflessione merita la possibile influenza che alcuni fattori possono avere sull’amministrazione della giustizia del lavoro.
Ad iniziare da un fattore “endogeno” cioè l’esigenza di celerità cui il processo risponde (o dovrebbe rispondere).
L’esperienza dimostra che il processo del lavoro delineato dal legislatore del 1973, e di fatto sostanzialmente rimasto immutato sino ai nostri giorni, offre gli strumenti per garantire alle parti un processo di durata ragionevole, senza che tale durata vada a scapito della compiutezza, e quindi della pienezza della tutela apprestata dall’ordinamento attraverso un procedimento che, infatti, è a cognizione piena.
La previsione del potere officioso del giudice di cui all’art. 421 cpc ed il concreto uso che ne viene fatto nel doveroso rispetto delle intervenute preclusioni e decadenze , dimostra che quel processo, per quanto celere, può avvalersi di un “polmone” che consente al giudice di fruire di uno spazio di indagine più ampio di quello fornito dalle parti, potendo egli ammettere d’ufficio i mezzi di prova non tempestivamente dedotti. E ciò a favore ancora una volta della compiutezza della verifica che, dunque, non arretra difronte all’esigenza di celerità .
Analoga conferma arriva dai quasi dieci anni di applicazione del cd. Rito Fornero in cui la giurisprudenza, pur nella insistita esigenza di celerità e conseguente sommarietà del rito, ha interpretato estensivamente le previsioni normative in tema di controversie ad esso soggette .
Dunque, si può affermare che nel rito delineato nel 1973, come ancora oggi amministrato, non solo l’efficienza non va a scapito della tutela ma anzi i due principi, entrambi di rango costituzionale, sono coniugati in modo da assicurarne la doverosa, equilibrata coesistenza.
Esiste, poi, un altro fattore “esogeno” che può incidere sul processo: si tratta del regime delle spese processuali.
I dati raccolti dicono che il ricorso alla via giurisdizionale è in grave calo, nonostante il numero di procedimenti incardinati sia “dopato” dalla doppia fase del rito Fornero. Una parte di responsabilità di questo calo è stata attribuita al regime delle spese legali su cui, come noto, si sono nell’ultimo decennio rincorsi interventi normativi e giurisdizionali importanti .
Condivido l’opinione comune per cui il tema delle spese legali in astratto incide sulla decisione di proporre il giudizio e coltivarlo ma propria questa constatazione solleva un campanello d’allarme che ancora una volta rinvia alla necessaria uniformità dei giudizi.
L’esperienza concreta, infatti, disegna una mappa della giurisprudenza in tema di spese legali variegata sia nell’an che nel quantum, specie dopo la decisione della Consulta del 2018.
Se, come la Corte ha precisato, “la regolamentazione delle spese di lite … è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.)”, è assolutamente indispensabile l’uniformità del sistema di applicazione della regola pena la violazione del diritto costituzionale di difesa nei confronti di coloro cui la clausola viene applicata con maggiore severità.

 

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