TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

TESTO DELLA SENTENZA C. CONTI SEZ.LOMBARDIA N.31/2023

testo della sentenza cass 13383/2023

1. Il fatto sub iudice: la mancata comunicazione da parte del lavoratore dei presupposti per la revoca della sospensione cautelare obbligatoria disposta dal datore, percependo indebitamente per due anni assegno alimentare restando a casa.

La sentenza Cass., sez.lav., 22 febbraio 2022 n.5813 che qui si annota interviene in modo non condivisibile su un peculiare caso di licenziamento per assenza ingiustificata adottato nei confronti di una appartenente alla Polizia Municipale del Comune di Brescia che era stata collocata il 24 maggio 2013 in sospensione obbligatoria, ai sensi dellart.4, l. n. 97 del 2001 e dell’art.5, CCNL 2006-2009 (sottoscritto l’11 aprile 2008) del Comparto enti locali, a seguito di condanna penale di primo grado per reati contro la P.A. (peculato, art.314 c.p.) per avere utilizzato strumenti ed utenze del Comando di Polizia Municipale, nella sua disponibilità per ragioni di servizio, per contattare telefonicamente più volte due cittadini a fini di molestie e disturbo; il procedimento disciplinare era stato sospeso in attesa dell'esito del giudizio penale.
In tale periodo di sospensione cautelare la “vigilessa” aveva fruito di assegno alimentare pari al 50% della retribuzione.
Con sentenza penale d’appello dell'11 marzo 2014, divenuta definitiva il 27 giugno 2014, la dipendente era stata assolta in sede penale, ma non aveva comunicato tale statuizione al datore, non notiziato della pronuncia neppure dalla Cancelleria del Tribunale a ciò tenuta ope legis (art.154-ter, disp.att.c.p.p.); né il datore si era attivato per un riscontro sugli sviluppi processuali della vicenda penale.
Soltanto due anni dopo dal giudicato, in data 10 aprile 2016, il legale della dipendente aveva comunicato al Comune che la sua assistita, rimasta “di fatto” in sospensione cautelare a casa percependo assegno alimentare e senza fornire alcuna prestazione lavorativa, era stata assolta in appello dal reato di peculato, giusta la predetta sentenza penale dell'11 marzo 2014.
Ricevuta la comunicazione, il Comune aveva riattivato il procedimento disciplinare sospeso, che si era concluso con la sanzione di un mese di sospensione, ma nel contempo il datore aveva contestato alla dipendente un nuovo e distinto addebito disciplinare, per assenza ingiustificata dal servizio (ex art. 55-quater, co.1, lett.b, d.l.gs. n.165 del 2001) dal 12 marzo 2014, giorno successivo alla sentenza di assoluzione, al 25 aprile 2016 e concludeva il secondo procedimento disciplinare con la irrogazione del licenziamento.
Impugnate ambo le sanzioni, il giudice di primo grado e quello d'appello ritenevano univocamente legittime entrambe le sanzioni.
Si doleva nuovamente in Cassazione la lavoratrice della sola seconda sanzione per l’illegittimità del licenziamento per assenza ingiustificata, ritenendo, come già vanamente prospettato in sede di merito, che non vi fosse nel sistema normativo e contrattuale un suo obbligo di comunicare all'amministrazione la sentenza d’appello di assoluzione dal reato di peculato e che comunque la norma sulla comunicazione della sentenza alla pubblica amministrazione, di cui all'art. 154-ter disp. att. c.p.p., riguardava soltanto le sentenze di condanna e non quelle di assoluzione, come invece ritenuto in appello.
La prospettazione difensiva della lavoratrice ha convinto la Cassazione che, con la sentenza che si annota, ha cassato con rinvio la sentenza d’appello bresciana, statuendo che in tema di sospensione obbligatoria dal servizio del dipendente pubblico, disposta ai sensi dell'art. 4 della l. n. 97 del 2001, il dipendente, sospeso in pendenza di un procedimento penale e successivamente assolto, con conseguente revoca della misura cautelare, non può essere considerato assente ingiustificato ove ometta di comunicare la sentenza di assoluzione al datore di lavoro e non riprenda a lavorare, gravando sull'amministrazione (o ex lege sulla Cancelleria dell’ufficio giudiziario penale), e non sul dipendente, l'obbligo di attivarsi per consentirne la riammissione, con atto ricognitivo del venir meno della causa di sospensione o, alternativamente, di disporne la sospensione facoltativa dal servizio, ove ne ricorrano i presupposti, e ciò in quanto la riattivazione della funzionalità del rapporto presuppone - a tutela di una fondamentale esigenza di certezza giuridica e in applicazione dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A. - il previo formale invito datoriale.
L’approdo non ci sembra convincente per le ragioni di seguito precisate.

 

2. Critiche agli approdi della Cassazione: il dimenticato principio di correttezza e buona fede contrattuale, di diligenza e di onore nell’espletamento di funzioni pubbliche.

La Cassazione, pur partendo da una premessa corretta, seppur parziale, sul quadro normativo vigente, perviene ad un approdo non condivisibile, trascurando un basilare canone comportamentale che regola i rapporti tra datore e lavoratore: la correttezza e buona fede oggettiva contrattuale (artt.1175, 1366, 1375 c.c.), oltre al dovere di diligenza ex art.2104 c.c., da leggere entrambe alla stregua del principio di “disciplina ed onore” (art.54 cost.) nell’espletamento di pubbliche funzioni.
Osserva giustamente il giudice di legittimità come la l. n. 97 del 2001, art. 4, obbliga la pubblica amministrazione a disporre la sospensione del dipendente dal servizio in caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti previsti nel precedente art. 3, tra i quali vi è il delitto di peculato, per il quale la parte ricorrente era stata condannata dal Tribunale penale di Brescia. In base a tale art. 4, la sospensione cautelare perde efficacia (automaticamente, aggiungiamo noi, senza alcun filtro provvedimentale datoriale interno di natura costitutiva ) se per il fatto è successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione, anche non definitiva, nella specie resa nel giudizio penale di appello.
Tuttavia, dopo tale corretta e inconfutabile premessa normativa, la Suprema Corte afferma che, all'esito della assoluzione, è a carico della amministrazione l'obbligo di assumere le determinazioni conseguenziali (e vincolate, aggiungiamo noi) ovvero di disporre la riammissione in servizio del dipendente, con atto ricognitivo del venir meno della causa di sospensione (o, alternativamente, la sospensione facoltativa dal servizio, ove ne ricorrano i presupposti). Precisa il giudicante che, in mancanza di una disposizione di riammissione del dipendente in servizio, non può configurarsi a carico di quest'ultimo un addebito di assenza ingiustificata; la riattivazione della funzionalità del rapporto di lavoro presuppone, a tutela di una fondamentale esigenza di certezza giuridica, oltre che in applicazione dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, il previo formale invito a riprendere servizio, diretto dalla amministrazione datrice di lavoro al dipendente.
Soggiunge la Cassazione che, contrariamente a quanto affermato dal giudice dell'appello, l'obbligo della Cancelleria dell'ufficio giudiziario di dare comunicazione alla amministrazione di appartenenza della sentenza penale resa nei confronti del pubblico dipendente, ai sensi dell'art. 154-ter disp. att. c.p.p., obbligo inosservato nel caso di specie, non è limitato alle sentenze di condanna, ma si riferisce a tutte le sentenze penali, indipendentemente dal contenuto del dispositivo. Pertanto, sottende in modo implicito la Cassazione (un po' laconica sul punto), l’obbligo comunicativo sarebbe comunque gravato sulla Cancelleria della Corte d’Appello e non già sul lavoratore poi licenziato.
Tale approdo non ci sembra convincente.
Va premesso sul piano fattuale che nella specie, riformata in appello la pronuncia di primo grado di condanna per peculato con sentenza 11 marzo 2014, l’unico presupposto legislativo e contrattuale (l. n. 97 del 2001, art. 4, e CCNL 2006-2009 sottoscritto l’11 aprile 2008, Comparto enti locali, art. 5) per la permanenza della lavoratrice in sospensione cautelare obbligatoria (percependo assegno alimentare) per la condanna penale era venuto meno dalla data successiva alla statuizione d’appello, ovvero dal 12 marzo 2014. Tuttavia la lavoratrice è rimasta a casa senza lavorare, percependo assegno alimentare, per altri due anni, in una sorta di “autoinflitta sospensione cautelare di fatto”.
La questione di diritto è dunque una sola: tale remunerata (al 50%) permanenza a casa in “autoinflitta sospensione cautelare di fatto” è da ritenere legittima e non configurante illecito disciplinare da licenziamento in quanto, come ritenuto dalla Cassazione, la lavoratrice non aveva alcun obbligo legislativo o contrattuale di ripresentarsi in ufficio informando il datore del venir meno del presupposto legale per la sospensione cautelare, oppure tale condotta inerte, comportante assenza ingiustificata dal lavoro, è da qualificare illegittima in quanto contraria a correttezza, buona fede, diligenza e onore ?
La soluzione del quesito passa attraverso un equilibrato scandaglio delle posizioni degli unici tre soggetti, astrattamente e concretamente, tenuti ad attivarsi per ripristinare il rapporto contrattuale sospeso obbligatoriamente:
a) il primo soggetto testualmente e formalmente tenuto ad attivarsi era la Cancelleria della Corte d’appello, che entro 30 giorni dal deposito avrebbe dovuto notiziare il datore di lavoro, Comune bresciano, della sentenza d’appello ex art. 154-ter disp. att. c.p.p. Ma la Cancelleria non lo ha fatto. Tale inerzia delle Cancellerie degli uffici giudiziari, come da tempo rimarcato in dottrina , è assai diffusa sull’intero territorio nazionale, ma è ampiamente comprensibile e giustificabile in quanto la norma è pessimamente formulata dai parlamentari ed uffici legislativi che hanno partorito il testo, superficiali e disancorati dalla realtà nel porre sulle Cancellerie penali l’onere di trasmissione della trasmissione del dispositivo della sentenza, e su richiesta dell’amministrazione, l’intera pronuncia .
Non è infatti ipotizzabile che un cancelliere di un ufficio giudiziario, onerato da incombenze di ogni tipo (partecipare alle udienze, ricevere avvocati, reperire fascicoli, redigere verbali, relazionarsi con magistrati, gestire il personale, etc.), legga tutte le sentenze penali depositate quotidianamente nel proprio ufficio per cogliere la presenza, tra gli imputati, di pubblici dipendenti da segnalare all’amministrazione per iniziative disciplinari o cautelari.
L’obbligo andava testualmente posto dal legislatore a carico del magistrato estensore della sentenza che, leggendo la documentazione in atti, è agevolmente in grado di cogliere la circostanza della appartenenza dell’imputato (assolto o condannato) alla P.A., così statuendo, nel dispositivo, la semplicissima chiosa finale “dispone che, tramite Cancelleria, la presente sentenza venga trasmessa all’amministrazione X ex art.154-ter, disp.att.c.p.p. per l’eventuale seguito di competenza”. Il cancelliere, avvedendosi visivamente di tale chiaro e percepibile inciso, può così agevolmente trasmettere l’intera sentenza (e non solo l’inutile mero dispositivo previsto dalla infelice norma oggi vigente, in quanto la PA, per attivarsi disciplinarmente o cautelarmente, ha sempre bisogno dell’intera sentenza e non del solo laconico dispositivo) all’ente di appartenenza dell’imputato, condannato o assolto (anche una assoluzione penale, come è noto, non preclude azioni disciplinari, o rileva comunque ai fini cautelari, come nel caso qui vagliato dalla Cassazione).
La mancata segnalazione della sentenza d’appello, nella vicenda in esame, da parte della Cancelleria della Corte d’Appello di Brescia è dunque, formalmente, una violazione dell’obbligo imposto dall’infelice attuale formulazione dell’art. 154-ter disp. att. c.p.p., ed ha impedito alla P.A. di venire a rapida conoscenza della assoluzione penale della imputata e di riammetterla da subito in servizio.
Per evitare in futuro analoghe spiacevoli situazioni, un attento e competente legislatore dovrebbe, su impulso del Ministero della Pubblica Amministrazione, rapidamente, come da noi sostenuto da anni , riscrivere l’art.154-ter disp. att. c.p.p., statuendo che “Il giudice estensore che pronunci sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di un'amministrazione pubblica statuisce nel dispositivo che la Cancelleria comunichi all'amministrazione di appartenenza copia integrale del provvedimento, sia esso di condanna che di assoluzione”.
A fronte invece dell’attuale testo, l’omessa segnalazione da parte delle gravate Cancellerie, per chi conosce la realtà giudiziaria, è ampiamente prevedibile, giustificabile e quasi fisiologica, essendo impossibile a qualsiasi cancelliere italiano una lettura sistemica di tutte le sentenze penali depositate da tutti gli organi giudiziari di primo, secondo e terzo grado, circostanza che esclude in radice qualsiasi profilo di illecito disciplinare o di danno erariale per assenza di colpa grave in capo a tali oberatissimi funzionari pubblici.
Ma tale omessa comunicazione della sentenza all’ente di appartenenza da parte del soggetto espressamente onerato dalla legge, ovvero dalla Cancelleria della Corte d’Appello di Brescia, non giustifica gli approdi della Cassazione, essendoci altri due soggetti parimenti gravati da identico onore informativo.
b) Difatti, il secondo soggetto onerato, come ben colto dalla sentenza che si annota, è la stessa amministrazione datrice di lavoro che, a conoscenza della condanna di primo grado per peculato e della conseguente misura cautelare sospensiva obbligatoriamente assunta, aveva un obbligo implicito di monitorare gli sviluppi processuali tramite i propri legali esterni, o uffici amministrativi o del contenzioso, per acquisirne gli esiti aventi evidente ricaduta sulla permanenza cautelare a casa del lavoratore. Ciò è espressione, oltre che dei canoni civilistici e lavoristici di correttezza e buona fede (nel far chiarezza sugli sviluppi del rapporto contrattuale temporaneamente sospeso, ma non a tempo indeterminato), anche di diligenza gestionale imposta dall’art.97 cost. e di buon andamento ivi sancito, nonchè di economicità, efficacia e di “divieto di aggravamento dei procedimenti” scolpiti dall’art.1, l. 7 agosto 1990 n.241, soprattutto in una situazione connotata da esborso economico datoriale per assegno alimentare versato da anni alla dipendente sospesa e da mancata resa di servizio della stessa, con conseguente aggravio degli oneri lavorativi sul restante personale della polizia municipale in cui operava la dipendente destinataria di misura cautelare obbligatoria.
Tuttavia, a fronte di condotte inerti del datore, la complessità gestionale della P.A., l’avvicendamento dei suoi dirigenti e funzionari negli uffici (anche del personale e del contenzioso), i carichi di lavoro gravanti sulle amministrazioni e le carenze di personale per mancati reclutamenti, escludono in radice qualsiasi profilo di danno erariale per assenza di colpa grave in capo a tali oberatissimi funzionari pubblici, impossibilitati spesso (salvo prova contraria, ben fornibile, ma che deve dimostrare la Procura contabile) a formulare sistematiche richieste di informazioni presso Cancellerie giudiziarie.
Ma anche tale innegabile mancata verifica datoriale non giustifica gli approdi della Cassazione in punto di illegittimità del licenziamento intimato, essendoci un terzo e decisivo soggetto esplicitamente e assai centralmente gravato da identico onore informativo nei confronti del datore di lavoro.
c) Il terzo soggetto gravato da un obbligo di informare il datore del venir meno dell’unico presupposto normativo per rimanere in sospensione cautelare obbligatoria è infatti lo stesso lavoratore, destinatario della sentenza penale d’appello di assoluzione che, di per sé sola, fa venir meno l’automatismo cautelare patito a seguito di condanna di primo grado per reato contro la P.A.
Difatti il lavoratore, chiaramente a conoscenza della assoluzione penale in appello, in ossequio al principio ignorantia legis non excusat, valevole ancor dippiù nella specie stante la importante qualifica di agente di Polizia municipale rivestita dalla protagonista (circostanza che rende la lavoratrice particolarmente avvezza a conoscere e applicare le norme), aveva non solo il diritto, ma soprattutto il dovere di rientrare in servizio notiziando il datore, non essendoci più alcun ostacolo giuridico o fattuale al suo necessario rispetto del vincolo contrattuale che impone la resa della prestazione lavoristica. Tale inosservanza protratta per ben due anni ha condotto, a nostro avviso correttamente, l’amministrazione comunale a licenziare la dipendente.
Permanere passivamente a casa percependo un assegno alimentare dal datore configura infatti condotta sleale e dolosa del lavoratore penalmente assolto, espressiva non solo di comportamento non conforme al basilare e vincolante canone costituzionale (art.54 cost.) che impone l’espletamento delle funzioni pubbliche con “onore e disciplina” (palesemente inosservate dalla disonorevole condotta della lavoratrice), ma soprattutto di evidente assenza di correttezza e buona fede (artt.1175, 1366, 1375 c.c.) nei rapporti con il datore, e di diligenza (art.2104 c.c.) richiesta dalla natura della prestazione dovuta e dall’interesse dell’impresa-P.A, categorie ampiamente esplorate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ma inspiegabilmente trascurate dall’autorevole organo giudicante, che sembra essersene incredibilmente dimenticato nella sentenza che si annota. Tale condotta dell’inerte lavoratore si traduce altresì in un intollerabile “abuso del diritto”, che i canoni di correttezza e buona fede notoriamente drenano , correggendo il giudizio di stretta osservanza formale del regolamento normativo (art.154-ter, disp.att.c.p.p.) che, prima facie, sembrerebbe imporre, nel caso in esame, un obbligo di avviso al datore delle sentenze penali solo in capo alle Cancellerie e non sul lavoratore, la cui inerzia, secondo la Cassazione che qui si critica, sarebbe dunque tollerabile e non un abuso del diritto nel rimanere consapevolmente inerte per due anni.
Ma lo stesso art.3, co.2 del d.P.R. 16 aprile 2013 n.62 (Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici introdotto dalla l. n.190 del 2012) ribadisce tali obblighi comportamentali di correttezza e buona fede , la cui violazione assume valenza disciplinare ex art.16, d.P.R. n.62 ed ex art.54, co.3, d.lgs. n.165 del 2001. Ed anche la legge 7 agosto 1990 n.241, dopo le modifiche apportate dalla l.11 settembre 2020 n.120, all’art.1, co.2-bis, ha elevato la buona fede a principio basico anche nei rapporti tra cittadino e P.A., anche se già la giurisprudenza amministrativa aveva avuto modo di affermare che la buona fede opera anche nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico e dell’azione amministrativa nel suo complesso .
Del resto, se in base ai CCNL di Comparto , in ossequio ai concorrenti principi di correttezza, buona fede, onore e diligenza, è doveroso da parte del lavoratore notiziare il datore di un mero rinvio a giudizio (per consentire iniziative cautelari e disciplinari datoriali) nonostante l’identico (ma più limitato) obbligo gravante sul Pubblico Ministero ex art.133, co.1-bis, disp.att. c.p.p. per i soli reati contro la P.A. , a maggior ragione, nonostante l’obbligo informativo parallelamente imposto alle Cancellerie giudiziarie ex art.154-ter, disp.att.c.p.p., è da ritenere obbligatorio per il dipendente notiziare il datore degli esiti di quel rinvio a giudizio, ovvero delle sentenze penali (di condanna o di assoluzione) di ogni grado per consentire o chiudere iniziative cautelari e disciplinari datoriali.
A ciò aggiungasi, a conferma della evidente non correttezza (slealtà di condotta) del lavoratore nel caso sub iudice, che non può porsi neppure un astratto problema (non prospettato nel giudizio) di applicabilità del principio “nemo tenetur contra se edere” , ostativo ad una comunicazione al datore di un dato lesivo di diritti difensivi del dipendente: difatti, a prescindere dalla evidente operatività del principio solo a fronte di fatti che possono portare a sanzioni disciplinari in senso tecnico per il lavoratore e non certo a mere misure cautelari (tra l’altro da revocare, nella specie, a vantaggio del dipendente), che non sono notoriamente sanzioni, la conoscenza datoriale di qualsiasi sentenza penale riguardante un proprio lavoratore, soprattutto se di assoluzione, serve ad ambo le parti, e dunque anche al dipendente, per far chiarezza, sul piano lavoristico, su pendenze disciplinari o cautelari come nel caso di specie, connotato da una sospensione obbligatoria rebus sic stantibus, che non può ovviamente restare efficace sine die.
Correttezza e buona fede (oggettiva), unitamente alla diligenza del lavoratore, incidono su ogni relazione contrattuale e, quindi, anche sul contratto di lavoro, sia per quanto riguarda la funzione integrativa delle obbligazioni contrattuali , sia per quel che concerne la funzione “valutativa” delle obbligazioni delle parti. Tali parametri sono immanenti non solo alla stipulazione, bensì all’interpretazione e all’esecuzione del contratto, e sono notoriamente autonome fonti di obblighi comportamentali, attivi o talvolta omissivi, per ambo le parti del contratto di lavoro. Come in altre circostanze, queste norme assumono giuridica rilevanza, dando equilibrio al sistema contro l’arbitrio. Le clausole generali summenzionate servono infatti in funzione di proporzionalità del sistema del diritto del lavoro.
Come rimarcato da più parti , le clausole generali di correttezza e buona fede oggettiva rappresentano obblighi accessori all’obbligazione contrattuale principale. Da un lato integrano il contenuto degli adempimenti previsti in contratto con impegni non previsti, ma strettamente e ragionevolmente correlati all’obbligazione principale, e, dall’altro, consentono, sul piano interpretativo e applicativo, di valutare la condotta dei singoli contraenti, limitando all’occorrenza l’esercizio di eccessive pretese da parte di ciascuno di essi che possano influire sull’equilibrio contrattuale.
Correttezza e buona fede impongono a ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse di controparte e costituiscono il filtro necessario per impedire che l’esercizio della discrezionalità di ciascuna delle parti del rapporto possa sfociare in una discriminazione, vessazione o, comunque, come nel caso vagliato dalla Cassazione, in un mero arbitrio in danno di controparte.
La buona fede in senso oggettivo pone regole di condotta, definendo modelli di comportamento socialmente apprezzabili ai quali i contraenti devono uniformarsi: è assai evidente a qualsiasi appartenente alla collettività che il non informare da parte di un agente di Polizia municipale (preposto a delicati compiti di agente o ufficiale di PG e garante della legalità sul territorio) per due anni il datore del venir meno dell’unico presupposto legittimante la propria sospensione obbligatoria, restando così a casa a percepire l’assegno alimentare, rappresenta un comportamento socialmente non apprezzabile, che viola il parametro della esecuzione in buona fede del contratto dell’art.1375 c.c.
Ma soprattutto, nel lavoro pubblico il predetto canone civilistico (artt.1175 e 1375 c.c.) e lavoristico (diligenza ex art.2104 c.c.), va letto in combinato disposto con i parametri costituzionali del buon andamento della P.A. (art.97 cost.) e di espletamento delle funzioni pubbliche con “onore e disciplina” (art.54 cost.): è infatti ormai consolidata l’idea, sul piano dottrinale e giurisprudenziale , che per identificare il concreto contenuto dei parametri di correttezza e buona fede sia necessario riferirsi alla Costituzione, innanzitutto ai diritti e doveri dei soggetti privati in essa contenuti, ma anche ai fondamentali principi di solidarietà sociale previsti nella Carta costituzionale, con specifico riferimento agli articoli 2, 36, 37, 39, 41 e 42 della Costituzione. L’art.2 cost. impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica del bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali.
Per il lavoro presso la P.A., connotato da innegabili peculiarità pubblicistiche pur in un regime privatizzato , i referenti costituzionali aggiuntivi rispetto a quelli del lavoro privato sono, appunto, gli artt.97 e 54 cost. che impongono una buona fede e diligenza ancor più qualificata ed “alta” del lavoratore nei rapporti con il datore-P.A.: tale diligenza si chiama testualmente, nella formulazione costituzionale, “onore”.
Del resto, così come la Cassazione ritiene pacificamente gravante sul datore obblighi di correttezza e buona fede in sede disciplinare e in tante altre casistiche, specularmente tali obblighi gravano sul lavoratore secondo univoca giurisprudenza (persino per condotte extralavorative) , che ha individuato la violazione di tale centrale parametro in condotte ben meno gravi e disonorevoli di quella oggetto della sentenza n.5813 del 2022 che si annota .
In sintonia con tale nostra lettura si pone anche il Consiglio di Stato , che ha affermato, con riferimento alla diversa fattispecie della cessazione delle misure cautelari penali, situazione però analoga alla presente in quanto anche in quel caso la P.A. non può conoscere che il presupposto della sospensione cautelare è venuto meno, che è “onere del dipendente che aspiri ad essere riammesso in servizio, cooperare con l'amministrazione, notiziandola del venir meno dell'impedimento alla riattivazione del rapporto di lavoro (cfr. Cons. St., sez. VI, 30 aprile 2002, n. 2327”.
Ma in tutti i settori contrattuali (es. appalti, compravendite, permute etc.), e non solo in sede lavoristica, la giurisprudenza ha valorizzato, quale espressione di correttezza e buona fede oggettiva, l’obbligo di avvisare e informare la controparte e di salvaguardare l’interesse di quest’ultima . Nel caso di specie, la pur vittoriosa ricorrente in Cassazione ha clamorosamente inosservato entrambi gli obblighi.
A ciò aggiungasi che la correttezza e buona fede vanno lette anche alla stregua del canone pubblicistico della tutela dell’affidamento, che opera a nostro avviso anche (e reciprocamente) tra le parti del rapporto di lavoro pubblico, correlandosi al fondante canone lavoristico della fiducia che connota il legame contrattuale tra le parti: pare di solare evidente come la sleale condotta della dipendente ricorrente incrini irrimediabilmente la fiducia datoriale, oltre a configurare una assenza ingiustificata.
E’ dunque alquanto singolare che, soprattutto per un agente di Polizia Municipale, una abulica condotta di stasi nelle mura domestiche, connotata da percezione di un non minimale assegno alimentare non spettante a seguito di riforma della originaria condanna, sia stato ritenuto dalla Cassazione, che ha nei decenni contribuito a forgiare queste categorie giuridiche quale fonti di obblighi per le parti contrattuali, non espressivo di plateale violazione dei canoni di correttezza e buona fede, onore e diligenza desumibili dal consapevole mancato avviso e informazione della controparte datoriale.

 

3. Conclusioni: un auspicabile ripensamento della Cassazione. Anche sul lavoratore grava l’obbligo, quale espressione di correttezza, buona fede, onore e diligenza, di comunicare al datore sentenze penali che lo riguardano.

Coscienti che, come felicemente afferma Orazio, “quandoque bonus dormitat Homerus”, e che, dunque, anche il giudice di legittimità può errare, sarebbe tuttavia auspicabile che l’approdo interpretativo venisse emendato con un rapido ripensamento della Cassazione su tale fattispecie, in quanto è verosimile presagire che vi saranno numerose altre identiche situazioni originate dal concorso di due sistematiche condotte omissive:
a) l’omessa (ma comprensibile) osservanza da parte delle Cancellerie degli uffici giudiziari (di primo, secondo e terzo grado) dell’obbligo di comunicazione delle sentenze penali concernenti pubblici dipendenti alle rispettive amministrazioni ex art.154-ter c.p.p., essendo la norma inesigibile e assai mal formulata, imponendo tale onere in capo ad un soggetto assai oberato, ovvero il cancelliere, assolutamente impossibilitato ad una sistematica lettura di tutte le sentenze penali depositate. Trattasi dunque di condotta imposta, ma di regola inesigibile ! A tale problema, come sopra rimarcato, dovrebbe porsi immediato rimedio, modificando la norma e imponendo l’obbligo di segnalazione al datore in capo all’estensore della sentenza, nel dispositivo, tramite la Cancelleria;
b) l’omesso monitoraggio datoriale sugli sviluppi in appello o in Cassazione su sentenze comportanti l’applicazione di sospensione cautelare obbligatoria è condotta criticabile, ma non sempre esigibile per le carenze e complessità organizzative della P.A.
Ed allora, a ben pensarci, è solo e soltanto il lavoratore destinatario di condanna penale per reati contro la P.A. comportante sospensione obbligatoria dal servizio che, edotto della riforma della prima sentenza, deve per correttezza, buona fede, diligenza ed onore informare il datore della sopravvenienza, presentandosi tempestivamente e doverosamente in ufficio (anche un ritardo minimale potrebbe ingenerare reazioni disciplinari, magari non espulsive): la riammissione è un atto (determina dirigenziale datoriale) di rapida, anzi immediata, adozione leggendo il dispositivo della sentenza prodotta dal solerte dipendente che agisca con “onore e disciplina” e mosso da “correttezza e buona fede”.
L’inottemperare a tale obbligo assume a nostro avviso inequivoca valenza disciplinare, originando sanzioni conservative in caso di tollerabile e minimale ritardo (di pochissimi giorni), o sanzioni espulsive in caso di macroscopico ritardo, come nel caso di specie (la P.A. è stata notiziata ad aprile 2016 dall’avvocato della lavoratrice, circa cioè dopo due anni dalla riforma, nel marzo 2014, della sentenza penale in appello).
Quale mera testuale conferma di tale approdo interpretativo, già desumibile dall’attuale sistema e coerente con gli insegnamenti della stessa Cassazione in punto di “correttezza e buona fede”, sarebbe auspicabile che le parti contrattuali, in successivi rinnovi del CCNL, o ciascun ente in sede di aggiornamento dei codici di comportamento aziendali attuativi (ed ampliativi) del d.P.R. n.62 del 2013, ribadiscano un formale obbligo così formulato: “ferme restando le norme statuenti identico obbligo sugli organi ed uffici giudiziari, il lavoratore ha l’obbligo di trasmettere senza indugio con qualsiasi mezzo, e prioritariamente con PEC, alla propria amministrazione il testo integrale delle sentenze, di condanna o di assoluzione, che lo riguardino. L’inosservanza o il ritardo assumono valenza disciplinare”.
Del resto, come sopra rimarcato, già i vigenti CCNL di Comparto (e quelli pregressi succedutisi nel tempo) sanciscono oggi, in ossequio ai concorrenti principi di correttezza, buona fede, onore e diligenza, la comunicazione al datore da parte del lavoratore di atti processuali penali di minor impatto lavoristico, quale il rinvio a giudizio del dipendente, soglia processualpenalistica ben più lieve di una sentenza penale. Se è dunque doveroso da parte del lavoratore notiziare il datore di un mero rinvio a giudizio (per consentire iniziative cautelari e disciplinari datoriali) nonostante l’identico (ma più limitato) obbligo gravante sul Pubblico Ministero ex art.133, co.1-bis, disp.att. c.p.p. per i soli reati contro la P.A. , a maggior ragione è da ritenere obbligatorio notiziare il datore degli esiti di quel rinvio a giudizio, ovvero delle sentenze penali (di condanna o di assoluzione) di ogni grado per consentire o chiudere iniziative cautelari e disciplinari datoriali.
In un Paese connotato da scarso senso del dovere, da flebile correttezza interpersonale e da tenue senso di appartenenza alle Istituzioni, è assai opportuno ribadire e formalizzare rapidamente in CCNL o in Codici di comportamento (d.P.R. n.62 del 2013 e Codici aziendali integrativi) tale chiaro precetto, anche se il suo contenuto, si riafferma, è già attualmente desumibile dal sistema normativo (artt.1175, 1375 c.c. su correttezza e buona fede; art.54 cost. su onore e disciplina nell’esercizio di pubbliche funzioni; art.2104 c.c. sull’obbligo di diligenza del lavoratore) e dagli enunciati della Cassazione stessa, che questa volta, nella sentenza esaminata,.….se ne è sorprendentemente dimenticata.
Ma non è mai troppo tardi per rimeditare sui propri errori: ciò che rende grande un uomo, e lo stesso vale per una autorevole Istituzione, è saper riconoscere i propri errori e porvi rimedio, soprattutto a fronte di sleale condotta del ricorrente, come quella oggetto di causa, che appare evidentemente connotata da dolo, più che da colpa grave del lavoratore, e che, come tale, apre scenari di danno erariale per indebita percezione di assegno alimentare e, forse, di truffa ai danni dello Stato (art.640 c.p.).
L’ipotizzabilità di un danno erariale arrecato alla P.A. datrice dal lavoratore per erogazione indebita di assegno alimentare per anni a fronte della mancata informazione, espressiva di assenza di correttezza, buona fede, onore e diligenza, sugli sviluppi penali ostativi alla permanenza in sospensione, trova conforto in un condivisibile indirizzo lavoristico tendente a riconoscere al datore (e dunque anche alla P.A. attraverso il c.d. doppio binario civile e giuscontabile ) il risarcimento danni da condotte scorrette o in mala fede del datore: affermano le sezioni unite della Cassazione che il principio di correttezza e buona fede deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile.
Tale nostra lettura è stata di recente recepita dalla Corte dei conti che, sulla medesima fattispecie qui in esame, disattendendo gli approdi predetti della Cassazione, le cui statuizioni non assumono portata vincolante nella distinta sede giuscontabile, ha condannato la “vigilessa” a rifondere al Comune il danno erariale da indebita percezione di assegno alimentare in assenza dei presupposti normativi senza rendere alcuna prestazione lavorativa .
Ma soprattutto i nostri auspici su un auspicabile ripensamento della stessa Cassazione sugli obblighi informativi a favore del datore su statuizioni penali relative al lavoratore e su quest’ultimo ben ipotizzabili, quale principio di correttezza, buona fede, diligenza e onore, sono stati in tempi recenti recepiti dalla sezione lavoro con sentenza 16 maggio 2023 n.13383.
La vicenda vagliata da tale snella ma rilevante decisione riguardava un dipendente di una ASL leccese (necroforo) licenziato per la sua “assenza ingiustificata dal servizio” per oltre due mesi (non comunicata dal lavoratore al datore), assenza provocata dall' “essere egli ristretto in carcere in virtù di sentenza definitiva per reati non commessi nell'esercizio delle sue funzioni”. La Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento datoriale considerando che il lavoratore avrebbe ben potuto inviare una formale ed esaustiva (e non parziale e informale come avvenuto tramite la moglie del lavoratore) comunicazione scritta esplicativa dei motivi dell'assenza e della durata (in modo da consentire al datore di approntare la sostituzione e comunque di riorganizzare il servizio in mancanza del lavoratore assente), mentre invece, egli si era completamente disinteressato di aver abbandonato il posto di lavoro e di aver lasciato il datore privo di notizie in merito alla sua assenza, peraltro destinata a durare a lungo, considerata la condanna dell'uomo a sei anni e nove mesi di reclusione.
Dunque la Cassazione, nonostante il formale obbligo di comunicazione di sentenze al datore pubblico gravi espressamente sulle Cancellerie degli uffici giudiziari ex art.154-ter, disp.att.c.p.p., ha ritenuto ingiustificata l’inerzia comunicativa anche da parte del lavoratore, con conseguente legittimità del licenziamento disciplinare inflitto al lavoratore ristretto in carcere, ma inerte lavoristicamente e dunque ingiustificatamente assente.

 

 

 

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