testo integrale con note e bibliografia

1. Generalità. In questo scritto (che riprende la relazione svolta dalla scrivente al Seminario di Studi organizzato dal CSDN a Cosenza il 20 maggio 2022 su “I rapporti di lavoro nelle società partecipate alla luce del d.lgs. n. 175/2016” con note aggiuntive e integrazioni rese necessarie dalla successiva evoluzione giurisprudenziale), partendo da un rapido excursus normativo, si esamineranno le problematiche che, con riguardo alle società partecipate e cioè a quelle figure giuridiche che sono al confine tra diritto pubblico e diritto privato, si pongono in relazione al reclutamento del personale ed alle conseguenze della declaratoria di illegittimità di contratti a termine.
Come è noto, il ruolo e le funzioni delle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche, particolarmente diffuse nel comparto delle amministrazioni locali, è stato nel corso del tempo oggetto di numerosi interventi legislativi finalizzati alla razionalizzazione del settore, sia per aumentarne la trasparenza che per ridurne il numero, anche allo scopo di un contenimento della relativa spesa.
Il tema delle società partecipate si colloca al confine tra diritto pubblico e diritto privato (in quella che è stata definita una ‘terra di mezzo’) ed è tra i più lontani dalla tranquillizzante idea “che esistano due diritti, l’uno per i rapporti tra privati, l’altro per quelli tra amministrazioni pubbliche e privati” e cioè da quella “grande dicotomia” tra gerarchia e mercato che ha trovato costante utilizzo nella storia del pensiero politico e sociale, oltre che giuridico occidentale .
È stata sempre fortemente avvertita la necessità di contemperare le due “anime” della società partecipata (allo schema privatistico del contratto di lavoro che aveva indirizzato il legislatore verso il modello societario si era affiancata l’esigenza di prevedere correttivi volti a fare dell’ente partecipato un efficiente strumento di perseguimento delle politiche pubbliche) e ciò giustifica i plurimi e non sempre armonici interventi normativi in materia, che si sono susseguiti, a partire dal giugno 2008, attraverso continui rimaneggiamenti dei testi legislativi.
Al fine di superare la frammentarietà del quadro normativo che nel corso del tempo si è determinato nel settore delle partecipazioni societarie pubbliche e di pervenire ad una ricomposizione della disciplina delle società a partecipazione pubblica è stata emanata nel 2015 una delega (la legge n. 124/2015 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”) che all’art. 18 reca i principi e cirteri direttivi per il riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle pubbliche amministrazioni. Lo scopo di tale legge è stato quello di ridimensionare il fenomeno, con previsioni volte ad incidere sulla stessa capacità degli enti pubblici di costituire società o di acquisire quote di partecipazione; di moralizzarlo con l’estensione delle normative in materia di trasparenza ed anticorruzione; di evitare l’elusione dei vincoli propri dell’amministrazione (proprio attraverso la regola del concorso per l’accesso all’impiego o quella dei limiti contingenti derivanti dalle norme in materia di finanza pubblica); di ridurre distorsioni concorrenziali. Si è, così, previsto di differenziare le tipologie societarie; ridefinire le regole per la costituzione di società o per l’assunzione o il mantenimento di partecipazioni da parte di amministrazioni pubbliche; creare un preciso regime che regolasse le responsabilità degli amministratori e del personale delle società; individuare la composizione e i criteri di nomina degli organi di controllo societario, al fine di garantirne l’autonomia rispetto agli enti proprietari; rafforzare i criteri pubblicistici per gli acquisti e il reclutamento del personale, per i vincoli alle assunzioni e le politiche retributive. Uno specifico criterio di delega è stato infine dettato con riferimento alle sole società partecipate dagli enti locali, ed è stato a sua volta articolato in sette diversi principi, attinenti all’adeguatezza della forma societaria da adottare, ai criteri e strumenti di gestione, alla razionalizzazione delle partecipazioni societarie da parte degli enti territoriali interessati in un’ottica di rafforzamento delle misure volte a garantire il raggiungimento di obiettivi di qualità, efficienza, efficacia ed economicità, anche attraverso la riduzione dell’entità e del numero delle partecipazioni e l’incentivazione dei processi di aggregazione, alla trasparenza e confrontabilità dei dati economico patrimoniali, agli strumenti di tutela occupazionale nei processi di ristrutturazione societaria, all’introduzione di un sistema sanzionatorio per la mancata attuazione dei principi di razionalizzazione e riduzione; alla trasparenza e rendicontazione da parte delle società partecipate nei confronti degli enti locali.
Il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, attuativo della suddetta delega, denominato “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” , si è mosso in tale direzione e ha sicuramente avuto il pregio di offrire una visione organica della materia da un lato riproponendo disposizioni in materia già vigenti e dall’altro inserendo nuove norme volte alla razionalizzazione del fenomeno della partecipazione pubblica, con l’obiettivo di assicurarne una più efficiente gestione e di contribuire al contenimento della spesa pubblica. Il T.U. si articola sostanzialmente in quattro tipologie di intervento: 1) disposizioni introduttive recanti: - l’indicazione dell’oggetto e dell’ambito di applicazione del T.U. (art. 1); - la formulazione delle definizioni (art. 2); - l’individuazione dei tipi di società in cui è ammessa la partecipazione pubblica (art. 3), individuazione completata dagli artt. 16, 17 e 18, dedicati, rispettivamente, alle società in house, alle società miste pubblico-private, al procedimento di quotazione di società a controllo pubblico in mercati regolamentati; 2) disposizioni volte a stabilire condizioni e limiti delle partecipazioni pubbliche, nonché a ridefinire le regole per la costituzione di società o per l’assunzione o il mantenimento di partecipazioni societarie da parte di amministrazioni pubbliche, e di alienazione di partecipazioni pubbliche (artt. da 4 a 10); 3) disposizioni in materia di organi di amministrazione e di controllo delle società a controllo pubblico, con riferimento ai seguenti profili: - governance societaria, requisiti dei componenti degli organi di amministrazione e compensi dei membri degli organi sociali (art. 11); - regime di responsabilità dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti (art. 12); - regime di controllo, con riguardo all’attivazione del controllo giudiziario (art. 13), alla prevenzione della crisi di impresa (art. 14), al controllo e monitoraggio da parte del Ministero dell’economia e delle finanze (art. 15); 4) disposizioni volte a incentivare l’economicità e l’efficienza mediante: - l’introduzione di procedure di razionalizzazione periodica e di revisione straordinaria (artt. 20 e 24), di gestione del personale (artt. 19 e 25), di specifiche norme finanziarie per le partecipate degli enti locali (art. 21) e di promozione della trasparenza (art. 22). Completano l’intervento le norme transitorie e quelle di coordinamento con la legislazione vigente (artt. 26 e 27), la clausola di salvaguardia per le regioni a statuto speciale e le disposizioni abrogative (artt. 23 e 28).
Con la legge di bilancio 2018 (legge n. 205/2017, art. 1, co. 872), si è sancita l’applicabilità delle disposizioni degli artt. 19, co. 8 (sul riassorbimento), e 25 del d.lgs. n. 175/2016, salva diversa disciplina normativa a tutela dei lavoratori, anche ai dipendenti dei consorzi costituiti dagli enti locali per la gestione associata di servizi e delle aziende speciali degli enti locali che, alla data di entrata in vigore del T.U., risultino già posti in liquidazione da parte delle amministrazioni pubbliche.
2. Finalità. Le finalità perseguite dal T.U., sono enunciate dall’art. 1, co. 2 , in termini di efficiente gestione, tutela e promozione della concorrenza e del mercato, razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica. È lo stesso legislatore ad indicare (“Le disposizioni contenute nel presente decreto sono applicate avendo riguardo …”) che proprio tali finalità devono orientare l’interprete in tutti quei casi in cui la normativa risulti incerta . Si è già detto che il ricorso allo strumento societario si era rivelato un facile mezzo di dispersione delle risorse economiche. Ciò spiega perché uno dei profili su cui il legislatore del T.U. del 2016 ha ritenuto di intervenire in modo incisivo è rappresentato dalla disciplina dei costi delle società partecipate specialmente in materia di personale.
Proprio sul tema dei costi vi erano stati, prima del T.U. del 2016, numerosi interventi legislativi a riprova dell’estrema difficoltà della scelta di meccanismi normativi idonei a garantire il contenimento della spesa unitamente alla preservazione dell’efficienza della società. Il testo dell’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008 era stato modificato ed integrato già nel 2009, poi era stato sostituito dapprima dall’art. 1, co. 557, l. n. 147/2013 (legge di stabilità 2014) e, a brevissima distanza, dall’art. 4, co. 12-bis, d.l. n. 66/2014 (c.d. decreto IRPEF), convertito con modificazioni dalla l. n. 89/2014, interventi tutti in base ai quali le società a partecipazione pubblica locale, totale o di controllo, dovevano attenersi al principio di riduzione dei costi del personale, attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale. A tal fine, si imponeva all’ente controllante l’emanazione di un proprio atto d’indirizzo per la definizione di specifici criteri e modalità di attuazione del principio di contenimento dei costi del personale, tenendo conto del settore in cui ciascun soggetto doveva operare. Le controllate erano, poi, tenute a recepire tali indirizzi con propri provvedimenti e, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, gli stessi dovevano essere recepiti in sede di contrattazione di secondo livello.
Il delicato tema del contenimento dei costi delle società partecipate con riferimento agli oneri per il personale ha trovato nuova definizione nell’art. 19, commi 5 , 6 e 7 , d.lgs. n. 175/2016. Il legislatore del 2016 ha mantenuto quello che è stato definito un “doppio canale” di attuazione della finalità di risparmio. Infatti, l’art. 19, co. 5, si rivolge alle amministrazioni pubbliche socie, sulle quali grava l’onere di fissare, con propri provvedimenti, obiettivi specifici, annuali e pluriennali, circa il complesso delle spese di funzionamento, ivi comprese quelle per il personale, delle società controllate, anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni . A questo canale di definizione del risparmio si aggiunge quello di cui al comma 6, diretto alle società a controllo pubblico che devono garantire il concreto perseguimento degli obiettivi fissati dagli enti soci, tramite propri provvedimenti da recepire, ove possibile, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, in sede di contrattazione di secondo livello. Anche in questo caso, il legislatore ha mantenuto l’obbligo delle società controllate di recepire le indicazioni degli enti controllanti, con un’importante novità quanto al successivo passaggio, eventuale, di recepimento in sede di contrattazione di secondo livello.
Deve rilevarsi, da ultimo, l’introduzione di alcuni elementi derogatori rispetto al modello della società partecipata di cui al T.U. ad opera di recenti interventi legislativi, che paiono ampliare lo spazio di operatività di tali società nell’ordinamento italiano, non senza dubbi di compatibilità con il diritto dell’Unione europea. Si pensi alle disposizioni che hanno consentito l’affidamento diretto a prescindere dall’esistenza del requisito del controllo analogo tra amministrazione affidante e società in house affidataria . Si pensi, altresì, all’attenuazione dell’onere di motivazione gravante in capo alle amministrazioni in caso di affidamento diretto alle società in house .
3. Quadro sistematico. Come per altri aspetti, fino all’intervento riordinatore del settembre 2016, anche la normativa applicabile in materia di personale si articolava in diverse disposizioni dislocate in varie fonti normative, aventi ad oggetto la regolamentazione dei criteri di reclutamento del personale (art. 18, co. 1 e 2, d.l. n. 112/2008), il contenimento dei costi del personale (art. 18, co. 2-bis, d.l. n. 112/2008), la mobilità del personale già assunto (art. 1, co. 563 ss., della l. n. 147/2013, c.d. legge di stabilità 2014). È su questo variegato panorama normativo che il legislatore, come già auspicato dai commentatori della disciplina previgente , ha inteso intervenire con la legge delega n. 124/2015 e quindi con il d.lgs. n. 175/2016 “al fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza, con particolare riferimento al superamento dei regimi transitori” (art. 18, co. 1, l. n. 124/2015).
Da un punto di vista sistematico va ricordato che le norme del T.U. consistono in una disciplina generale dettata per tutte le “società a partecipazione pubblica” ed una disciplina speciale, a carattere più stringente e restrittivo, riferita alle sole “società a controllo pubblico”. In tale seconda disciplina rilevano le disposizioni di cui all’art. 11, in materia di organi amministrativi e di controllo e soprattutto le disposizioni più prettamente lavoristiche di cui all’art. 19.
In verità, anche prima dell’espressa affermazione di cui all’art. 19 del T.U. del 2016 la disciplina dei rapporti di lavoro alle dipendenze della società a controllo pubblico è sempre stata saldamente ancorata al “lavoro nell’impresa”, non fosse altro che per la natura privatistica delle società a controllo pubblico quale datore di lavoro. Non si è mai dubitato, quindi, del fatto che la disciplina applicabile a tali società fosse quella privatistica mentre il tema che si è posto (e si pone) riguarda le deroghe e le norme speciali che il legislatore ha di volta in volta dettato.
Fino al 2008 non vi era vincolo di assunzione con pubblico concorso (ed infatti Cass. n. 20782/2019 con riguardo ad una società d’ambito per la gestione del ciclo integrato dei rifiuti, quale la Ecologia e Ambiente S.p.A., ha affermato che, in tema di società a partecipazione pubblica, il reclutamento di personale effettuato nel periodo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008 - che ha esteso alle predette società, nella ricorrenza di determinate condizioni, i divieti o le limitazioni alle assunzioni previsti per le P.A. - è regolato dal regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato; v. in tal senso anche Cass. n. 13480/2018 con riferimento alla Belice Ambiente S.p.A., altra società partecipata operante nell’ambito della gestione dei rifiuti). Il principio è stato anche più di recente ribadito (v. Cass. n. 20782/2019; Cass. n. 6171/2023).
Con l’emanazione dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008, conv. con modificazioni nella l. n. 133/2008 (norma intitolata “Reclutamento del personale delle aziende e istituzioni pubbliche”), si sono realizzati incisivi interventi di ispirazione pubblicistica che hanno riguardato in primo luogo la fase del reclutamento.
La norma dell’art. 18, nella formulazione modificata in sede di conversione, non si applicava alle società quotate nei mercati regolamentati (in forza della esclusione di cui al comma tre) e si riferiva: al comma uno, alle società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica; al comma due, alle altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo. Diverse erano le prescrizioni per il reclutamento del personale atteso che solo le società di cui al comma uno, caratterizzate da due requisiti (l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali e la partecipazione pubblica totale al capitale), erano tenute ad adottare, con propri provvedimenti, a decorrere dal sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001 (relativi alle procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni). Tutte le altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo, secondo il comma due, erano invece tenute ad adottare, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi secondo i più generici principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità.
Tale distinzione è stata fonte di incertezze interpretative in ordine alla diversa misura dell’adeguamento ai principi di reclutamento vigenti nelle pubbliche amministrazioni. Certo è che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte di legittimità, per le società di cui al primo comma, la violazione delle indicate disposizioni dà luogo alla nullità del contratto di lavoro (con la precisazione che il divieto di assunzione in violazione di tali principi si applica esclusivamente ai contratti stipulati in data successiva a quella di entrata in vigore della norma, fissata a decorrere dal sessantesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge di conversione e, pertanto, dal 21 ottobre 2008). L’orientamento, inaugurato da Cass. n. 3621/2018 e ribadito da numerose successive pronunce conformi (fra le tante Cass. n. 6171/2023, Cass. n. 89/2023, Cass. n. 30235/2022, Cass. n. 27126/2022, Cass. n. 4571/2022), ha fatto leva sul principio enunciato da Cass., S.U., n. 26724/2007, secondo cui, anche in difetto di una previsione testuale di nullità, incidono sulla validità del contratto, ex art. 1418, co. 1, c.c., tutte le disposizioni cogenti che «in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto...» perché «se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni - se così può dirsi - ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo». Il divieto di conversione (v. infra) è stato, pertanto, fatto discendere, per le sole assunzioni disposte a partire dall’entrata in vigore della disposizione sopra richiamata, dal principio secondo cui, in presenza di una norma che subordina l’instaurazione del rapporto di lavoro alla ricorrenza di specifiche condizioni oggettive e soggettive (o, a maggior ragione, a fronte di disposizioni che fanno divieto di costituzione di nuovi rapporti) non può operare la regola, ritenuta nell’impiego privato di carattere generale, alla stregua della quale il rapporto di lavoro nella sua forma ordinaria si intende instaurato a tempo pieno ed indeterminato.
In tale contesto giurisprudenziale si innesta l’impianto normativo di cui al d.lgs. n. 175 del 2016 che all’art. 19 ha eliminato l’indicata distinzione prevedendo per tutte le società a controllo pubblico l’obbligo di stabilire, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all’art. 35, co. 3, del d.lgs. n. 165/2001. La norma, nella parte in cui prevede l’applicazione delle disposizioni sul lavoro nell’impresa, salvo deroghe , costituisce l’approdo di una ricostruzione sistematica già fatta propria dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, chiamate a pronunciare sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario, contabile ed amministrativo, avevano evidenziato che la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società la quale, quindi, resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (cfr. fra le più recenti Cass., S.U., n. 24591/2016, confermativa di pronunce precedenti, e con riferimento ai rapporti di lavoro Cass., S.U., n. 7759/2017).
Plurime sono state le ragioni che hanno indotto il legislatore ad individuare deroghe rispetto a sistema privatistico ‘puro’. Vi è stata innanzitutto la necessità di realizzare un sistema di monitoraggio ed intervento sul costo del lavoro nelle società partecipate, proprio perché si tratta di un costo che finisce per gravare sulle società controllanti, sollevando problemi generali di finanza allargata. Inoltre, l’estensione alle partecipate di alcuni limiti previsti per i dipendenti pubblici è funzionale a scoraggiare la strumentale costituzione di società partecipate da parte delle pp.aa. finalizzata ad aggirare questi vincoli, specialmente quelli assunzionali, direttamente imposti dalla legge. Infine, ma non da ultimo, vi è stata l’esigenza di garantire eticità e trasparenza nella gestione dei rapporti di lavoro da parte di soggetti che, seppur di natura privatistica, operano sotto il controllo e nell’interesse della P.A.
L’art. 19 del T.U. del 2016, nella parte in cui prevede l’applicazione delle disposizioni sul lavoro nell’impresa, salvo deroghe, come è stato evidenziato in dottrina, è, da un lato, superflua, perché analoga affermazione è contenuta nell’art. 1, co. 3, della medesima legge e, dall’altro, fondamentale perché certo è un vincolo per l’interprete che è tenuto ad applicare il regime privatistico fino a quando non si palesi una deroga espressamente dettata.
Orbene, deroghe espresse riguardano le assunzioni del personale (con la precisazione che tali deroghe, e più in generale le disposizioni di cui al d.lgs. n. 175/2016, non si applicano, salvo che non sia espressamente previsto, alle società quotate, come definite dall’art. 2, co. 1, lett. p), nonché alle società da esse controllate, intendendosi per società quotate non solo le società che emettono azioni quotate in mercati regolamentati ma anche le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati).
A ben guardare, più che deroghe, il legislatore ha individuato precisi limiti legali in materia di assunzione.
4. Ambito soggettivo. Prima di esaminare i suddetti limiti, occorre individuare l’ambito soggettivo dell’art. 19 che, come detto, fa riferimento alle “società a controllo pubblico”.
Secondo le definizioni contenute nell’art. 2 del d.lgs. n. 175/2016: - per «amministrazioni pubbliche» si intendono, ai fini del d.lgs. n. 175/2016, in base alle definizioni contenute nell’art. 2, lett. a), le amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001, i loro consorzi o associazioni «per qualsiasi fine costituiti», gli enti pubblici economici e le autorità di sistema portuale; - sono «società a controllo pubblico», in base alla lettera b) ed alla lettera m) dello stesso art. 2, le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo secondo la situazione descritta dall’art. 2359 c.c. Il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo.
Una definizione di controllo pubblico non può, dunque, che partire dall’art. 2359 c.c. che, come è noto, individua tre distinte forme di controllo: 1) un controllo interno di diritto che è quello che si esercita nell’assemblea con la maggioranza dei voti; 2) un controllo interno di fatto (nel quale il soggetto controllante pur non avendo la maggioranza dei voti in assemblea tuttavia ha voti sufficienti per esercitare una influenza dominante; 3) un controllo che si estrinseca attraverso una influenza dominante tra un soggetto ed un altro in virtù di particolari vincoli contrattuali.
Il T.U. sulle partecipate non si limita solo a rinviare alla definizione codicistica ma integra la fattispecie dando all’art. 2 una definizione del controllo e disponendo che, oltre alla situazione descritta nell’art. 2359 c.c., il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo; inoltre, stabilisce che ha rilievo il «controllo analogo» e cioè la situazione in cui l’amministrazione esercita su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, con un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione partecipante e che ha altresì rilievo il «controllo analogo congiunto» e cioè la situazione in cui l’amministrazione esercita congiuntamente con altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (situazione che si verifica al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 5, co. 5, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 per le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori in materia di concessioni o appalti pubblici).
Il controllo, nelle varie forme di cui si è detto, deve essere esercitato da un’amministrazione pubblica.
Cosa debba intendersi per amministrazione pubblica è chiarito dal d.lgs. n. 165/2001, art. 1, co. 2 . Nell’alveo del perimetro selezionato dal legislatore al fine di applicare le disposizioni lavoristiche sono, dunque, incluse le società in house mentre, come detto, sono escluse le società quotate.
Si ricorda che una società può essere qualificata in house quando: a) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a soggetti privati; b) esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo tale che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; c) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità ed intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile (cfr. tra le altre, Cass., S.U., n. 22409/2018; n. 26643/2016; n. 5491/2014).
È lo stesso T.U. del 2016 che, all’art. 16, co. 1, in accordo con la disciplina europea (direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici), dà una tale definizione di società in house . Per quanto riguarda le società a partecipazione mista pubblico-privata, l’art. 17 richiede che nelle società miste costituite per la realizzazione e gestione di un’opera pubblica o di un servizio di interesse generale, avente ad oggetto esclusivo l’attività inerente all’appalto o alla concessione, la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al 30% e lo stesso deve essere selezionato mediante procedura ad evidenza pubblica c.d. a doppio oggetto (sottoscrizione o acquisto di quote societarie da parte del privato e contestuale affidamento del contratto di appalto o di concessione).
5. Limiti. Così individuato l’ambito soggettivo, vediamo quali solo i limiti imposti dal legislatore al reclutamento del personale.
Si tratta di limiti sostanziali come quelli attinenti ai due canali di controllo di cui si è detto previsti dall’art. 19, co. 5 e co. 6. Nel primo caso è richiesto che le amministrazioni pubbliche socie fissino, con propri provvedimenti, obiettivi specifici, annuali e pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento, ivi comprese quelle per il personale, delle società controllate, anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale. Nel secondo caso le società devono garantire il concreto perseguimento degli obiettivi fissati dagli enti soci.
Il legislatore non chiarisce in cosa possa consistere questo contenimento, se cioè debba trattarsi di un provvedimento amministrativo ovvero di un atto da assumersi in sede di assemblea della società. Peraltro, il provvedimento non riguarda direttamente gli oneri contrattuali e le assunzioni ma in prima battuta gli obiettivi specifici, annuali e pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento delle società controllate, ivi comprese quelle per il personale. È certo che la norma intende coniugare l’autonomia gestionale della società controllata con la responsabilità della p.a. nel controllo dei costi per il suo funzionamento.
L’art. 19 fissa poi limiti procedurali che si distinguono in limiti operanti in via permanente e limiti vigenti transitoriamente.
I limiti procedurali permanenti sono fissati dall’art. 19, commi 2, 3 e 4 . Come detto, scompare del tutto la distinzione tra “società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica” e “altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo”: distinzione che connotava la previgente disciplina di cui all’art. 18 d.l. 112/2008. Il riferimento è ora a tutte le società a controllo pubblico, indipendentemente dalla misura e dalle modalità del controllo da parte dell’ente pubblico socio, e indipendentemente dall’oggetto della società (erogazione di servizi pubblici locali o altra attività). La regola si estende, così, all’intero panorama delle società a controllo pubblico, tenute in egual misura al rispetto della disciplina in materia di reclutamento. In secondo luogo, il legislatore ha inteso estendere alle società a controllo pubblico l’obbligo di conformazione delle procedure di reclutamento del personale tanto ai principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità, anche di derivazione europea, quanto ai principi di cui all’art. 35, co. 3, d.lgs. n. 165/2001. La scelta, in qualche modo coerente con la riconduzione ad unità dell’ambito di applicazione soggettivo della norma, è stata di non rinunciare ad alcuno dei parametri normativi già previsti dall’art. 18, co. 1 e 2, d.l. n. 112/2008, e anzi di estenderne la vincolatività a tutte le società e con riferimento a tutte le procedure di reclutamento. Il riferimento ai principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità può apparire ridondante se comparato alla declinazione dei principi di cui al comma 3 dell’art. 35, che già espressamente impone la “adeguata pubblicità” della selezione e delle modalità di svolgimento, che garantiscano la “imparzialità” e assicurino economicità e celerità di espletamento (lett. a), nonché l’adozione di “meccanismi oggettivi e trasparenti”, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire (lett. b). Il legislatore sembrerebbe aver voluto rimarcare i generali criteri di trasparenza, pubblicità e imparzialità, quali linee guida che debbono permeare l’intera procedura di selezione e assunzione, e quali parametri di verifica della legittimità della stessa procedura da parte di chi sarà chiamato a pronunciarsi in caso di contenzioso. Un’ulteriore rilevante novità è nella espressa previsione della diretta applicazione dell’art. 35, co. 3, d.lgs. n. 165/2001 che detta i principi cui debbono conformarsi nelle procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, nelle ipotesi di mancata adozione dei provvedimenti da parte delle società partecipate.
Si è coniata così una disposizione di salvaguardia a tutela della posizione di chi ambisce all’assunzione anche in caso di inerzia della società nella definizione delle procedure di reclutamento.
Nel descritto contesto di pubblicità e trasparenza il comma 3 dell’art. 19, d.lgs. n. 175/2016, ha altresì imposto oneri aggiuntivi prevedendo, in mancanza, l’applicazione di misure sanzionatorie .
Fra le novità più rilevanti della riforma del 2016 in materia di reclutamento del personale vi è la disposizione, di cui al comma 4 dell’art. 19, secondo cui, salva l’applicazione dell’art. 2126 c.c. (peraltro, ai soli fini retributivi), i contratti di lavoro stipulati in assenza dei provvedimenti o delle procedure stabilite al comma 2 sopra descritto sono nulli. Il legislatore ha così replicato il regime sanzionatorio proprio della violazione di norme imperative in materia di concorso per l’accesso alle pubbliche amministrazioni, che, com’è noto, costituiscono materia di riserva di legge ai sensi dell’art. 97 Cost.
Sempre in tema di personale, l’art. 19, co. 8, ha previso poi uno specifico meccanismo di gestione dei processi di mobilità. Prima di effettuare nuove assunzioni, le amministrazioni pubbliche, nel caso di reinternalizzazione di funzioni o servizi prima affidati ad una società partecipata, procedono - nel rispetto delle vacanze organiche e delle risorse disponibili - al riassorbimento delle unità di personale già dipendenti dall’amministrazione e transitate alle dipendenze delle società interessata dalla reinternalizzazione. Al fine di non incidere negativamente sulla programmazione del turn over di personale dell’ente interessato, si è disposto che la spesa per il riassorbimento del personale a tempo indeterminato non rileva nell’ambito delle facoltà assunzionali dell’ente medesimo.
Il legislatore del 2016 non si è mosso solo nel senso di stabilire, attraverso l’adozione di regole imperative, le condizioni sostanziali legittimanti l’acquisizione e il mantenimento di partecipazioni pubbliche (fissando limiti permanenti) ma ha anche disciplinato le procedure che mirano alla razionalizzazione delle partecipazioni stesse. I due percorsi (costituzione e revisione straordinaria) si intersecano, nel senso che le disposizioni che delineano il procedimento di revisione straordinaria e di razionalizzazione periodica sono finalizzate all’alienazione anche, ma non solo, delle partecipazioni che non rientrano nel perimetro di quelle consentite, tracciato dal primo gruppo di disposizioni, in quanto sono prive di uno dei presupposti di ammissibilità stabiliti dal T.U.
L’art. 24 del T.U., nel suo testo originario, stabiliva che le amministrazioni pubbliche erano tenute ad effettuare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto (23 settembre 2016), la ricognizione delle partecipazioni detenute direttamente o indirettamente. Successivamente, l’art. 15 del d.lgs. n. 100/2017 (decreto correttivo intervenuto a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 251 del 2016) ha prorogato il termine di sei mesi inizialmente previsto per il suddetto adempimento, fissandolo nel 30 settembre 2017.
Si tratta di un obbligo di provvedere ad una revisione straordinaria in base al quale l’amministrazione deve precisare, con provvedimento debitamente motivato, quali tra le partecipazioni possedute, intende alienare. In sostanza le amministrazioni sono tenute a predisporre un piano di riassetto per la razionalizzazione, fusione o soppressione delle partecipazioni, anche mediante messa in liquidazione o cessione delle stesse, se esse afferiscono a società non riconducibili ad alcune delle categorie di cui all’art. 4 del T.U.
Alle nuove regole sul personale dettate dall’art. 19 si affiancano le disposizioni transitorie contenute nell’art. 25, norma egualmente tormentata tanto da essere prima modificata dall’art. 16, co. 1, del d.lgs. n. 100/2017 e successivamente sostituita dall’art. 1, co. 10-novies, del d.l. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2020, n. 8. Si vedano anche le disposizioni di cui al successivo comma 10-decies dell’art. 1 del medesimo d.l. n. 162/2019 .
6. Natura giuridica delle procedure di reclutamento. Una delle questioni teoriche che si è posta in materia di reclutamento ha riguardato la natura giuridica delle procedure selettive. Più precisamente ci si è chiesti se le stesse siano da qualificarsi come pubbliche e quindi attuative dei principi di cui all’art. 97 Cost.
La questione si è posta in quanto l’art. 19 del T.U. del 2016 ha stabilito che il reclutamento debba avvenire nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all’art. 35, co. 3, del d.lgs. n. 165/2001.
Parte della dottrina ha rimarcato che la norma va qualificata quale attuazione dell’art. 97 Cost. i cui principi costituiscono canoni fondamentali dell’attività amministrativa quale che sia la forma giuridica da questa assunta. Ed infatti, poiché la suddetta norma costituzionale impone prescrizioni attinenti al contenuto, ponendo vicoli o limiti relativi alle modalità di svolgimento dei rapporti considerati, e dunque impone che l’accesso agli impieghi della pubblica amministrazione avvenga mediante concorso e non anche che il concorso debba essere regolato dalla legge e men che mai che il suo svolgimento debba essere regolato dal diritto amministrativo, anche la disposizione che impone alle società sottoposte a controllo pubblico di porre in essere procedure di selezione nei termini dell’art. 35, co. 3, del d.lgs. n. 165/2001 è da considerarsi norma interposta dei principi ex art. 97 Cost.
Si è invero sottolineato che nel comma 4 dell’art. 97 si fa riferimento ad un ‘concorso’ e non ad un ‘pubblico concorso’, il che consentirebbe di ritenere che la regola del concorso abbia portata generale. Ne consegue che il dato letterale, per tabulas “concorso”, non caratterizzato dalla “pubblicità”, non restringe l’applicazione della regola al soggetto dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, o meglio alla pubblica amministrazione in senso classico, ma la estende a tutti i soggetti che svolgono (come minimo) un’attività amministrativa. Ergo, anche riconoscendo la società pubblica come un datore di lavoro privato, troverebbe applicazione tale regola per il reclutamento del personale. Ancor più varrebbe tale procedura selettiva laddove si identificano tali soggetti come datori di lavoro pubblici.
Tuttavia, è da escludere una ontologica attrattività della previsione di cui all’art. 19, co. 2, cit. nell’alveo del diritto amministrativo. È stato, infatti, evidenziato che il legislatore del T.U. sulle società pubbliche non ha richiesto necessariamente un reclutamento attraverso un concorso pubblico quale quello disciplinato dal d.P.R. n. 487/1994 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi) essendo sufficiente una selezione paraconcorsuale. La tesi sarebbe confermata dalla previsione della giurisdizione del giudice ordinario quanto alle procedure di reclutamento del personale di cui all’art. 19, co. 4 (il che non può però portare ad affermare la possibilità di conversione del rapporto: sul punto v. infra -). Si è rimarcato che l’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001, richiamato dal comma 2 dell’art. 19 del d.lgs. n. 175/2016, fa riferimento, per l’assunzione del personale nelle pubbliche amministrazioni, a “procedure selettive”, espressione linguistica che sembra integrare proprio quella possibilità di deroghe al principio del concorso prevista dall’art. 97 Cost. (“salvo i casi stabiliti dalla legge”), consentendo, quindi, che il personale sia reclutato anche attraverso procedure non concorsuali di tipo comparativo che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno. A fondamento di tale tesi si è richiamata la sentenza della Corte cost. n. 363 del 2006 secondo cui il concorso è la forma generale e ordinaria di reclutamento nel settore pubblico ma è ammesso il ricorso a procedure non concorsuali, purché siano giustificate dalla necessità di garantire il buon andamento dell’amministrazione o di attuare altri principi di rilievo costituzionale.
Invero già prima del T.U. del 2016 la questione del reclutamento presso le società partecipate aveva formato oggetto di dibattito dottrinario e giurisprudenziale. Secondo la pronuncia della Corte cost. 227 del 2013 le selezioni in questione integrerebbero procedure paraconcorsuali, rispettose dei principi del concorso pubblico, ma non dell’intera disciplina imposta per l’espletamento di questi ultimi e, in particolare, del d.P.R. n. 487 del 1994. Il Giudice delle leggi (chiamato a valutare la legittimità costituzionale di una norma della Regione Friuli-Venezia Giulia nella parte in cui prevedeva che il personale di una società partecipata dalla regione transitasse in modo automatico nell’organico dell’amministrazione regionale, in difetto di regolare procedura selettiva aperta al pubblico) ha rimarcato che, ai fini della successiva stabilizzazione, non è sufficiente una procedura selettiva purchessia, atteso che «il previo superamento di una qualsiasi “selezione pubblica”, presso qualsiasi “ente pubblico”, è requisito troppo generico per autorizzare una successiva stabilizzazione senza concorso, perché esso non garantisce che la previa selezione avesse natura concorsuale e fosse riferita alla tipologia e al livello delle funzioni che il personale successivamente stabilizzato è chiamato a svolgere» , «cosicché la garanzia del concorso pubblico non può che riguardare anche l’ipotesi di mera trasformazione di un rapporto contrattuale a tempo indeterminato in rapporto di ruolo, allorché […] l’accesso al suddetto rapporto non di ruolo non sia a sua volta avvenuto mediante una procedura concorsuale» . Il principio è coerente con quello affermato dal Giudice delle leggi in riferimento ad una disposizione di legge regionale (dichiarata costituzionalmente illegittima) che prevede(va) la soggezione delle società affidatarie in house della gestione di servizi pubblici locali al principio del pubblico concorso, rilevando che «la disposizione in esame non è volta a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 Cost., rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico, ancorché formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici». L’affermazione è stata ripresa proprio con riferimento alla disciplina di cui all’art. 18, co. 1, d.l. n. 112/2008, sostanzialmente riprodotto nell’art. 19 T.U. sulle società partecipate, qualificandosi il suddetto art. 18 come norma interposta rispetto al parametro costituzionale di cui all’art. 97 e più di recente ribadendosi che il trasferimento previsto con legge regionale da una società partecipata all’ente regione senza alcuna forma di selezione, neppure a concorsualità attenuata, si risolve in un ingiusto privilegio in violazione dell’art. 97 Cost.
Nella medesima direzione del Giudice delle leggi secondo il quale le selezioni in questione integrerebbero procedure paraconcorsuali si è posta la Cass. n. 19925/2019 che ha definito la procedura in questione procedimento “intermedio”.
Invero già in precedenza il Giudice di legittimità chiamato a pronunciarsi sugli effetti del contratto di lavoro stipulato senza l’esperimento di procedure di assunzione concorsuali, e ciò nella vigenza del d.l. n. 112/2008, aveva mostrato di propendere per la natura interposta dell’art. 35, co. 3. Le vicende esaminate avevano riguardato vari contratti di lavoro flessibili stipulati dall’Azienda Regionale Sarda Trasporti - ad es. a termine o comunque precari - impugnati a seconda dei casi per profili diversi e comunque in periodi in cui non vi era una disposizione espressa (art. 19 T.U. del 2016) sulle conseguenze della violazione dell’onere di autoregolamentazione, chiaramente identificate con la nullità del contratto. Pur tuttavia la Corte ha desunto la ripercussione in termini di nullità ex art. 1418 c.c. del contratto di lavoro stipulato senza l’esperimento di procedure di assunzione concorsuali.
Diverse sono le sentenze della Corte di cassazione cui si potrebbe fare riferimento. In particolare, si segnalano Cass. n. 3621/2018; Cass. n. 4897/2018; Cass. n. 5286/2017; Cass. n. 5525/2018; Cass. n. 6818/2018, Cass. n. 21378/2018; Cass. n. 3662/2019. Nelle motivazioni delle decisioni, peraltro quasi sovrapponibili, emerge come indubitabile il carattere imperativo dell’art. 18 d.l. n. 112/2008. È stato affermato che l’omesso esperimento delle procedure concorsuali ivi previste determina “la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c. perché la violazione attiene al momento genetico della fattispecie negoziale e, quindi, la stessa non può essere solo fonte di responsabilità a carico del contraente inadempiente” e che “sussiste un inscindibile legame fra la procedura concorsuale ed il rapporto di lavoro con l’amministrazione pubblica, poiché la prima costituisce l’atto presupposto del contratto individuale, del quale condiziona la validità, posto che sia la assenza sia la illegittimità delle operazioni concorsuali si risolvono nella violazione della norma inderogabile dettata dall’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001, attuativo del principio costituzionale affermato dall’art. 97, comma 4, della Carta fondamentale”. È stato, infine, affermato che: “va, quindi, esclusa la portata innovativa dell’art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 175/2016 che, nel prevedere espressamente la nullità dei contratti stipulati in violazione delle procedure di reclutamento, ha solo reso esplicita una conseguenza già desumibile dai principi sopra richiamati in tema di nullità virtuali.”
A ben guardare la questione della natura della procedura di reclutamento ha perso l’iniziale interesse atteso che sempre il T.U. del 2016, al fine di eliminare, a monte, ogni questione di riparto della giurisdizione, ha espressamente previsto all’art. 19, co. 4, che resta ferma la giurisdizione ordinaria sulla validità dei provvedimenti e delle procedure di reclutamento del personale, trasformando così in norma quello che era stato l’orientamento maggioritario già espresso nella vigenza della normativa del 2008 (v. Cass., S.U., n. 28330/2011 secondo cui l’art. 18 del d.l. n. 112/2008, il quale detta regole diverse per le procedure di reclutamento del personale da parte, da un lato, delle società in mano pubblica di gestione dei servizi pubblici locali - comma 1 -, e, dall’altro, delle altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo - comma 2 -, è una norma di diritto sostanziale che non incide in alcun modo sui criteri di riparto della giurisdizione in materia di assunzione dei dipendenti, che rimane devoluta, in entrambe le fattispecie anzidette, al giudice ordinario, trattandosi ugualmente di società non equiparabili alle pubbliche amministrazioni; si veda anche Cass., S.U., n. 18749/2023). Così, la disciplina che ha introdotto vincoli, limiti e procedure ad hoc in materia di reclutamento del personale, al fine di mettere un freno a situazioni di scarsa considerazione delle risorse pubbliche, non ha comportato una qualificazione delle previste selezioni quali pubblicistiche (e ciò a prescindere dalla terminologia eventualmente utilizzata per il reclutamento medesimo) tanto da fissare sulle stesse la giurisdizione del giudice ordinario.
I suddetti principi sono stati più di recente ribaditi dalla già citata Cass. n. 19925/2019. In tale pronuncia è stato evidenziato che la ratio legis della disciplina di cui all’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008 (come detto sostanzialmente riprodotto nell’art. 19 T.U. sulle società partecipate) è da rinvenirsi nell’esigenza di adottare procedure di assunzione idonee a selezionare secondo criteri di merito e di trasparenza i soggetti chiamati allo svolgimento dei compiti loro affidati e ciò anche al fine di impedire che società soggette al controllo esclusivo dell’amministrazione pubblica, cui viene affidato direttamente l’esercizio di importanti compiti di interesse generale, in ragione della veste formalmente privatistica possano definire gli aspetti organizzativi delle proprie strutture in modo totalmente svincolato dal rispetto di principi minimi essenziali dell’azione pubblica. È stato così evidenziato che con il citato art. 18 il legislatore ha disciplinato le modalità di assunzione nelle società a partecipazione pubblica, distinguendo, come si è detto, sotto un profilo soggettivo, due casi: quello delle società che gestiscono i servizi pubblici locali, a totale partecipazione pubblica (comma 1) e quello delle altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo (comma 2). In entrambi i casi le società sono state sollecitate ad adottare propri regolamenti per il reclutamento del personale, ma nel primo caso tali regolamenti dovevano essere rispettosi dei principi di cui all’art. 35, del d.lgs. n. 165/2001, mentre nel secondo caso vi è il richiamo ai principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, anche di derivazione comunitaria. È stato precisato che, se sotto un profilo soggettivo vi è un chiaro distinguo, sotto un profilo teleologico e funzionale i commi 1 e 2 presentano un fondamento comune, come posto, peraltro, in evidenza da Cass. n. 3662/2019: «affermato che per le società a totale partecipazione pubblica il previo esperimento delle procedure concorsuali e selettive condiziona la validità del contratto di lavoro, non può che operare il principio secondo cui anche per i soggetti esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 la regola della concorsualità imposta dal legislatore, nazionale o regionale, impedisce la conversione in rapporto a tempo indeterminato del contratto a termine affetto da nullità (...). Diversamente opinando si finirebbe per eludere il divieto posto dalla norma imperativa che, come già evidenziato, tiene conto della particolare natura delle società partecipate e della necessità, avvertita dalla Corte cost., di non limitare l’attuazione dei precetti dettati dall’art. 97 Cost. ai soli soggetti formalmente pubblici bensì di estenderne l’applicazione anche a quelli che, utilizzando risorse pubbliche, agiscono per il perseguimento di interessi di carattere generale». Inoltre, sia il comma 1 che il comma 2, dell’art. 18, sono norme di diritto sostanziale, che non incidono in alcun modo sui criteri di riparto della giurisdizione in materia di assunzione dei dipendenti, che rimane devoluta, in entrambe le fattispecie anzidette, al giudice ordinario.
Sempre nel medesimo precedente di legittimità si è rimarcato che ulteriore elemento di assimilazione funzionale del contenuto normativo del comma 1 e del comma 2 dell’art. 18 si rinviene nella sentenza Cass., S.U., n. 7759/2017 in cui, con riguardo alle società in house, la Suprema Corte ha chiarito che l’affermazione che le società in house costituiscono in realtà mere articolazioni della pubblica amministrazione e quindi necessariamente ne dovrebbero rispettare le regole generali di funzionamento a cominciare dall’obbligo costituzionale di assumere attraverso pubblici concorsi (v. Cass., S.U., n. 24591/2016), non ha una valenza generale. Sarebbe, infatti, illogico postulare che la scelta di quel paradigma privatistico per la realizzazione delle finalità perseguite dalla pubblica amministrazione sia giuridicamente priva di conseguenze, ed è viceversa del tutto naturale che quella scelta, ove non vi siano specifiche di posizioni in contrario o ragioni ostative di sistema, comporti l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato. Dunque, il procedimento di reclutamento previsto dall’art. 18 del d.l. n. 112/2008, conv. dalla legge n. 133/2008, non è equiparabile a quello del concorso pubblico in quanto la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 167 del 2013, punto 3 del Considerato in diritto) ha escluso la possibilità di passaggio alle dipendenze della p.a. di personale assunto da società partecipate nel rispetto dell’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008, proprio in quanto questo non garantisce il pieno rispetto delle procedure concorsuali, ma solo dei principi. Pertanto, affermano le Sezioni Unite, il procedimento di cui all’art. 18, del d.l. n. 112/2008 non coincide con quello concorsuale di cui all’art. 35 d.lgs. n. 165/2001: si tratta dunque di un procedimento “intermedio”, che rispetta i principi del concorso pubblico ma non l’intera disciplina da esso imposta ed in particolare il d.P.R. n. 487/1994.
Ad avviso del precedente di legittimità più recente da ultimo citato, quanto sin qui illustrato, consente da un lato di non ravvisare nell’espletamento di un pubblico concorso, come disciplinato dal d.P.R. n. 487/1994, il discrimine tra primo e secondo comma dell’art. 18, dall’altro, di rilevare che nonostante il mancato riferimento all’art. 35, il comma 2 dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008, nel richiamare i principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità rispetto al reclutamento del personale, richiede alle società di applicare i principi di buon andamento e imparzialità che in ragione dell’art. 97 Cost. comunque sottendono non solo le procedure concorsuali ma anche le procedure selettive (cfr. Cass. n. 25728/2018). Di conseguenza , non qualsiasi procedura selettiva, diretta all’accertamento della professionalità dei candidati, può dirsi di per sé compatibile con i principi che sottendono la regola del concorso pubblico, e che valgono, si osserva, anche per le procedure selettive, al cui espletamento è funzionale la previsione dell’art. 18, co. 2, del d.l. n. 112/2008, conv. dalla legge n. 133/2008. Questi ultimi non sono rispettati, in particolare, quando «le selezioni siano caratterizzate da arbitrarie forme di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi» (cfr. sentenza n. 194 del 2002). La natura comparativa e aperta della procedura è, pertanto, elemento essenziale del concorso pubblico; procedure selettive riservate, che escludano o riducano irragionevolmente la possibilità di accesso dall’esterno, violano il «carattere pubblico» del concorso . È stato ricordato che la Corte costituzionale ha affermato che la circostanza che l’amministrazione (ma si osserva anche la società a partecipazione pubblica, attesa la riferibilità anche a quest’ultima dei principi di cui all’art. 97 Cost.) renda conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la tipologia dei posti che si rendono disponibili nella dotazione organica e i criteri di scelta non dà luogo ad una procedura aperta e pubblica, conformemente a quanto richiesto dagli artt. 3, 51 e 97 Cost. È stato così affermato che le società a totale partecipazione pubblica devono procedere alle assunzioni mediante procedure selettive nel rispetto dei principi che sottendono la regola del concorso pubblico ex art. 97 della Costituzione.
In sintesi, l’art. 19 d.lgs. n. 175/2016 esplicita un principio insito nel sistema: obbligo di procedure concorsuali e divieto di conversione di contratti stipulati in violazione di norma imperativa.
Si tratta di norma che ha quale obiettivo il presidio del principio del buon andamento della p.a. (che permea tutto il testo unico) e che pone quale regola che l’assunzione del personale non deve essere lasciata alla discrezionalità del datore di lavoro costituito da una società a controllo pubblico ma che deve essere basata sul merito e sulla trasparenza.
L’espresso riferimento al comma 3 dell’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001 comporta che i principi cui si conformano le procedure di reclutamento nella pubblica amministrazione – pubblicità, imparzialità, economicità, decentramento delle procedure selettive, celerità, adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, rispetto delle pari opportunità di genere, professionalità ed indipendenza delle Commissioni esaminatrici – sono dunque pienamente applicabili alle procedure di selezione finalizzate all’assunzione del personale attuate dalle società a controllo pubblico e/o in house.
Il problema non è tanto se quello previsto per il reclutamento delle società partecipate è un concorso pubblico, atteso che l’art. 19 del T.U. richiede alle società di applicare i principi di buon andamento e imparzialità che in ragione dell’art. 97 Cost. comunque valgono non solo per le procedure concorsuali ma anche per le procedure selettive.
Si tratta di norma che impone alla partecipata un preciso comportamento (e cioè l’adozione di “criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all’art. 35, co. 3, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165”) che non dà luogo solo ad una responsabilità ma incide sul contratto come, peraltro, si evince dalla espressa sanzione della nullità di cui al comma 4 del medesimo art. 19.
È il contenuto prescrittivo di detta norma (comma 3 dell’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001), che deve essere, infatti, il faro per predisporre i provvedimenti per il reclutamento del personale da parte di ciascuna società controllata e che orienta nell’individuare le conseguenze di una eventuale inottemperanza.
7. Assunzione mediante avviamento. Il T.U. del 2016 non affronta specificamente la questione dell’assunzione mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della legislazione vigente per le qualifiche e i profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo ex art. 35, co. 1, lett. b) del d.lgs. n. 165/2001 (come già evidenziato, l’art. 19 richiama solo l’art. 35, co. 3, del d.lgs. n. 165/2001).
È stato ritenuto in dottrina che deve ritenersi comunque possibile il ricorso a tale forma di reclutamento (che, non è una procedura di assunzione diretta, essendo sempre mediata da un previo inserimento degli aspiranti nelle liste di collocamento, da un successivo invio da parte del Centro per l’impiego alla p.a. richiedente dei nominativi posti nella graduatoria definitiva, da una prova selettiva che può consistere in un colloquio o in una prova pratica) in quanto diversamente sarebbe illogico ritenere che un Comune, per le proprie assunzioni di personale da inserire in livelli per il quale è sufficiente la scuola dell’obbligo, possa avvalersi dell’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento e non possa invece farlo una società controllata dal comune che dovrebbe essere sempre tenuta ad assumere con forme concorsuali di cui si è detto.
Si è anche evidenziato che l’avviamento di cui all’art. 35, co. 1, lett. b, in realtà ricalca una procedura selettiva per quanto peculiare, il che farebbe rientrare comunque tali assunzioni nell’ambito dell’art. 19 del T.U. del 2016.
8. Assunzioni obbligatorie. Ulteriore problema è quello delle assunzioni obbligatorie previste dall’art. 35, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001 che prevede assunzioni per chiamata numerica degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della vigente normativa, previa verifica della compatibilità della invalidità con le mansioni da svolgere.
Anche tale norma non è espressamente richiamata dal T.U. sulle società partecipate ma è da ritenersi che l’obbligo di assunzione delle categorie protette sia individuabile nella legge n. 68/1999, che fissa una regola sostanzialmente unitaria sia per il datore di lavoro pubblico sia per il datore di lavoro privato anche se detta alcune norme specifiche per la p.a. connotate da maggior rigore .
9. Dirigenti. L’art. 19 del T.U. del 2016 nulla specifica in ordine alle qualifiche ed al tipo di contratto per il quale il reclutamento nelle società pubbliche deve passare attraverso i vincoli concorsuali di cui si è detto.
È allora da chiedersi se tale vincolo riguardi anche i dirigenti.
La complessiva ratio della disciplina indurrebbe a ritenere tale categoria ricompresa nell’ambito della previsione dell’art. 19 (peraltro i commi 6 e 10 fanno espresso riferimento, ma ad altri fini, ai dirigenti, il che conferma che se il legislatore avesse voluto escludere tale categoria dall’ambito di applicabilità delle procedure di reclutamento lo avrebbe fatto espressamente). È di certo difficoltoso tenere insieme i due elementi della selezione e della fiduciarietà, che caratterizza il lavoro dirigenziale, ed il vincolo di una procedura concorsuale andrebbe, evidentemente, ad incidere sulla libera recedibilità che, ex art. 10 della l. n. 60/1966, caratterizza il rapporto dirigenziale.
Di recente il Giudice di legittimità (v. Cass. n. 27126/2022), nel risolvere la questione dell’applicabilità di tale norma, non già al reclutamento di personale in genere, bensì al conferimento di un incarico dirigenziale, ha osservato che nel pubblico impiego privatizzato, ai dirigenti non si applica l’art. 35 (e quindi, neppure il suo terzo comma), rubricato “Reclutamento del personale” e contenuto nel Titolo II (Organizzazione), Capo III (Uffici, piante organiche, mobilità e accessi) del d.lgs. n. 165/2001. Ad essi si applica, invece, l’art. 19 dello stesso decreto legislativo, rubricato “Incarichi di funzioni dirigenziali”, contenuto nel medesimo Titolo II (Organizzazione), ma in un diverso capo (non più III: Uffici, piante organiche, mobilità e accessi; bensì) II (Dirigenza) . Sicché, nel pubblico impiego privatizzato, il conferimento di posizioni organizzative e di incarichi di alta responsabilità nell’ambito dell’organizzazione dell’ente non è assoggettato al rispetto della regola del concorso pubblico, perché l’assegnazione delle predette funzioni costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, con la conseguenza che la scelta operata deve solo rispondere ai principi di imparzialità, trasparenza ed efficienza che presiedono ad ogni attività amministrativa (Cass. n. 31421/2021). Così l’atto di conferimento di incarichi dirigenziali integra una determinazione negoziale di natura privatistica, per la cui adozione l’amministrazione datrice è tenuta ad osservare le norme di cui all’art. 19, primo comma, d.lgs. n. 165/2001, dovendo pertanto procedere, alla stregua delle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (e degli stessi principi evocati dall’art. 97 Cost.), ad una valutazione comparativa con gli altri candidati, che contempli adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e sia sorretta da una congrua motivazione circa i criteri seguiti e le ragioni giustificatrici delle scelte adottate (Cass. n. 2603/2018, n. 2603; Cass. n. 6485/2021). Ma ciò non può valere nell’ambito delle società di gestione dei servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica, per le ragioni dette; altresì evidenziando come, con l’inserimento (ad opera dell’art. 19 d.l. 1° luglio 2009, n. 78, conv. in l. 102/2009, in vigore dal 1° luglio 2009) nell’art. 18 d.l. n. 112/2008 del comma 2 bis siano state introdotte ulteriori limitazioni alle partecipate locali, per l’estensione di quelle poste alla amministrazione controllante (nella sua versione originaria e sino alla riscrittura operata dal d.l. n. 66/2014) in riferimento non solo al reclutamento del personale ed alla retribuzione, ma anche alle indennità ed alle consulenze.
10. Mansioni. Ricollegata alla questione del reclutamento è anche quella delle progressioni di carriera. In ambito di impiego pubblico la Corte cost. ha individuato nel concorso pubblico il modello unico non solo per l’assunzione in ruolo ma anche per la progressione in carriera dei lavoratori pubblici . Secondo i principi costituzionali, al pari delle nuove assunzioni, anche gli avanzamenti e le progressioni di carriera esigono un accertamento selettivo delle attitudini professionali che può essere garantito solo da un concorso aperto a tutti; principio ribadito anche dalla giurisprudenza amministrativa .
Così, in relazione ai rapporti alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 2 del richiamato d.lgs. n. 165/2001, l’art. 52, per il suo carattere speciale, impedisce, tenuto conto del sistema delle fonti delineato dall’art. 3, co. 2, l’applicazione della disciplina generale delle mansioni dettata dall’art. 2103 c.c., non compatibile con l’impiego pubblico, sia pure contrattualizzato, non solo per l’incidenza che su detta disciplina ha il principio della necessaria concorsualità dell’assunzione (incidenza che giustificherebbe il divieto solo nel caso di svolgimento di mansioni riferibili ad un’area diversa da quella di inquadramento), ma anche e soprattutto perché la normativa privatistica non si concilia con le regole e con i principi ai quali le amministrazioni pubbliche, non i soggetti privati, devono attenersi nell’organizzazione degli uffici, nella determinazione del fabbisogno di personale, nella correlata e necessaria previsione della spesa.
Per effetto delle pronunce della Corte cost. sull’ambito di applicazione dell’art. 97, ultimo comma, Cost., un diverso orientamento è stato espresso quanto all’impiego pubblico contrattualizzato, in relazione al quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. fra le tante Cass. S.U. n. 26270/2016 e la giurisprudenza ivi richiamata) hanno operato una distinzione fra le procedure finalizzate all’inquadramento dei dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate e quelle comportanti una progressione all’interno di ciascuna area professionale o categoria, sia con l’acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive, sia con il conferimento di un livello funzionale superiore, perché connotato da un complesso di mansioni e di responsabilità. Solo alle prime è stata riconosciuta efficacia novativa del rapporto, con la conseguenza che alle stesse, anche ai fini della giurisdizione, è stata attribuita la medesima natura delle procedure concorsuali finalizzate all’instaurazione del rapporto.
La questione evidentemente si sposta sulle società partecipate in riferimento alle procedure di reclutamento come sopra illustrate.
Il Giudice di legittimità (Cass. n. 35421/2022 e n. 35422/2022) ha di recente evidenziato che una analoga disposizione derogatoria della disciplina dettata dall’art. 2103 c.c. non si rinviene per i rapporti di lavoro alle dipendenze delle società a partecipazione pubblica, giacché l’art. 18 del d.l. n. 112/2008 disciplina il reclutamento del personale e, quanto alla gestione dei rapporti costituiti, si limita a prevedere, al comma 2 bis, che «le predette società adeguano inoltre le proprie politiche di personale alle disposizioni vigenti per le amministrazioni controllanti in materia di contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenze». In particolare, con le indicate decisioni sono state cassate due pronunce di merito che - richiamando l’art. 18 del d.l. n. 112/2008 nonché le leggi regionali siciliane n. 25 del 2008 e n. 11 del 2010 - avevano argomentato che i vincoli ivi imposti fossero ostativi all’applicazione dell’art. 2103 c.c. La Corte di legittimità ha evidenziato che la soluzione da dare alla questione controversa deve tener conto del sistema delle fonti, della natura privatistica della società a partecipazione pubblica, della qualificazione dei rapporti di lavoro che con la stessa si instaurano, elementi, questi, che univocamente indirizzano verso l’applicabilità dell’art. 2103 c.c. e non dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001. Così l’art. 18 del d.l. n. 112/2008 e lo stesso successivo art. 19 del d.lgs. n. 175/2016 - prevedendo sostanzialmente un obbligo, posto a carico della società partecipata, di perseguire nelle politiche inerenti al personale il contenimento dei costi, indirettamente gravanti sulla spesa pubblica – hanno fissato una regola di comportamento per gli amministratori delle partecipate che incide sul rapporto che si instaura fra il socio pubblico e la società e può essere fonte di responsabilità, eventualmente anche erariale; da quell’obbligo non si può desumere, invece, la nullità degli atti adottati dalla società in violazione delle direttive date dal socio (cioè dall’ente controllante), perché il legislatore non ha previsto un meccanismo analogo a quello pensato per l’impiego pubblico contrattualizzato, in relazione al quale il combinato disposto degli artt. 2, co. 3, e 45 del d.lgs. n. 165/2001 garantisce, a pena di nullità della pattuizione individuale, la necessaria conformazione del contratto individuale a quello collettivo. Escluso, quindi, che l’attribuzione definitiva della qualifica superiore possa essere impedita dalle disposizioni di leggi, statali e regionali, che onerano gli amministratori delle società controllate di perseguire nella gestione del personale politiche di contenimento dei costi, è stato parimenti escluso che l’applicazione dell’art. 2103 c.c. si ponga in contrasto con gli obblighi imposti alle società a controllo pubblico in tema di reclutamento. È stato, altresì, osservato che nel rapporto di lavoro alle dipendenze di privati, l’attribuzione della qualifica superiore avviene nell’ambito dell’unico rapporto già costituito e non determina l’instaurazione di un rapporto nuovo, distinto dal precedente, sicché non può essere equiparata all’assunzione. Alla luce del richiamato principio, applicabile alle società a partecipazione pubblica per la natura privatistica delle stesse e dei rapporti dalle medesime instaurati, è dunque da escludere che la disciplina del reclutamento, dettata dapprima dal d.l. n. 112/2008, art. 18, e poi dal d.lgs. n. 175/2016, art. 19, possa essere interpretata nel senso di ricomprendere anche le progressioni di carriera. D’altro canto, secondo la Suprema Corte, l’orientamento che per l’impiego pubblico contrattualizzato riconosce un’efficacia novativa al passaggio di area ha ragionato su rapporti di impiego pubblico che richiedono, nella normalità, il superamento di una procedura concorsuale in senso stretto, attuativa del precetto dell’art. 97 Cost., procedura alla quale la stessa Corte cost. (sentenza n. 227/2020) ha escluso possa essere equiparata quella prevista dall’art. 18 del d.l. n. 112/2008 e dall’art. 19 del d.lgs. n. 175/2016.
In conclusione, si è affermato che non si può fare leva sulle procedure di reclutamento (fermo restando che esse costituiscono formalità necessarie per l’instaurazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle società controllate) per ritenere derogata, in assenza di un’espressa previsione normativa, la disciplina delle mansioni del rapporto già costituito (si veda anche la più recente Cass. n. 25590/2023).
11. Sanzioni per la violazione dell’art. 19. Il legislatore del 2016 ha espressamente previsto all’art. 19, co. 4 , la nullità dei contratti di lavoro stipulati in assenza dei provvedimenti o delle procedure di cui al comma 2, della medesima disposizione.
La necessità di una affermazione esplicita è dipesa dal fatto che analoga previsione non vi era nella disciplina del 2008 e che la Corte cost. nella sentenza n. 68 del 2011 aveva, come detto, evidenziato che le norme sul reclutamento del personale previste da tale disciplina del 2008 costituiscono norme interposte dell’art. 97 Cost. e pertanto “possono fungere da parametro indiretto nel giudizio di costituzionalità”. Anche la Corte di cassazione aveva applicato l’art. 2126 c.c. al rapporto di lavoro instaurato da una p.a. o da un ente pubblico non economico per la realizzazione dei suoi fini istituzionali ma affetto da nullità perché vietato da una norma imperativa (Cass. n. 10551/2003; Cass. n. 20009/2005; Cass. n. 12749/2008).
12. Contratto a tempo determinato. Quanto al contratto a tempo determinato, di certo il legislatore del T.U. non ha colto l’occasione per risolvere i dubbi sull’applicabilità nelle società pubbliche del rimedio della conversione in caso di violazione delle discipline previste per il ricorso a tale tipo di contratto e più in generale alle forme di lavoro flessibile.
Negli anni più recenti sono intervenute plurime pronunce del giudice di legittimità che, come già ricordato, hanno affermato che, in caso di utilizzo del contratto a termine da parte di una società partecipata, la tutela che può conseguire è solo quella risarcitoria (si richiamano, sul punto le già citate decisioni rese con riferimento all’Azienda Regionale Sarda Trasporti ed in relazione a contratti stipulati nella vigenza dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008, come detto trasfusa nel T.U. del 2016). Si è rimarcato che la limitazione delle modalità di accesso all’impiego prevista ad esempio da una legge regionale, oltre ad apparire coerente con analoghe disposizioni già previste per i comuni, i consorzi e le rispettive aziende dall’art. 5, d.l. n. 702/1978 (conv. con l. n. 3/1979), nonché per le società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica dall’art. 18, d.l. n. 112/2008 (conv. con l. n. 133/2008), ed ancora, da ultimo, per le società a partecipazione pubblica dall’art. 19, d.lgs. n. 175/2016, trova la sua ratio nel principio costituzionale di buona amministrazione degli uffici pubblici (art. 97 Cost.), che collega la regola del concorso non tanto alla natura giuridica pubblica o privata del rapporto di lavoro quanto piuttosto alla natura “sostanzialmente pubblica” della persona giuridica alle cui dipendenze esso si costituisce , nel senso che il soggetto che figura quale datore di lavoro, indipendentemente dalla forma con cui opera nel mondo giuridico, imputa alla finanza pubblica i risultati della sua attività .
La questione è allora quella dell’applicabilità anche alle società partecipate dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 pur in assenza di espresso richiamo (si ricorda che la salvezza di cui all’art. 19 n. 175/2016 riguarda solo le disposizioni del medesimo T.U.) che, con riferimento al personale a tempo determinato o assunto con forme di lavoro flessibile, espressamente prevede l’impossibilità della costituzione di rapporti a tempo indeterminato anche in presenza di violazione di disposizioni imperative .
Pur senza l’espresso richiamo all’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 il divieto di conversione si è fatto derivare, come già sopra ricordato, dalla “nullità virtuale” del contratto per violazione legge imperativa art. 18 d.l. n. 112/2008 che prevede l’assunzione solo a seguito di procedura selettiva.
Sempre con riferimento all’Azienda Regionale Sarda Trasporti S.p.A., società a partecipazione pubblica, la più recente Cass. n. 27343/2020 ha affermato che, anche se a tale società non si applica l’art. 36, non essendo ente pubblico non economico, è la regola della concorsualità che impedisce la conversione. Anche in questo caso è stato evidenziato che la nullità espressa, prevista dall’art. 19 d.lgs. n. 175/2016, che impedisce la conversione del rapporto, non fa che esplicitare un principio già insito nel sistema. In tale pronuncia si è evidenziato che le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 26724/2007, nel delimitare l’ambito delle cosiddette nullità virtuali, hanno osservato che in linea generale occorre tener conto della «tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità .... ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità.». Hanno, però, precisato che le norme che incidono sulla validità del contratto non sono solo quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale ma anche quelle che «in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalla legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni - se così può dirsi - ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo». L’applicazione alla fattispecie del principio di diritto richiamato induce ad escludere che l’omesso esperimento delle procedure concorsuali o selettive possa solo generare responsabilità contabile a carico dei dirigenti delle società partecipate, posto che l’individuazione del contraente con modalità difformi da quelle prescritte dal legislatore si risolve nella mancanza in capo a quest’ultimo dei requisiti soggettivi necessari per l’assunzione. Mutatis mutandis valgono le considerazioni già espresse dalla Corte di legittimità in merito al rapporto fra procedura concorsuale ex art. 35 del d.lgs. n. 165/2001 e contratto di lavoro, in relazione al quale si è osservato che «sussiste un inscindibile legame fra la procedura concorsuale ed il rapporto di lavoro con l’amministrazione pubblica, poiché la prima costituisce l’atto presupposto del contratto individuale, del quale condiziona la validità, posto che sia la assenza sia la illegittimità delle operazioni concorsuali si risolvono nella violazione della norma inderogabile dettata dall’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001, attuativo del principio costituzionale affermato dall’art. 97, comma 4, della Carta fondamentale» (Cass. n. 13884/2016).
Una volta affermato che per le società a partecipazione pubblica il previo esperimento delle procedure concorsuali e selettive condiziona la validità del contratto di lavoro, non può che operare il principio secondo cui anche per i soggetti esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 la regola della concorsualità imposta dal legislatore, nazionale o regionale, impedisce la conversione in rapporto a tempo indeterminato del contratto a termine affetto da nullità. Diversamente opinando si finirebbe per eludere il divieto posto dalla norma imperativa che, come già evidenziato, tiene conto della particolare natura delle società partecipate e della necessità, avvertita dalla Corte cost., di non limitare l’attuazione dei precetti dettati dall’art. 97 Cost. ai soli soggetti formalmente pubblici bensì di estenderne l’applicazione anche a quelli che, utilizzando risorse pubbliche, agiscono per il perseguimento di interessi di carattere generale. Una tale soluzione non si pone in contrasto con la direttiva 1999/70/CE ovvero con l’art. 3 Cost. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha da tempo chiarito che spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte agli abusi nella reiterazione dei contratti a termine e che queste ultime possono essere anche diverse dalla conversione in rapporto a tempo indeterminato, purché rispettino i principi di equivalenza e siano sufficientemente effettive e dissuasive per garantire l’efficacia delle norme adottate in attuazione dell’Accordo quadro recepito dalla direttiva . A sua volta la Corte costituzionale, che, come già detto, in più pronunce ha evidenziato l’assimilabilità al lavoro pubblico dei rapporti instaurati con le società partecipate, ha escluso che una difformità di trattamento con l’impiego privato, rispetto alla sanzione generale della conversione di cui al d.lgs. n. 368/2001, possa dirsi ingiustificata ove vengano in rilievo gli interessi tutelati dall’art. 97 Cost. ed in particolare le esigenze di imparzialità e di efficienza dell’azione amministrativa (Corte cost. n. 89/2003), esigenze che ad avviso della stessa Corte stanno alla base della disciplina dettata dal richiamato art. 18 del d.l. n. 112/2008 .

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