testo integrale con note e bibliografia

Una riflessione oggi sul futuro del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni non può rimanere ancorata a quanto avvenuto nel periodo dell’emergenza pandemica da Covid 19, nel corso del quale il legislatore, le aziende private e le pubbliche amministrazioni hanno individuato nello smart working lo strumento maggiormente idoneo ad assicurare, da un lato, la continuità dell’attività di impresa e dell’azione amministrativa, dall’altro quel distanziamento fisico delle persone che, a fronte della rapida diffusione del virus, costituiva all’epoca il principale, se non l’unico, mezzo per contenere il contagio.
Nell’arco di poche settimane, per effetto del susseguirsi di interventi normativi, decreti del Presidente del Consiglio, direttive della Funzione Pubblica e dei singoli Ministeri , nelle pubbliche amministrazioni abbiamo assistito al repentino passaggio da una situazione di lavoro agile opzionale, eccezionale e fondato sull’espresso accordo delle parti contrattuali, al lavoro agile inteso come «modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa», modalità attuata per tutte le attività non implicanti la necessaria presenza in ufficio ed a prescindere dagli accordi individuali nonché dagli obblighi informativi previsti dalla legge n. 81 del 2017 ( art. 87 del d.l. 17.3.2020 n. 18 convertito dalla legge n. 27 del 4.4.2020).
Il Dipartimento per le Pari Opportunità ha accertato che in occasione dell’emergenza la scelta del lavoro agile ha coinvolto nelle diverse amministrazioni un gran numero di dipendenti, in percentuale variabile dal 50% al 90% , ed i dati trovano riscontro in quelli forniti dal Ministero per la Pubblica Amministrazione , secondo cui la percentuale media del personale impegnato a rendere la prestazione con forme di telelavoro e di lavoro agile si attestava al 21 aprile 2020 al 73,8%.
Nell’ottobre 2020 è stato pubblicato il Monitoraggio sull’attuazione del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, dal quale emerge la conferma dei dati comunicati nell’immediatezza e si evidenzia che solo nel 18,7% dei casi le P.A. hanno fatto ricorso alla “esenzione motivata dal servizio”, anche questa consentita dall’art. 87 del d.l. n.18/2020, senza alcuna ricaduta negativa per i dipendenti, fatta eccezione per l’espressa previsione della non spettanza dell’indennità di mensa.
Il tempo ci dirà se i dati siano stati correttamente elaborati e se davvero i dipendenti “agili” abbiano reso la prestazione, sia pure in forme diverse da quella tradizionale, assicurando attività amministrative che, altrimenti, sarebbero state sospese, in quanto non indifferibili ed urgenti.
Qualche dubbio può essere nutrito al riguardo perché lo stesso Dipartimento per le Pari Opportunità ha riconosciuto che le amministrazioni che non avevano avviato in via sperimentale la nuova forma di lavoro si sono trovate impreparate a fronteggiare l’emergenza e, quindi, più che al lavoro agile hanno di fatto realizzato una alternanza fra lavoro in ufficio ed esenzione dal servizio, seppure non formalmente qualificata tale. D’altro canto lo stesso legislatore ha finito per ammettere che criticità ce ne sono state, dal momento che già con l’art. 263 del d.l. n. 34/2020, convertito dalla legge n. 77/2020, ha ritenuto necessario intervenire nuovamente sull’organizzazione degli uffici pubblici, riducendo la percentuale massima del lavoro agile “al fine di assicurare la continuità dell’azione amministrativa e la celere conclusione dei procedimenti” e ponendo quale condizione per il ricorso a forme alternative rispetto alla presenza in ufficio “ che l’erogazione dei servizi rivolti a cittadini ed imprese avvenga con regolarità, continuità ed efficienza”.
Una cosa però è certa: l’emergenza ha focalizzato l’attenzione, non solo dei mass media ma anche dei tecnici del diritto e dell’organizzazione, sulla necessità di sviluppare una nuova cultura del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e di implementare modalità organizzative che consentano di utilizzare al meglio le tecnologie.
Al riguardo, infatti, non si può non sottolineare che nel lavoro pubblico da anni si assiste, quanto a quest’ultimo aspetto, ad un fenomeno inverso rispetto al lavoro privato, dove l’evoluzione tecnologica ha modificato il modo di rendere la prestazione anticipando la disciplina normativa, che è intervenuta quando già nelle singole realtà aziendali si stavano sperimentando forme flessibili di organizzazione dei tempi e dei modi di lavoro, oggetto di regolamentazione da parte della contrattazione collettiva, nazionale ed aziendale .
Nelle amministrazioni pubbliche, invece, a fronte di una normativa di avanguardia, adottata già sul finire degli anni 90, alla quale ha fatto prontamente seguito l’accordo nazionale quadro sul telelavoro del 23.3.2000, da sempre faticano ad affermarsi modalità di rendere la prestazione diverse da quella tradizionale e non è un caso che la legge n. 124 del 2015, all’art. 14, anticipando la disciplina generale sul lavoro agile, all’epoca ancora in fase di elaborazione, abbia posto agli enti pubblici l’obiettivo di adottare misure organizzative “per l’attuazione del telelavoro e per la sperimentazione di nuove modalità spazio temporali di svolgimento della prestazione lavorativa”, finalizzate a consentire l’utilizzo di tali modalità ad almeno il 10% dei dipendenti interessati, al dichiarato scopo di promuovere la conciliazione fra tempi di vita e di lavoro. L’obiettivo è stato poi ribadito nella complessa ed articolata direttiva n. 3 del 2017 del Dipartimento della Funzione Pubblica con la quale, quando ancora erano in corso i lavori parlamentari poi sfociati nella legge n. 81 del 2017, sono state dettate le linee guida in tema di telelavoro e di lavoro agile.
L’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano nel report pubblicato a fine 2019 ha stimato che a quella data, pur registrandosi un incremento significativo rispetto al passato, solo il 16% delle amministrazioni, per lo più comprese fra quelle di grandi dimensioni, aveva avviato progetti strutturati di lavoro agile, progetti che, peraltro, coinvolgevano mediamente il 12% del personale, ossia una percentuale sensibilmente diversa da quella delle imprese private, e da ciò ha tratto la conseguenza che le PA “pur essendosi finalmente attivate, abbiano seguito un approccio di mero adempimento normativo”.
Le ragioni del ritardo vanno probabilmente individuate, da un lato, nell’obiettiva difficoltà, se non impossibilità, di attuare una diversa organizzazione, fondata sull’utilizzo di mezzi informatici, in assenza delle necessarie risorse finanziarie, risorse che sono state stanziate solo successivamente, nel periodo dell’emergenza, ma non erano previste dalla legge n. 124 del 2015, secondo cui il lavoro agile doveva essere attivato “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Dall’altro ha sicuramente inciso la rigidità che da sempre caratterizza l’organizzazione del lavoro nelle PA, frutto di un retaggio culturale, che non può essere rimosso intervenendo solo sul dato normativo, perché, come avverte la direttiva n. 3 del 2017, la previsione di nuove forme di organizzazione del lavoro richiede una diversa capacità manageriale ed implica anche relazioni professionali fondate sulla fiducia, sull’autonomia, sulla capacità decisionale dei dipendenti, sulla “gestione intelligente del lavoro”, ossia sul superamento della cultura del “cartellino” e della presenza fisica in ufficio.
E’ proprio la mancanza di questa diversa cultura che è stata rimarcata dall’allora Ministro Brunetta allorquando ha sottolineato la necessità di superare la fase emergenziale, caratterizzata da forme largamente improvvisate di lavoro sostanzialmente domiciliare, non agile, e di avviare un nuovo percorso che miri innanzitutto alla formazione manageriale e digitale del personale.
Su questa nuova strada intrapresa si collocano: Il patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale stipulato il 10 marzo 2021 con i segretari generali di CGIL, CISL e UIL; il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro per la Pubblica Amministrazione del 23 settembre 2021, che segna il ritorno al lavoro in presenza come modalità ordinaria della prestazione lavorativa allo scopo di consentire alle Pubbliche Amministrazioni di operare al massimo delle proprie capacità; il decreto dell’8 ottobre 2021 sulle misure organizzative da assumere ai fini del superamento della fase emergenziale; le nuove linee guida adottate dal Ministro per la Pubblica Amministrazione ai sensi dell’art. 1, comma 6, dello stesso decreto; la previsione, contenuta nel d.l. n. 80/2021, del Piano Integrato di Attività e Organizzazione, di durata triennale destinato ad assorbire il Piano Organizzativo del Lavoro Agile già previsto dalla legge n. 77 del 2020; il rinvio alla contrattazione collettiva per la definizione della disciplina del lavoro agile, introdotto dall’art. 1 del d.l. n. 56 del 2021; la sottoscrizione dei contratti collettivi della tornata contrattuale 2019/2021 che contengono, per i comparti delle funzioni centrali, degli enti locali e della sanità, una specifica disciplina del lavoro a distanza.
Una prima riflessione si può fare all’esito di questa elencazione: il lavoro agile nell’impiego pubblico non è sovrapponibile a quello dell’impresa privata e la diversità, che già poteva essere desunta dal comma 3 dell’art. 18 della legge n. 81 del 2017, risulta ancora più accentuata se si ha presente la regolamentazione settoriale, che quella diversificazione ha ulteriormente rimarcato.
Il legislatore ha previsto l’applicabilità della disciplina dettata dalla richiamata legge n. 81 del 2017 solo se compatibile con le norme generali sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 e con le disposizioni speciali di settore, ed inoltre ha sottolineato la necessità che il ricorso al lavoro agile avvenga nel rispetto delle direttive ministeriali.
Il richiamo al d.lgs. n. 165 del 2001 implicava già la valorizzazione della contrattazione collettiva, nazionale ed integrativa, poi esplicitata dal d.l. 56 del 2021, sicché ne risulta un sistema, definito da alcuni autori “burocratizzato”, che nella sostanza finisce per riservare uno spazio marginale alla contrattazione individuale, così come normalmente accade per il rapporto di impiego pubblico, perché, pur nella pacifica applicabilità dell’art. 19 della legge n. 81 del 2017, l’autonomia delle parti è fortemente limitata quanto al contenuto del necessario accordo individuale, che non si può porre in contrasto né con la contrattazione collettiva, la quale prevale anche a fronte di trattamenti di miglior favore riconosciuti dal datore di lavoro pubblico, né con le regole imposte alle amministrazioni ai fini dell’attivazione del lavoro agile e del lavoro da remoto.
Fra queste regole si colloca quella della previa adozione del Piano Integrato di Attività e Organizzazione, imposta dall’art. 6 del d.l. n. 80/2021, già più volte modificato, che non è possibile qui esaminare in dettaglio, ed in relazione al quale si può dire che si ripete il sistema delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001, secondo cui gli atti di gestione dei singoli rapporti di lavoro devono essere preceduti da atti di macro organizzazione, adottati dalle Pubbliche Amministrazioni con i poteri di cui all’art. 5 dello stesso decreto.
Il Piano è stato imposto dal legislatore al fine di «assicurare la qualità e la trasparenza dell'attività amministrativa e migliorare la qualità dei servizi ai cittadini e alle imprese e procedere alla costante e progressiva semplificazione e reingegnerizzazione dei processi anche in materia di diritto di accesso» ed in quest’ottica, per quello che qui rileva, si è previsto che lo stesso debba esplicitare «la strategia di gestione del capitale umano e di sviluppo organizzativo, anche mediante il ricorso al lavoro agile, e gli obiettivi formativi annuali e pluriennali, finalizzati ai processi di pianificazione secondo le logiche del project management, al raggiungimento della completa alfabetizzazione digitale, allo sviluppo delle conoscenze tecniche e delle competenze trasversali e manageriali e all'accrescimento culturale e dei titoli di studio del personale, correlati all'ambito d'impiego e alla progressione di carriera del personale» nonché «l'elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare ogni anno, anche mediante il ricorso alla tecnologia e sulla base della consultazione degli utenti, nonché la pianificazione delle attività inclusa la graduale misurazione dei tempi effettivi di completamento delle procedure effettuata attraverso strumenti automatizzati».
Nell’impiego pubblico, quindi, l’accesso al lavoro agile risulta oggi pensato dal legislatore, più per migliorare la qualità dell’azione amministrativa che per venire incontro ad esigenze dei dipendenti, fatte salve le categorie tutelate, tanto che, non a caso, le linee guida del 2021 evidenziano che «il lavoro agile non è esclusivamente uno strumento di conciliazione vita-lavoro ma è anche uno strumento di innovazione organizzativa e di modernizzazione dei processi» ed assegnano alle amministrazioni il compito di conciliare le esigenze di benessere e flessibilità dei lavoratori con gli obiettivi di miglioramento del servizio pubblico nonché con le specifiche necessità tecniche delle attività.
Ciò spiega perché la prima condizione posta dalle linee guida è quella dell’invarianza dei servizi resi all’utenza, alla quale si affianca la previsione della necessità di un piano di smaltimento del lavoro arretrato, se accumulatosi nel periodo dell’emergenza, nonché la necessità dello svolgimento in presenza della prestazione lavorativa da parte dei soggetti titolari di funzioni di coordinamento e controllo, dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti.
Non dissimile è il risultato del bilanciamento degli interessi operato dalla contrattazione collettiva che, come già anticipato, è intervenuta nei principali comparti a disciplinare il lavoro a distanza, nelle due diverse forme del lavoro agile e del lavoro da remoto, e che, quanto al primo, prevede ( art. 36 del C.C.N.L. 9 maggio 2022 per il comparto delle funzioni centrali, art. 63 del C.C.N.L. 6 novembre 2022 per il comparto degli enti locali, art. 76 del C.C.N.L. 3 novembre 2022 per il comparto della sanità) che il lavoro agile «è finalizzato a conseguire il miglioramento dei servizi pubblici e l’innovazione organizzativa garantendo, al contempo, l’equilibrio tra tempi di vita e di lavoro» ed è, di conseguenza attivabile «per processi e attività di lavoro previamente individuati dalle amministrazioni per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici…». Quest’ultima condizione è poi ribadita dalla previsione che riserva alle pubbliche amministrazioni, sia pure previo confronto con le organizzazioni sindacali, di individuare le attività che possono essere effettuate in modalità agile ed aggiunge che sono in ogni caso esclusi i lavori in turno e quelli che richiedono l’utilizzo costante di strumentazioni non remotizzabili.
Si è anticipato che la disciplina dettata per i tre maggiori comparti, nella sostanza sovrapponibile, opera, nell’ambito della categoria più generale del lavoro a distanza, la suddivisione fra lavoro agile e lavoro da remoto, superando la disciplina dettata dall’Accordo quadro sul telelavoro e, soprattutto, individuando le peculiarità dell’una e dell’altra forma di prestazione. In tal modo le parti collettive si sono fatte carico di risolvere la questione della contemporanea vigenza nell’impiego pubblico contrattualizzato da un lato della legge n. 81 del 2017, dall’altro dell’art. 4 della legge n. 191 del 1998 e del d.P.R. n. 70 del 1999.
Riprendendo la definizione normativa, l’art. 36 del CCNL per il comparto delle funzioni centrali individua nel lavoro agile una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzata dalla assenza di precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro nonché dalla circostanza che la prestazione viene resa «in parte all’interno dei locali dell’amministrazione e in parte all’esterno di questi, senza una postazione fissa e predefinita, entro i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale». Solo qualora sia reso necessario dalla particolare tipologia del lavoro svolto o dalla necessità di assicurare la protezione dei dati, è prevista la possibilità di concordare con l’amministrazione i luoghi nei quali è possibile svolgere l’attività, luoghi in relazione ai quali è posto a carico del dipendente, non dell’amministrazione, l’obbligo di accertarne l’adeguatezza, ai fini della salute, della sicurezza, della piena operatività della dotazione informatica, della garanzia di riservatezza delle informazioni trattate.
Viceversa l’art. 41 dello stesso C.C.N.L. definisce da remoto il lavoro prestato «con vincolo di tempo e nel rispetto dei conseguenti obblighi di presenza derivanti dalle disposizioni in materia di orario di lavoro, attraverso una modificazione del luogo di adempimento della prestazione lavorativa» che può essere resa dal domicilio del dipendente (telelavoro domiciliare) ma anche in altro modo, ossia nelle forme del coworking o del lavoro decentrato a distanza. Il luogo di lavoro deve essere previamente concordato con l’amministrazione e, proprio in ragione di ciò, ossia della predeterminazione dello stesso è al datore di lavoro imposto di verificarne l’idoneità anche ai fini della valutazione del rischio di infortuni.
Il lavoro agile, quindi, è differenziato da quello da remoto perché si caratterizza per l’assenza di un vincolo di orario e per la tendenziale variabilità del posto di lavoro. Il telelavoro, invece, è «soggetto ai medesimi obblighi derivanti dallo svolgimento della prestazione lavorativa presso la sede dell’ufficio, con particolare riferimento al rispetto delle disposizioni in materia di orario di lavoro» e ciò spiega perché sia previsto il ricorso al lavoro da remoto, non a quello agile, nel caso di attività, previamente individuate dalle stesse amministrazioni, che richiedano «un presidio costante del processo».
Al lavoro da remoto, pertanto, le parti collettive hanno esteso la disciplina dettata per il lavoro agile nelle sole parti compatibili, fra le quali non rientrano la clausola che disciplina il diritto alla disconnessione e l’articolazione della prestazione in modalità agile, nonché quella inerente alla formazione. Quest’ultima, infatti, prevede (art. 40) una specifica formazione finalizzata non solo e non tanto ad addestrare il personale all’utilizzo delle piattaforme di comunicazione e degli altri strumenti per operare in modalità agile, quanto a «diffondere moduli organizzativi che rafforzino il lavoro, l’empowerment, la delega decisionale, la collaborazione e la condivisione delle informazioni».
La prestazione del lavoratore agile non si misura sul rispetto dell’orario di lavoro, che assume rilievo solo come parametro esterno per la determinazione delle fasce di contattabilità e di inoperabilità. La prima, nella quale il lavoratore è contattabile telefonicamente, via mail o con altre modalità simili, non può superare l’orario medio giornaliero di lavoro; nell’altra è fatto divieto di rendere la prestazione lavorativa e tale fascia comprende il riposo consecutivo di almeno 11 ore nonché il periodo di lavoro notturno.
In aggiunta a detto divieto le parti collettive hanno anche affermato con chiarezza che il lavoratore ha diritto alla disconnessione e, pertanto, «fatte salve le attività funzionali agli obiettivi assegnati» al di fuori della fascia di contattabilità non possono essere «richiesti i contatti con i colleghi o con il dirigente per lo svolgimento della prestazione lavorativa, la lettura delle e-mail, la risposta alle telefonate e ai messaggi, l’accesso e la connessione al sistema informatico dell’amministrazione».
Quanto a questi ultimi aspetti la contrattazione collettiva dei comparti pubblici si muove nel solco tracciato anche per il settore privato dal Protocollo Nazionale sul Lavoro Agile del 7 dicembre 2021, e, come in quel caso, pur affermando il principio della necessaria parità di trattamento con i dipendenti che svolgono attività lavorativa in presenza, aggiunge che nella fascia di contattibilità, nella quale possono essere richiesti i permessi ed esercitati i diritti sindacali che implicano la sospensione della prestazione lavorativa, non è consentito effettuare lavoro straordinario, trasferte, lavoro disagiato, lavoro in condizioni di rischio. In sintesi il lavoro agile non è compatibile con l’applicazione di quegli istituti contrattuali che presuppongono vincolo di orario e di luogo di lavoro.
Sulle modalità di accesso al lavoro agile, fermo quanto si è già detto in relazione alla previa adozione di atti di macro organizzazione che realizzino le condizioni affinché il lavoro a distanza possa essere attivato, va aggiunto che la pubblica amministrazione, tenuta in linea generale a garantire ai propri dipendenti parità di trattamento e ad assicurare trasparenza delle scelte operate, a fronte del potenziale conflitto fra più aspiranti al medesimo bene, è tenuta ad adottare criteri predeterminati e trasparenti, ai quali deve poi attenersi nella selezione delle richieste da accogliere.
L’art. 37 del C.C.N.L. del comparto funzioni centrali, dopo avere ribadito che l’accesso al lavoro agile « ha cura di conciliare le esigenze di benessere e flessibilità dei lavoratori con gli obiettivi di miglioramento del servizio, nonché con le specifiche necessità tecniche delle attività» aggiunge che, fatte salve queste ultime e fermi i diritti di priorità sanciti dalla normativa di tempo in tempo vigente, l’amministrazione, previo confronto con le associazioni sindacali «avrà cura di facilitare l’accesso al lavoro agile ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure». La disposizione evoca, quindi, l’obbligo di cui sopra si è detto sicché le amministrazioni, una volta individuate le attività che possono essere effettuate in lavoro agile, saranno anche tenute a prevedere meccanismi che consentano la selezione trasparente degli interessati alla diversa forma di prestazione lavorativa.
Dal quadro complessivo che si è cercato di delineare nei suoi tratti essenziali emerge, quindi, che superata la fase emergenziale e con le oscillazioni imputabili ad un diverso approccio al tema da parte dei responsabili del Ministero della Pubblica Amministrazione, il lavoro a distanza è concepito come uno strumento utile per entrambe le parti del rapporto di impiego ma a condizione che quelle parti siano capaci di implementare, ciascuna in relazione al proprio ruolo, una nuova cultura del lavoro.
Occorre ripensare l’organizzazione del lavoro in modo da sfruttare al massimo le tecnologie e sostituendo la logica del controllo del risultato a quella dell’accertamento della mera presenza in ufficio, che, nonostante i numerosi interventi attuati a partire dal d.lgs. n. 150 del 2009 e culminati nella recente legge n. 56 del 2019, non si è rivelata idonea a prevenire ed a combattere efficacemente l’assenteismo ed a garantire l’efficienza della macchina amministrativa.
Forse è arrivato il momento di iniziare a percorrere veramente strade diverse e di richiedere uno sforzo ai dirigenti con vera assunzione di responsabilità, perché la sburocratizzazione che a gran voce tutti reclamano, in quanto condizione imprescindibile per la ripartenza, non si può attuare solo sul piano normativo ma richiede la semplificazione dei procedimenti, l’indicazione chiara di obiettivi misurabili, l’adozione di atti organizzativi improntati a logiche di risultato, l’affermazione di relazioni fiduciarie con i dipendenti , che solo una cultura direzionale diversa da quella che sino ad oggi si è imposta nella maggior parte degli enti può riuscire ad ottenere.

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