TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

La sentenza del Trib Lavoro di Roma del 5 novembre 2020 

1. Il servizio pubblico essenziale e le sue prospettive di ampliamento nell’emergenza
L’emergenza sanitaria/epidemiologica, determinata dalla diffusione del Covid 19, ha evidenziato nuove prospettive di governance del conflitto collettivo, soprattutto nel contesto dei servizi pubblici essenziali, nel quale, a differenza del settore industriale, il ricorso allo sciopero si manifesta ancora con una certa intensità .
L’esercizio del diritto di sciopero, in tale settore, è regolamentato, come è noto, dalla L.n.146/1990 e successive modificazioni, che, in ormai trent’anni di attuazione, si può dire abbia garantito un soddisfacente livello di civilizzazione del conflitto, attraverso il bilanciamento tra diritto di sciopero e diritti costituzionali dei cittadini utenti dei servizi .
Come ci ha insegnato Massimo Severo Giannini, i servizi pubblici essenziali (simbolo di evoluzione degli Stati sociali del ‘900), possono essere individuati con riferimento alla loro rilevanza sociale (concetto direttamente ricollegabile a quello di interesse generale) e alla loro necessaria fruibilità . Con la fruizione dei servizi essenziali si garantisce ai cittadini il godimento dei diritti costituzionali. Tali servizi, a differenza dei diritti, non sono indicati dalla legge in modo tassativo, ma in modo esemplificativo, vale a dire suscettibili di ampliamento, o riduzione, in linea con l’evoluzione della complessità sociale . Così, nella sua esperienza attuativa, la legge ha potuto considerare una vasta gamma di servizi che non potevano essere concepiti dal legislatore nel 1990: si pensi ai Taxi, ai servizi resi da Sogei Spa (Società di Information Technology), a quelli del Cineca (Consorzio Interuniversitario), alla Refezione scolastica in asili nido, scuole materne ed elementari, o ancora, alla fruizione del Patrimonio artistico-culturale dei musei e luoghi d’arte.
Questa concezione dinamica del servizio pubblico essenziale assume maggiore rilevanza in una condizione di grave emergenza epidemiologica, nella quale vari provvedimenti normativi hanno introdotto forti restrizioni a taluni diritti costituzionali di libertà . Così, è stato fortemente limitato il diritto di mobilità, per il divieto, pressoché totale nei mesi di marzo e aprile 2020, di muoversi dalla propria abitazione; o ancora, il diritto di associazione. Basti pensare che parte della dottrina costituzionalista ha ritenuto possibile una lettura per analogia dell’art.78 della Costituzione (stato di guerra e conferimento al governo dei poteri necessari) a proposito delle misure adottate per il dilagare della pandemia .
Di fronte alle limitazioni di fondamentali diritti costituzionali, può rivelarsi necessaria una configurazione più ampia della nozione di servizio pubblico essenziale. In una configurazione espansiva, si potrebbe sostenere che, in un contesto emergenziale in cui il confine tra servizi essenziali e servizi di necessità è destinato a ridursi, ogni servizio pubblico possa essere considerato, di per sé, come essenziale e la sua erogazione, in caso di sciopero, non debba scendere al di sotto di un minimum, pena la lesione dei diritti della persona tutelati dalla legge. In termini più riduttivi, si deve, perlomeno, ritenere l’applicabilità della legge 146, per la loro sopravvenuta rilevanza sociale e necessaria fruibilità, ad alcune attività, generalmente tenute fuori in condizione di normalità.
L’esempio più evidente riguarda il servizio di distribuzione delle merci e generi alimentari, considerato dalla legge 146, limitatamente, alle attività di trasporto e di approvvigionamento, e non anche alla vendita nei supermercati. Quest’ultima non è considerata servizio pubblico essenziale, attesa l’assenza di pregiudizio agli utenti, i quali hanno sempre la possibilità di usufruire, sul territorio, di alternative di distribuzione al dettaglio. Ma, a ben guardare, tale parametro di valutazione del pregiudizio, dovrebbe essere rivisto di fronte all’imposizione di misure limitative della libertà di circolazione che, prevedendo per il cittadino il divieto di allontanamento dalla propria abitazione, riducono, drasticamente, la possibilità di fruire di servizi alternativi.
La questione si è posta in tutta la sua rilevanza durante il periodo del lokcdown e ha trovato una soluzione sul piano dell’autoregolamentazione, attraverso degli accordi collettivi regionali e nazionali, siglati anche con la mediazione del Governo, rivolti salvaguardare le esigenze della distribuzione alimentare, garantendo, altresì, un’efficace attuazione delle di sicurezza per i lavoratori . In assenza di tali accordi, non si dovrebbe escludere anche un intervento eteronomo dell’Autorità di garanzia, finalizzato a ricomprendere nel campo di applicazione della legge 146, limitatamente al periodo emergenziale, la vendita dei generi alimentari nei supermercati.
Analogamente, si può ritenere per alcune attività della logistica del servizio postale, in particolare il servizio di consegna dei pacchi a domicilio, attualmente ritenuto non essenziale in quanto considerato assorbito nella cosiddetta attività e-commerce . Anche in tal caso, in vigenza di disposizioni straordinarie che limitano la libertà di circolazione, potrebbe rendersi opportuno consentire ai cittadini (e alle imprese) di fruire dell’approvvigionamento di beni di interesse economico generale (come definiti nel punto 2 del Regolamento 2018/644 del Parlamento e del Consiglio dell’UE), mediante la consegna nel proprio domicilio.
Bisogna, peraltro, rilevare come l’attuale modello liberalizzato del servizio postale assuma ormai forme di erogazione più ampie rispetto a quelle precedentemente gestite in regime di monopolio da Poste Italiane. Come nel resto dell’UE, nel nostro Paese vige ormai un mercato aperto alla concorrenza, nel quale i competitors possono accedere alle attività di spedizione, purché muniti di licenza individuale e rispondano ad una serie di requisiti di qualità e sicurezza, individuati dall’AGCOM. Peraltro, la legge 124/2017 ha abolito anche l’ultimo servizio esclusivo riconosciuto, per ragioni di ordine pubblico, a Poste Italiane, vale a dire, la notificazione degli atti giudiziari e delle violazioni del codice della strada.
In definitiva, si può concludere che, alla restrizione dei diritti costituzionali, corrisponda (in modo inversamente proporzionale) un ampliamento dei servizi pubblici essenziali.

2. I limiti al diritto di sciopero
La limitazione dei diritti costituzionali ha finito, inesorabilmente, per riguardare anche il diritto di sciopero. Durante il periodo più critico dell’emergenza sanitaria/epidemiologica (mesi di marzo e aprile 2020), la Commissione di garanzia ha ritenuto che l’esigenza di tutela dei diritti dei cittadini non potesse essere realizzata se non con una rigorosa restrizione dell’esercizio di tale diritto. Una scelta, questa, adottata dall’Autorità ancor prima dell’adozione delle misure di lockdown da parte del Governo, con un provvedimento di moratoria generale (datato 24 febbraio) contenente un “fermo invito” a proclamare o effettuare scioperi nei servizi pubblici essenziali. Tale provvedimento è stato poi riconfermato in data 26 marzo con un’ulteriore delibera che ne ha esteso la validità fino al 30 aprile .
Un intervento radicale, dunque, che la Commissione ha assunto, autonomamente, in qualità di Autorità preposta al governo del conflitto nei servizi pubblici essenziali. Ad essa compete, peraltro, il potere di propiziare il procedimento di precettazione, con la segnalazione al Governo, o al Prefetto (a seconda della rilevanza, nazionale o locale, dello sciopero), in caso di pregiudizio grave ed imminente ai diritti costituzionali della persona.
Il provvedimento è stato motivato con la necessità di non aumentare il diffuso senso di insicurezza dei cittadini, oltre che non interferire con le attività delle autorità sanitarie di prevenzione e contenimento del virus. Nell’ambito della legge 146, esso può farsi rientrare nella tipologia degli interventi, prevista dall’art. 13 lett. D), con i quali la Commissione invita i soggetti interessati, a riformulare la proclamazione di sciopero in conformità degli accordi o codici di autoregolamentazione. A ben guardare, infatti, sono proprio gli accordi e/o i codici, o le regolamentazioni provvisorie, vigenti nei vari settori dei servizi pubblici essenziali, che prevedono l’impegno, da parte delle organizzazioni sindacali, di astenersi dal proclamare o effettuare azioni di scioperi in presenza di particolari eventi calamitosi. Un impegno, a fronte del quale è, ovviamente, previsto il contestuale dovere della parte datoriale di astenersi da qualsiasi azione unilaterale che possa dar luogo ad un’insorgenza o un aggravamento del conflitto. Dunque, l’Autorità non ha fatto altro che estendere a livello generale, un principio già consolidato anche nell’autonomia collettiva.
L’intervento della Commissione, di sospensione degli scioperi, ha avuto un ampio riscontro da (quasi) tutte le maggiori organizzazioni sindacali. Naturalmente, nella logica di bilanciamento tra diritti, esso ha dovuto tener conto di una sopravvenuta maggiore esigenza di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, specie per quelle categorie particolarmente esposte al rischio di contagio. Da tale divieto sono, così, stati esclusi gli scioperi proclamati ai sensi dell’art. 2 comma 7 della legge 146/90, che consente di derogare all’obbligo di preavviso e di indicazione della durata vale a dire per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori, oltre che in difesa dell’ordine costituzionale .
Di fronte a tali astensioni – che, se effettuate a seguito della comprovata violazione delle norme di sicurezza sul lavoro, non sarebbero nemmeno configurabili come sciopero, ma integrerebbero la fattispecie dell’eccezione di inadempimento, ex art.1460 cod. civ. – la Commissione con un provvedimento di portata generale, adottato ancor prima della sottoscrizione del Protocollo nazionale tra le parti sociali, in materia di salvaguardia della salute dei lavoratori (14 marzo 2020), ha ribadito il bene primario e irrinunciabile della salute dei lavoratori e ha invitato le aziende al rispetto scrupoloso delle norme di sicurezza e delle misure di prevenzione anti-Covid nei luoghi di lavoro . Tale provvedimento è stato, successivamente, recepito in vari interventi particolari, rivolti a sollecitare la scrupolosa osservanza dei decreti governativi che hanno recepito i contenuti dei Protocolli siglati tra le parti sociali, con la mediazione del Governo . In alcuni casi, sono stati invitati anche i soggetti proclamanti a valutare l’opportunità di una eventuale riduzione della durata dello sciopero, alla luce della generale situazione di emergenza in cui versa la collettività .

3. Segue. L’applicazione dell’art.2 comma 7, della legge 146/1990, nell’orientamento della Commissione di garanzia
Cn riferimento all’applicazione dell’art.2 comma 7, nella parte relativa ai “gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”, la Commissione ha adottato sempre un orientamento restrittivo, a fronte di una possibile crescita esponenziale di proclamazioni di sciopero, genericamente motivate con il richiamo a tale norma (aggressioni o minacce nei luoghi di lavoro, locali ritenuti fatiscenti, o anche interruzioni del servizio a seguito di guasti tecnici o incidenti, etc.). Così, per evitare una situazione difficilmente gestibile sotto il profilo della governance del conflitto, l’Autorità ha ritenuto applicabile la norma solo in seguito all’accertamento di fatti concreti e/o situazioni di pericolo oggettivo all’incolumità dei lavoratori, certificato dalle competenti autorità , richiedendo, inoltre, ai soggetti proclamanti di contenere, in linea di massima, tali azioni di sciopero in una durata meramente simbolica .
Si tratta di un’interpretazione che la Commissione ha riproposto anche nel contesto della crisi epidemiologica, sottolineando come il sistema di garanzie dei servizi pubblici essenziali, delineato dalla legge 146/1990, debba essere assicurato integralmente , ad eccezione di comprovate cause di esclusione.
Ciò, indubbiamente, ha posto un delicato problema di valutazione tutte le volte in cui ci si è trovati di fronte a scioperi proclamati per l’asserita violazione delle norme sulla salute e sicurezza sul lavoro, con riferimento ai quali, invece, le aziende dichiaravano, da parte loro, la piena osservanza di tale normativa. La Commissione non ha potuto far altro che rivolgersi alle Prefetture, alle quali i DCPM hanno demandato l’attività di vigilanza e monitoraggio sul rispetto degli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro; oltre che sollecitare la costituzione degli appositi Comitati aziendali di controllo previsti nei Protocolli di intesa e nei provvedimenti governativi .
L’interpretazione restrittiva dell’art.2 comma 7 è stata ulteriormente ribadita dalla Commissione nella valutazione di uno sciopero generale (riguardante, dunque, tutti i settori pubblici e privati), proclamato da un’organizzazione sindacale “di base”, ai sensi, per il 25 marzo 2020 – senza il rispetto dell’obbligo di preavviso e con una diversa articolazione della durata nei vari settori – contro “... la decisione del Governo di mantenere aperti e funzionanti le aziende e gli uffici non essenziali .... visto che nei luoghi di lavoro non sono state assunte tutte le tutele necessarie... vista la assoluta insufficienza del servizio sanitario ... etc.”.
La norma in questione non è stata ritenuta applicabile con la motivazione che il suo richiamo non può avvenire, in termini generici, ma ben circostanziati, con precisi riferimenti alle violazioni della normativa sulla sicurezza e con la comprovata sussistenza di un rapporto causale/soggettivo. Occorre, dunque, dimostrare il nesso causale tra l’evento in grado di generare una situazione di pericolo concreto ed imminente, e i lavoratori. Inoltre, la Commissione ha argomentato come le modalità attuative dello sciopero – pianificate e circostanziate per orari, durata e articolazioni diversi per i vari servizi pubblici – facciano, di fatto, venir meno la ratio fondamentaledell’art.2 comma 7, che presuppone, piuttosto, un’astensione caratterizzata da una certa immediatezza, motivata, appunto, dalla impellente necessità di difendere l’incolumità dei lavoratori.
Un’interpretazione più espansiva finirebbe per determinare, delle situazioni di incertezza con anomalie imprevedibili ed anche in contrasto con le finalità perseguite della richiamata norma derogatoria, oltre che con i principi generali dell’Ordinamento .
Questa impostazione della Commissione è stata pienamente confermata dal Tribunale di Roma, IV Sezione lavoro, con sentenza del 5 novembre 2020 (pubblicata in questo numero di LDE) che, proprio con riferimento allo sciopero su menzionato, ha respinto il ricorso dell’organizzazione sindacale avverso la delibera sanzionatoria della Commissione. La deduzione della mera congiuntura temporale tra l’esistenza della pandemia e la proclamazione dello sciopero, afferma il giudice, non equivale a specifico grave evento (anche di pericolo) idoneo a ledere l’incolumità e la sicurezza dei lavoratori, in tutti i settori produttivi interessati dall’astensione. Occorre, invece, provare, o quantomeno riferire, la sussistenza di un concreto accadimento, sia il nesso di causalità con una situazione di violazione della normativa in materia di sicurezza dei lavoratori. Nel caso specifico dell’emergenza epidemiologica, tale normativa non può che essere rappresentata dalle ordinarie misure di prevenzione e protezione della salute del lavoratore, oltre che da quelle specifiche legate al Covid-19, introdotte dal “Protocollo condiviso”, del 14 marzo 2020 e del 24 aprile 2020, recepito dal Governo nel Decreto del 26 aprile 2020.

4. Il conflitto nei servizi nella cosiddetta fase due
Con l’inizio della cosiddetta fase due, coincidente con una timida ripresa delle attività produttive (dal 4 maggio 2020), pur permanendo, ma in modo meno grave, una situazione di emergenza da pandemia, la moratoria generale degli scioperi non è stata ulteriormente prorogata dalla Commissione. Una soluzione, questa, adottata sul presupposto che l’emergenza, oltre a diminuire nella sua intensità, si configura ormai come una condizione destinata a protrarsi per un periodo indefinito e non riconducibile ad un ambito temporale. Di conseguenza, una reiterata inibizione, tout court, del diritto di sciopero sarebbe stata una scelta eccessivamente restrittiva dell’esercizio di un diritto costituzionale.
Il “fermo invito” a non proclamare o effettuare scioperi è stato così sostituito da un provvedimento di moral suasion , inoltrato a tutte le parti sociali, con il quale è stato richiamato il loro senso di responsabilità, affinché si adoperino a risolvere il conflitto, soprattutto in sede negoziale attraverso il confronto e le tecniche di procedimentalizzazione, lasciando il ricorso allo sciopero solo come extrema ratio, dopo l’esperimento infruttuoso delle fasi di composizione.
Un provvedimento generale, poi ripreso in una serie di interventi effettuati in relazione dell’incidenza di scioperi in particolari servizi essenziali (ad esempio, Sanità, Igiene ambientale, Trasporti pubblici), rispetto ai quali sono stati adottati degli “inviti” a valutare la possibile composizione della vertenza sul piano del confronto, o, almeno, a ridurne la durata. In alcune situazioni più delicate, sotto il profilo del pregiudizio dei diritti dei cittadini, sono state sollecitate le Prefetture competenti ad intervenire con i propri poteri di precettazione .
La Commissione ha inteso, così, riaffermare il ruolo del conflitto come valore costituzionale e punto di riferimento irrinunciabile nel sistema di relazioni industriali: sia che esso si manifesti nella sua fase latente, attraverso l’evoluzione dei comportamenti negoziali; sia nella sua fase palese, attraverso il ricorso allo sciopero . Affermazione ribadita nel recente provvedimento assunto in occasione dello sciopero nazionale del Comparto del pubblico impiego e sanità, del 9 dicembre 2020, nel quale si richiama “l’importanza fondamentale del diritto di sciopero quale strumento, di rilevanza costituzionale, di partecipazione democratica alla vita del Paese anche nei momenti di maggiore crisi”. Ciò, insieme all’invito ad adottare ogni misura utile a mitigare e contenere i disagi per i cittadini e, in particolare, nel settore della Sanità, ad erogare per intero tutte le prestazioni rese nei “reparti Covid”, assimilabili alla “Assistenza d’urgenza”, prevista nell’Accordo del Servizio sanitario nazionale del 20 settembre 2001 (art. 2, lett. A1) .

5. Una possibile riconsiderazione delle soglie minime dei servizi e la loro erogazione con riferimento alla rilevanza dello sciopero
È evidente che l’erogazione dei servizi pubblici essenziali, in una condizione segnata ancora da profili di emergenza epidemiologica, avvenga in condizioni ridotte rispetto ai livelli garantiti nella normalità. Alcuni servizi (in particolare i trasporti) risentono di un’importante riduzione dovuta dall’attuazione delle misure di prevenzione: basti pensare quanto l’esigenza di distanziamento tra le persone, per impedire il contagio, finisca per limitare il normale utilizzo dei mezzi di trasporto.
Può rivelarsi, di conseguenza, utile una riflessione sulla opportunità di riconsiderare, limitatamente alla fase emergenziale, le modalità di erogazione del servizio e le prestazioni indispensabili da garantire, come stabilite negli accordi o nelle regolamentazioni vigenti.
La legge prevede la garanzia di una soglia minima di servizio nella misura 50% di quello complessivamente erogato e di un terzo dei lavoratori normalmente impiegati. Si tratta di percentuali di riferimento che il legislatore ha considerato come limiti al potere di regolamentazione eteronoma della Commissione di garanzia, ma che sono stati ampiamente adottati, come tecnica di contemperamento, anche negli accordi sulle prestazioni indispensabili. Esse sono considerate in modo complementare e non alternativo, anche se, nella prassi attuativa, si è maggiormente consolidato il criterio del 50% del servizio, quale miglior sistema di bilanciamento tra i diritti costituzionali considerati dalla legge 146 (l’esempio più noto sono le fasce orarie a servizio pieno nel settore dei trasporti che integrano la suddetta percentuale).
In condizioni di normalità, dunque, al di sotto della suddetta soglia non è consentito scendere, anche se il legislatore, a salvaguardia della ratio fondamentale della legge, riguardo a tali parametri di riferimento ha utilizzato l’avverbio “mediamente” e ha ipotizzato “eventuali deroghe” per alcuni servizi e “salvo casi particolari” .
Ebbene, la situazione di emergenza potrebbe ben rappresentare un caso particolare, che può consentire una deroga in alcuni servizi nei quali la tradizionale percentuale del 50% e le stesse fasce orarie, rischiano di rivelarsi non più idonei a garantire il bilanciamento tra diritto di sciopero e diritti costituzionali dei cittadini. In particolare, se l’erogazione del servizio è, già di per sé, ridotta per la situazione contingente, allora anche la soglia minima da garantire in caso di sciopero dovrà essere rivista alla luce di tale riduzione, altrimenti il pregiudizio per gli utenti non sarà più equamente bilanciato. La stessa garanzia delle fasce orarie, ad esempio, potrebbe non essere idonea proprio perché al di fuori di esse il servizio non è pieno, ma già ridotto.
E allora, quali potrebbero essere, nella prospettiva del bilanciamento, delle soluzioni che non pregiudichino il diritto di sciopero e nemmeno i diritti dei cittadini?
Innanzitutto, potrebbe essere ragionevole ipotizzare, sempre con riferimento ad una fase straordinaria, una revisione del limite di durata massima degli scioperi, attualmente consentito dalle discipline di settore, introducendo, ad esempio, un limite massimo non superiore a quattro ore.
Si può, inoltre, considerare come la moltitudine di scioperi proclamati nei servizi pubblici essenziali registri, oramai, tranne rarissime eccezioni, adesioni quasi irrilevanti e, comunque, non tali da giustificare una riduzione del servizio del 50% (soglia al sotto della quale non si può scendere). Dinanzi a fenomeni di microconflittualità riconducibili a sindacati scarsamente rappresentativi, le aziende dovrebbero essere tenute ad una valutazione prognostica dell’impatto dello sciopero, in modo da commisurare la soglia dei servizi minimi da garantire all’effettiva rilevanza di questo . Spesso si opta, invece, per la soluzione più comoda (e a volte economicamente più vantaggiosa per l’azienda) di salvaguardare le soglie minime come stabilite negli accordi o regolamentazioni. La conseguenza è che uno sciopero con scarse adesioni, finisce per produrre gli stessi effetti di un’astensione proclamata da organizzazioni sindacali strutturate e rappresentative, con una più importante partecipazione dei lavoratori. Una situazione del genere, già inaccettabile in condizioni di normalità, diventa improponibile in un contesto emergenziale, nel quale il servizio è già fisiologicamente ridotto.
Certo, ai fini dell’individuazione della soglia dei servizi da erogare commisurata all’effettiva consistenza dello sciopero, sarebbe efficace prevedere, per il lavoratore, il dovere di comunicare preventivamente la sua partecipazione allo sciopero. Su tale soluzione, introdotta solo su base volontaria in alcune discipline di particolari servizi , si riscontra una diffusa contrarietà del sindacato, oltre che da parte di autorevole dottrina , anche con riferimento ad una sua attuazione limitata alla fase dell’emergenza epidemiologica. Non ci si addentrerà, in questa sede, in un approfondimento di tale tematica , se non per rilevare come, indubbiamente, poter contare sulla certezza del numero effettivo dei lavoratori che si asterranno dal servizio costituirebbe un elemento di estrema importanza, ai fini della predisposizione delle soglie di servizio minimo da garantire. Non solo, si potrebbe anche rilevare (e censurare) il comportamento delle aziende che, a fronte di scioperi che raccolgono adesioni del tutto insignificanti, riducano il servizio del 50% (come si è detto, percentuale minima imprescindibile), senza adeguarlo all’effettiva portata dell’astensione .

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