TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1) Le influenze dirette o indirette delle teorie istituzionistiche
La dialettica tra i sostenitori delle teorie contrattualistiche e i fautori del fondamento acontrattuale del rapporto di lavoro non occupa un posto di rilievo nella attuale agenda degli studi di diritto del lavoro ed anzi appare relegata ad una fase storica ben precisa del dibattito giuslavorista.
Tuttavia tornare a temi che presentano un alto tasso di astrazione può essere esercizio salutare dopo tanto correre al seguito di una evoluzione normativa convulsa e sovente contraddittoria, che, per il suo carattere alluvionale, preclude ogni possibilità di sedimentazione teorica o di ricostruzione dogmatica. Operazioni queste ultime che, quando non fini a se stesse, si rivelano capaci di indirizzare anche il procedimento interpretativo o quanto meno si palesano bussole efficaci nel tormentato inseguimento ermeneutico.

Pur non potendo in questa sede ripercorrere approfonditamente le linee di svolgimento dello storico dibattito e dovendo necessariamente schematizzare con qualche forzatura la varietà di posizioni espresse al riguardo, può essere utile chiarire preliminarmente il ruolo svolto dalle teorie istituzionistiche e comunitaristiche di origine germanica, che tendevano a ripudiare la tradizionale fonte contrattuale per valorizzare il profilo comunitario del rapporto. Tali teorie, pur presentando tracce semantiche nel codice civile (“gerarchia”, “fedeltà”, “obbedienza”) e segnatamente nella “collaborazione del lavoro nell’impresa” di cui all’art. 2094 c.c., non ebbero successo nella nostra cultura giuridica e comunque risultano non omologabili, sia sul piano tecnico che sul versante ideologico, alle ricostruzioni acontrattualistiche “pure” e tanto più a quelle contrattualistiche , pur sempre agganciate ad una alterità degli interessi delle parti del rapporto di lavoro.
Tuttavia se l’acontrattualismo della prima ora prendeva le distanze dalla impronta associativa e comunitaria, non si può negare che subisse, sia pur con una evidente torsione ideologica, una qualche suggestione dalla idea dell’inserimento del lavoratore in una organizzazione produttiva preesistente e dotata di una propria logica . Di qui il passo era breve, infatti, per ritenere che il rapporto di lavoro non si esaurisse nella sua genesi negoziale, ma contemplasse poteri e obblighi che non si spiegano nella logica dello scambio e sono piuttosto derivati dalla organizzazione nella quale il lavoratore è stato inserito.
Questa imputazione almeno parziale dei poteri datoriali ad una sfera esterna al contratto ritornerà variamente modulata in talune posizioni dottrinali successive.
Salvatore Hernandez , ad esempio, distingue un potere di conformazione destinato a individuare esattamente la prestazione dovuta – di natura contrattuale – da un potere direttivo volto a coordinare le prestazioni dei dipendenti con l’attività del datore di lavoro nel perseguimento dell’obiettivo finale dell’imprenditore. Tale potere non trova fondamento nel contratto di lavoro, bensì nella titolarità della attività aziendale e dei relativi mezzi di produzione, espressione del potere di iniziativa economica riconosciuto dall’art. 41 Cost. .
In una diversa prospettiva Adalberto Perulli e C. Zoli riconoscono al potere direttivo una doppia anima in parte collocata nella dimensione organizzativa e legata alle esigenze della impresa e al funzionamento dell’organizzazione del lavoro, in parte derivante dalla struttura contrattuale.
E questa valorizzazione della connessione tra diritti e obblighi delle parti del rapporto di lavoro e l’organizzazione imprenditoriale è presente anche in chi, pur restando ancorato alla opposta ipotesi contrattuale, ha individuato nella collaborazione l’oggetto dello scambio, così da conformare in qualche misura l’esecuzione della prestazione alle concrete e variabili esigenze della organizzazione produttiva del lavoro .
E anche Mattia Persiani, pur ancorato alla natura di scambio del contratto di lavoro, vi inserisce in qualche misura un profilo di collaborazione/coordinamento del lavoratore alla realizzazione del risultato complessivo della organizzazione .

2) L’ipotesi acontrattuale nelle sue diverse varianti
L’ipotesi acontrattuale anche quando totalmente sganciata da ogni suggestione istituzionistica muove, comunque, dal rilievo che lo schema contrattuale, elaborato sul presupposto della parità tra le parti, non sia adeguato a dare conto del fenomeno e della disciplina del lavoro subordinato, caratterizzato da un istituzionale squilibrio tra i soggetti portatori dei contrapposti interessi.
La soggezione socio-economica, legittimata dal modo di produzione capitalistico, disattende sostanzialmente i presupposti cui risulta informato il riconoscimento dell’autonomia privata, al punto tale da impedire che la partecipazione (meramente adesiva) del prestatore alla determinazione (in buona misura unilaterale) della disciplina del rapporto possa esser riguardata come una componente di quell’”accordo delle parti” che costituisce – anche a norma dell’art. 1325 c.c. - un requisito strutturale del contratto . Inoltre la “subordinazione” e i relativi contropoteri attribuiti al datore di lavoro appaiono incompatibili con uno schema concettuale che tendenzialmente genera rapporti di eguaglianza e che, almeno nel suo paradigma tipico, non sembra disponibile a recepire e formalizzare posizioni di potere e soggezione; uno schema che non è in grado di spiegare la complessa intersezione di situazioni giuridiche che caratterizza il rapporto di lavoro.
Duplice sarebbe insomma il fattore di inconciliabilità con il paradigma contrattuale: l’esistenza di una situazione di soggezione socio-economica di fatto del lavoratore che altera il processo negoziale e l’istituzionalizzazione ad opera dell’ordinamento giuridico di poteri unilaterali (direttivo, di controllo e disciplinare) conferiti al datore di lavoro ai fini della gestione del rapporto . Inferiorità di fatto e soggezione giuridicizzata concorrerebbero entrambe ad escludere una libera ed equilibrata manifestazione di autonomia negoziale del lavoratore, che non è in grado di assumere un ruolo effettivo ed efficace di controparte contrattuale.
La tradizionale impostazione ricostruttiva di stampo contrattuale risulterebbe poi contraddetta dalla quanto mai diffusa presenza di una disciplina “eteronoma” (legale e collettiva) del rapporto di lavoro, che riduce il ruolo della volontà individuale ad una funzione di mera instaurazione del vincolo reciproco nonché dalla frequenza con cui la regolamentazione di impronta contrattualistica viene esplicitamente contraddetta delle soluzioni apprestate dalla speciale disciplina protettiva del lavoro subordinato.
Le teorie acontrattualistiche trovano una versione particolarmente caratterizzata e incisiva nel pensiero di Renato Scognamiglio , poi sviluppata in termini radicali da Fabio Mazziotti .
Scognamiglio non nega in radice una qualche rilevanza del contratto individuale specie nella genesi del rapporto (contratto di assunzione) e nella previsione di più favorevoli condizioni di trattamento economico e normativo del lavoratore nonché in talune vicende estintive del rapporto (es. dimissioni).
E tuttavia sostiene che la fattispecie di riferimento della disciplina lavoristica sia da rinvenire in una situazione di fatto: la relazione sbilanciata “tra chi offre il proprio lavoro per realizzare obiettivi ed interessi di un altro che quell’offerta accetta”. In tale relazione si esprimono interessi ed esigenze di natura personale, oltre che patrimoniale, del lavoratore che trascendono di gran lunga il modello contrattuale, collocandosi a fianco di altre figure del diritto privato, quali, ad esempio, i rapporti familiari, il matrimonio, la proprietà ove i diritti e poteri dei soggetti non hanno matrice contrattuale, ma si ricollegano a situazioni di fatto cui l’ordinamento riconosce peculiari effetti e facoltà.
Umberto Romagnoli e Luigi Mariucci dal loro canto, focalizzano l’essenza della subordinazione nella alienità del prestatore rispetto ai mezzi di produzione e alle finalità perseguite dal datore di lavoro; dunque anche essi in una relazione di fatto non riconducibile alla struttura contrattuale. Romagnoli in uno scritto successivo rimprovera esplicitamente Barassi di aver legato alla dogmatica contrattuale la fattispecie del contratto di lavoro subordinato, contribuendo a “depistare intere generazioni” .

3) L’opzione contrattualistica
A fronte di siffatte impostazioni, e in diffusa polemica con esse, si colloca naturalmente l’opinione di chi ritiene ancor oggi il “contratto” come lo schema (o la sintesi) formale più idoneo a descrivere sul piano giuridico il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore ed a sintetizzare i molteplici effetti che l’ordinamento riconosce a tale rapporto, compresa l’attribuzione al datore di un potere direttivo : “il contenitore che meglio si presta a fornire la misura delle reciproche obbligazioni” .
Nelle elaborazioni più avvedute – cioè in quelle che non si pongono nella fittizia prospettiva dell’avvenuto recupero della parità (di forza) contrattuale delle parti del rapporto conseguente alla evoluzione normativa di stampo garantistico – a sostegno della validità dello strumento contrattuale si adduce la profonda modificazione subìta dalle stesse strutture contrattuali oggetto di meccanismi di “integrazione” ad opera di discipline inderogabili di legge, e di contratto collettivo, senza per questo perdere la propria natura di atto di autonomia privata.
Al definitivo distacco dall’originaria configurazione di strumento funzionalizzato esclusivamente alla rapidità, certezza e convenienza degli affari individuali – consegue, ovviamente, la possibilità di attrarre nella sua orbita anche quelle fattispecie in cui più evidente e marcata è la disparità di potere economico tra le parti e, di conseguenza, più incisivo e diffuso appare l’intervento eteronomo proteso ad esautorare le stesse parti nella determinazione del concreto assetto di interessi.
Risulterebbe così smentita l’opinione secondo cui ogni composizione di interessi che rinviene la propria matrice in uno scontro tra soggetti “squilibrati” sul piano fattuale si sottrarrebbe irrimediabilmente allo schema contrattuale e si consoliderebbe, anzi, un modello di struttura contrattuale caratterizzata dalla irrilevanza della totale spontaneità o libertà del “consenso” e dalla neutralità nei confronti dei dati che caratterizzano sul piano socio-economico le rispettive posizioni delle parti e ne condizionano i rispettivi rapporti di forza. Tali dati, se possono integrare la ragione o lo stimolo per un intervento anche incisivo del legislatore sul piano dei “contenuti” della regolamentazione privata, non intaccherebbero affatto gli elementi che consentono la qualificazione in termini contrattuali di simili fattispecie. Con l’effetto di riconoscere il fondamento contrattuale del rapporto di lavoro quale che sia l’oggetto della obbligazione assunta dal lavoratore: la mera messa a disposizione delle energie lavorative, la diligente prestazione, un determinato rendimento, il “fare utile” o addirittura un risultato.
Invero il “contratto di scambio” costituisce pur sempre la più chiara espressione a livello dogmatico di quella “alterità”, se non conflittualità delle rispettive posizioni delle parti del rapporto di lavoro, vanamente posta nell’ombra della ideologia solidarista del periodo corporativo e, viceversa, enfatizzata dal legislatore, specie dallo Statuto dei lavoratori in poi.
Anche la reclamata difficoltà di integrare nello schema contrattuale e in una logica scambistica il riconoscimento giuridico di poteri unilaterali in favore del datore di lavoro (e massime del potere disciplinare) può essere agevolmente superata riconducendo all’interno del modello contrattuale anche queste espressioni di supremazia istituzionalizzata. Deve anzi ribadirsi che, riportare l’esercizio di siffatti poteri nell’ambito di una accettazione negoziale, ne costituisce anche la più efficace delimitazione, evitandosi che la loro latitudine risulti plasmata senza residui sulle esigenze della organizzazione imprenditoriale . Isolare il contenuto obbligatorio del rapporto di lavoro dalla sfera e dalle esigenze della organizzazione nella quale la prestazione si inserisce significa evitare ogni automatica o tendenziale funzionalizzazione ai pressanti interessi della impresa e circoscrivere la subordinazione nei limiti delineati dalla regolamentazione contrattuale così come integrata dalla normativa garantistica .
Solo il contratto è in grado di perimetrare la sfera debitoria del lavoratore subordinato e a delineare i limiti della subordinazione . “E’ il contratto il principale strumento di tutela della sfera personale del lavoratore perché è anzitutto nei suoi meccanismi che si deve trovare il modo per circoscrivere il pur inevitabile coinvolgimento della persona nell’esecuzione della prestazione. Ed ancora, è solo con i principi della mora credendi che vengono sciolti i nodi relativi all’esistenza o meno di un diritto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa” .

4) Risvolti tecnici e ideologici della ricostruzione contrattualistica
Da quanto innanzi emerge con sufficiente evidenza come il dibattito tra contrattualisti ed acontrattualisti sottende un pregnante retroterra ideologico, ancorché non univoco. Nel senso che mentre le teorie istituzionistiche e corporativistiche erano ispirate da un evidente intento di valorizzare e anteporre gli interessi socio-produttivistici della impresa, le teorie acontrattualistiche si sono caratterizzate talora per l’obiettivo di sintonizzare dinamicamente poteri e obblighi dei soggetti del rapporto di lavoro alle caratteristiche e ai fini dell’organizzazione imprenditoriale, talaltra per l’opposto scopo di ridurre, a tutela del lavoratore, lo spazio della autonomia negoziale in un rapporto caratterizzato da una capacità contrattuale “sbilanciata”.
Analogamente le teorie contrattualistiche sottendono in alcune versioni la volontà di restituire un ruolo alla autonomia privata delle parti nella regolamentazione del rapporto di lavoro in chiave di flessibilizzazione dei vincoli normativi, in altre l’intento di rendere quanto più asettica la subordinazione rispetto alle esigenze della organizzazione produttiva e di delimitare il debito del lavoratore all’interno delle sole coordinate contrattuali.
Occorrerebbe, quindi, la penna di Giovanni Tarello per disvelare analiticamente e in profondità “teorie ed ideologie” sottese alla dialettica dottrinaria in esame e le rispettive interferenze. Non possedendola non mi resta che confermare l’opzione personale, probabilmente già emersa nel corso della descrizione delle opposte tesi, favorevole alla ricostruzione contrattalistica del rapporto di lavoro: la moderna teorica del contratto, aperta anche a situazioni caratterizzate da squilibrio soggettivo, appare in grado di recepire nel suo alveo anche un rapporto come quello del lavoro subordinato dotato di peculiari tipicità socio-economiche e che registra l’esercizio di incisivi poteri unilaterali.
Alle considerazioni relative alla evoluzione dello strumento contrattuale si aggiungono poi valutazioni di politica del diritto: se la subordinazione non viene vista come effetto della obbligazione dedotta in contratto, ma quale filiazione o “riflesso” della organizzazione produttiva si delinea una soggezione del lavoro che rischia di andare ben al di là della attività lavorativa promessa.
Viceversa, se la subordinazione viene intesa come “un modo di essere strumentalmente ordinato all’adempimento” o se si rinviene nel contratto individuale il fondamento della subordinazione, di quest’ultima vengono fissati i limiti secondo i principii relativi all’oggetto del contratto .
L’adesione alla tesi contrattualistica, pertanto, non è frutto della mera tendenza a fare ricorso a schemi concettuali noti e consolidati o della forza suggestiva del contratto quale luogo di esplicazione della libertà negoziale, ma risponde piuttosto alla preoccupazione, molto ben evidenziata da Luciano Spagnuolo Vigorita nella storica relazione al Convegno AIDLASS del 1971 , di evitare ogni asservimento del rapporto di lavoro e dei confini della subordinazione alle esigenze della organizzazione produttiva.
In effetti allorquando si ritiene che i poteri riconosciuti dall’ordinamento al datore di lavoro discendano da una sfera esterna al contratto - magari dalla titolarità della organizzazione imprenditoriale o dal potere originario di disporre di mezzi di produzione - si palesa il rischio di una dilatazione di tali poteri sino alla plastica recezione delle esigenze datoriali.
È proprio la struttura contrattuale che crea un diaframma rispetto all’irrompere nella dimensione obbligatoria del rapporto dei vari e cangianti “interessi della impresa”, capaci, altrimenti, di dilatarne indiscriminatamente i confini, magari con l’ausilio di clausole generali di diligenza, correttezza e buona fede.
L’impresa è soggetta a mutamenti tecnologici, organizzativi, normativi che non incidono di per sé sulla struttura del contratto di lavoro e che in tanto rilevano nella disciplina del rapporto di lavoro e degli obblighi delle parti in quanto filtrati (non da generiche clausole generali ma) dalla struttura negoziale e, ovviamente, dalle previsioni eteronome che integrano tale struttura (anche esse non plasmate esclusivamente sulle necessità della organizzazione datoriale, ma dipendenti dalla cangiante dinamica dei rapporti di forza nell’agone socio-politico).
Discorso diverso, e solo apparentemente contraddittorio con quanto innanzi, riguarda l’inapplicabilità al contratto di lavoro di alcune regole e principii previsti per il contratto in generale. Il contratto di lavoro è infatti destinatario di una vasta disciplina specifica che contempla la specialità del rapporto sotteso e che espunge, almeno parte della disciplina civilistica generale, ispirata sovente a presupposti del tutto distanti.
In presenza di norme che espressamente offrono una precisa mediazione tra gli opposti interessi delle parti del contratto di lavoro non si può far ricorso a talune norme civilistiche, e segnatamente a clausole generali di buona fede e correttezza, per ribaltare quell’equilibrio normativo frutto di precisa dialettica “politica”.
Tanto meno può farsi ricorso ai principii civilistici per inserire ulteriori limitazioni (magari cavalcando le predette clausole generali) ai poteri datoriali oltre quelli apposti dalla speciale disciplina lavoristica.
La parziale inapplicabilità della normativa civilistica, in forza di un principio di specialità, non toglie insomma argomenti alla bontà della tesi sul fondamento contrattuale del rapporto di lavoro subordinato.

 

 

 

 

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