TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Tempi duri per la contrattazione…
In Italia, un tempo, gli attentatori ai buoni contratti erano facilmente identificabili: “padroni” avidi e resistenti a riconoscere i diritti dei propri dipendenti, bassa produttività di imprese malate di nanismo finanziario e refrattarie agli investimenti di capitale proprio, una globalizzazione spudorata nel rilasciare il nulla osta a commercializzare il lavoro a qualunque coordinata geografica e a qualunque condizione economica, tollerante perfino dello schiavismo o di situazioni lavorative ad esse pressoché analoghe, illegalità diffusa, a tratti imperante, assenza, o quasi, di investimenti infrastrutturali pubblici, ritardo nella crescita del paese che, prese a campione le prime 43 economie del mondo, si colloca al penultimo posto, davanti solo alla Grecia, in tutte le performance economiche misurabili (crescita del PIL, produttività, tasso di occupazione, ecc.).
Erano i tempi in cui la contrattazione di buoni salari e diritti diffusi doveva difendersi solo dai suoi, non sempre legittimi, nemici. Oggi no. Oggi a combatterla sono gli amici, quelli che dicono di volerla difendere, di avere in animo gli stessi obiettivi, le stesse ambizioni ma che non trovano niente di meglio chemetterla in concorrenza con proposte di legge che ad essa costruiscono un’alternativa.
E così ci si ritrova a discutere in modo ossessivo di salario minimo, di rappresentanza, di contratti pirata, di lavoro povero che i sindacati non avrebbero saputo impedire. Gli “amici” del lavoro e dei contratti sciorinano con disinvoltura le scandalose prove dell’inefficienza contrattuale: quasi mille contratti depositati al CNEL a loro dire quasi tutti pirata, che coinvolgono milioni di lavoratori (dipende dalle estemporanee fonti sapere quanti milioni siano, talvolta tre, altre quattro, finanche sei…) e remunerano il lavoro con salari da fame (anche in questo caso i milioni di lavoratori variano disinvoltamente da stime di salari inferiori a quattro euro, a sei o a sette). Ci sono esponenti delle istituzioni, del Governo, dei partiti e del Parlamento che si avvicendano sul palco dei ben informati, mai fornendo le fonti delle loro informazioni, spesso dando numeri (forse in qualche caso non sarebbe inopportuno dire “i numeri”) mutevoli a distanza di pochi giorni, perfino di poche ore.
E allora, volendo ostinatamente mantenere un profilo di serietà, anche a costo di essere impopolare, anzi, mi si consenta il neologismo, impopulista, la CISL ha voluto indagare profondamente i numeri, pronta a ricredersi, se necessario.
Intanto dobbiamo dirci “dove e come” si possono trovare i numeridel lavoro privato:
- il numero dei contratti sottoscritti da “qualcuno”, al CNEL, dove però trovare i testi aggiornati dei contratti è un’impresa pressoché titanica;
- il numero dei contratti effettivamente applicati, nei dati Uniemens;
- il numero dei lavoratori assicurati, nel rapporto annuale INPS sul lavoro regolare;
- il numero dei lavoratori a cui vengono applicati i vari contratti, ancora nei dati Uniemens che però non rilevano i lavoratori agricoli e quelli domestici;
- il numero dei lavoratori agricoli e domestici nelle stime del rapporto INPS;
- il testo e i contenuti dei CCNL, nei modi più svariati (CNEL, parti firmatarie, motori di ricerca, ecc.).
La prima cosa che salta all’occhio è che le fonti sono disomogenee e incomplete: il problema è talmente sentito che nessuno finora ha provveduto a metterle in rete, incrociarle, armonizzarle e implementarle, in modo da creare una banca dati davvero in grado di darci la dimensione dei vari fenomeni. Io, invece, ne farei una priorità, perché prendere decisioni sulle percezioni, anziché sulla conoscenza, non l’ho mai pensato un buon metodo. Ad aumentare la disomogeneità va aggiunto che i dati INPS utilizzati, disponibili al momento dell’indagine si riferiscono al 2020, mentre quelli Uniemens al 2021.
Pur con le cautele dovute all’osservazione di cui sopra, possiamo però provare ad analizzare i dati rilevabili dalle fonti indicate:
- i CCNL registrati al CNEL sono 931 (849 al netto di quelli relativi a lavoro agricolo e domestico);
- di questi sono 208 quelli firmati da almeno una tra CISL, CGIL e UIL (199 senza lavoro domestico e agricolo);
- solo 433 sono i contratti effettivamente applicati ad almeno un lavoratore di cui 161 quelli sottoscritti da almeno una tra CISL, CGIL e UIL;
- 12, 5 milioni sono i lavoratori a cui risulta applicato uno dei 161 CCNL sottoscritti da CISL e/o CGIL e/o UIL:
- 387 mila sono i lavoratori a cui risultano applicati altri CCNL;
- 730 mila sono i lavoratori, rilevati da Uniemens, per i quali non vengono fornite informazioni sul CCNL applicato;
- ergo, 13,6 milioni sono i lavoratori complessivamente rilevati da Uniemens;
- 845 mila sono stimati i lavoratori agricoli;
-  1,07 milioni sono stimati i lavoratori domestici;
4,9 milioni sono i lavoratori assicurati stimati dal rapporto INPS.
 Quali osservazioni emergono?
Intanto che, considerato che il rapporto INPS include anche le stime di agricoli e domestici, i numeri complessivi del rapporto INPS, sono abbastanza coerenti con quelli Uniemens, confermandone l’affidabilità.
Poi che i CCNL non sono la marea fuori controllo che il CNEL denuncia ma un numero inferiore alla metà di quello raccontato, perché è difficile sostenere che contratti inapplicati (compresi 47 sottoscritti da CISL e/o CGIL e/o UIL) possano essere un problema o, peggio, un pericolo per i lavoratori. Al massimo potranno essere un esercizio letterario certamente mal riuscito e poco letto.
A seguire, emerge che il 92% dei lavoratori (sempre escludendo quelli agricoli e domestici per i quali non abbiamo i dati di copertura contrattuale) vede applicato un contratto sottoscritto da almeno una delle tre grandi confederazioni, che del 5,4% dei lavoratori non si conosce il contratto applicato e che al 2,8% si applica un contratto sottoscritto da sindacati diversi da CISL, CGIL e UIL. Ma il dato che impressione di più, e che aggiungo “dulcis in fundo”, è che solo a 37.357 lavoratori risulta applicato un contratto sottoscritto da organizzazioni sindacali e/o datoriali non rappresentate al CNEL. Cioè, ammesso che tutti questi si possano definire così, i contratti pirata si applicherebbero, secondo gli unici dati ufficiali di cui disponiamo a meno di 40 mila lavoratori (lo 0,3%).
Dunque, con buona pace di chi narra storie diverse, i contratti pirata non c’entrano molto coi bassi redditi da lavoro dipendente.
E per la verità non c’entrano molto neppure i contratti sottoscritti dalla cosiddetta triplice. Un’ulteriore analisi ci dice, infatti, che, preso in considerazione, come indicano i progetti di legge più in auge, il trattamento economico minimo complessivo (cioè inclusivo di tutte le voci di natura economica che compongono il contratto), solo il 30% dei 161 CCNL sottoscritti da CISL e/o CGIL e/o UIL ha uno dei livelli retributivi al di sotto dei 9 euro lordi orari. Ma si tratta perlopiù di contratti che coprono una platea ridotta e, con la grande maggioranza degli addetti collocati nei livelli superiori a quelli in questione.
E allora cosa è questa storia del lavoro povero? Certo, non si può negare l’esistenza di redditi da lavoro dipendente molto bassi ma, come ci racconta il rapporto della commissione capitanata dal professor Garnero, si tratta di redditi impoveriti certamente anche da stipendi non faraonici, ma soprattutto da discontinuità lavorativa e riduzione delle ore lavorate. Situazioni più frequentemente imputabili, insomma, non a basse tabelle salariali, ma a un cattivo funzionamento del cosiddetto “mercato del lavoro” (definizione odiosa che mercifica le persone), che vede l’Italia agli ultimi posti europei per tasso di occupazione e per numero di ore lavorate pro-capite.
Un dato quest’ultimo, che andrebbe letto a mio avviso assieme alle stime ISTAT (2019) sul lavoro irregolare che occuperebbe una quota pari al 15,1% dei lavoratori (2 milioni circa). Riferiti allo stesso anno i dati Eurostat ci raccontano di un’esplosione del cosiddetto part-time involontario che giunge ad occupare 2,8 milioni di lavoratori, spesso assunti in settori dove l’uso diffuso di questo strumento contrattuale desta, eufemisticamente, qualche sospetto. Peraltro, a conferma di ciò, il MEF stima una media di evasione contributiva superiore a 11 miliardi per anno, in una sequenza osservata negli ultimi 10 anni.
Alla luce di queste ultime rilevazioni è inevitabile che sorgano dubbi sulla esattezza dei dati sulla povertà rilevabili dai redditi dichiarati: un fatto importante non solo perché in sé molto grave, ma perché fuorviante per una politica che si sta affannando a curare la povertà che sicuramente esiste e che deve essere contrastata, ma che probabilmente ha dimensioni inferiori a quelle che appaiono dalle statistiche sui redditi, e trascura un male assoluto come quello della diffusione di lavoro senza tutele e senza diritti, come quelli alla malattia, alle ferie, alla pensione, alla sicurezza, ecc.
Certo, lo ho detto, i dati disponibili non sono né perfetti, né completi e il fenomeno della pirateria contrattuale potrebbe essere un po’ più incisivo di quello che rilevano, ma difronte a milioni di lavoratori abbandonati al lavoro totalmente o parzialmente sommerso, davvero crediamo che il dumping alla buona contrattazione lo facciano contratti che risultano pressoché inapplicati?
L’Europa, con la sua prossima direttiva ci dirà che la contrattazione è la via maestra per affermare libertà, sicurezza e dignità delle persone. Ci dirà che gli stati che non ce l’hanno e che si affidano alla legge per regolare i salari sono quelli che in Europa fanno dumping, che hanno le peggiori condizioni lavorative e che, guarda un po’, non rispettano le indicazioni minime di adeguatezza salariale (60% della mediana e 50% della media). Ci dirà anche che chi ha una contrattazione che copre meno dell’80% dei lavoratori deve affrettarsi a fare piani per l’espansione contrattuale e che chi, come l’Italia, quella soglia l’ha già abbondantemente superata, deve continuare a presidiarla e tenersela stretta.
E allora perché in nome della direttiva europea, forse non letta, qualcuno vorrebbe offrire alle imprese, con una legge, la possibilità di scegliere tra applicare quest’ultima e applicare un contratto? Perché non ci si pone con la stessa lena di fronte al ben più acuto problema del lavoro nero, magari promuovendo la sua penalizzazione, giacché oggi non è reato per il datore di lavoro? E ancora, perché, rispetto ai dubbi che restano sulla incompletezza dei dati da cui poter trarre un giudizio sulla realtà del lavoro italiano, non si agisce costituendo obblighi severi di segnalazione in capo alle imprese e strutture ispettive efficienti e adeguate numericamente, così da scoraggiare furberie e cialtronerie di vario genere e avere finalmente un quadro perfettamente attendibile della situazione?
La CISL crede che di fronte a situazioni complesse, tanto più in un paese mortificato da trent’anni di stagnazione economica e ora brutalizzato dal susseguirsi di crisi, cercare scorciatoie ad effetto sia sempre sbagliato, tanto più quando queste ci possono allontanare dalle conquiste realizzate nonostante le difficoltà.
Occorre certamente una nuova politica dei redditi, maggiormente redistributiva, occorre più legalità, occorre una nuova politica fiscale che metta al centro il contrasto all’evasione ed una maggiore equità impositiva, occorrono politiche industriali che facciano scelte sul paese che vogliamo diventare e le sostenganocon investimenti infrastrutturali e produttivi, pubblici e privati. Ciò che non occorre sono provvedimenti che, illudendo di dare facili soluzioni a problemi complicati, minacciano le conquiste democratiche che, anche grazie alla contrattazione ed alla concertazione, l’Italia ha saputo fare e difendere anche in tempi difficili. Perché la contrattazione è un presidio della democrazia e non si trova mai nei paesi con governi autotitari.
Per questo guardiamo con interesse all’ultima proposta del Ministro Andrea Orlando, perché la sua idea di stabilire i trattamenti economici complessivi minimi di ogni settore delegando alla contrattazione il compito di fissarli ci vede convinti che possa essere uno strumento per dare certezza ai lavoratori senza sostituirsi, nemmeno in parte, al ruolo del negoziato tra parti sociali. Certo occorre definire bene quali dovranno essere i contratti leader deputati a dettare i minimi settoriali e anche per questo abbiamo voluto capire se vi fosse uno strumento per identificarli senza alcun dubbio.
Mi pare oggettivamente che, leggendo i risultati della nostra indagine, sarebbe difficile non trarne inconfutabili indicazioni.

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