Testo integrale con note e bibliografia

Vorrei soffermarmi, in particolare, sul tema delle “perimetrazioni”. Condivido l’idea di chi ritiene che vi sia una discontinuità tra il t.u. 2014 e il c.d. “patto per la fabbrica” del 2018.
Il t.u. 2014 è diretto soprattutto a contrastare la c.d. contrattazione separata. Esso impiega il criterio del c.d. “mix” tra dato associativo e dato elettorale per regolare l’ammissione alle trattative e il rinnovo del c.c.n.l.
A questi limitati fini, il t.u. 2014 ben può, dunque, riferire (come, in effetti, fa) la misurazione della rappresentatività a ciascun «ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro», evitando di affrontare il tema dei perimetri e limitandosi – come si è detto - ad una «sorta di fotografia dell’esistente» .
Tuttavia, la regola del mix tra dato associativo e dato elettorale (di cui al t.u. 2014) non può essere agevolmente “esportata” ad altri fini ed in particolare per individuare il c.d. contratto collettivo leader, oggetto di (molteplici) rinvii legali.
Ciò, per una pluralità di ragioni: da un lato, nel t.u. 2014 il computo di deleghe associative e voti ricevuti nelle elezioni delle rappresentanze sindacali riguarda solo i sindacati di categoria aderenti al contenuto del testo unico stesso. Dunque, si tratta di un computo solo parziale, dal quale restano esclusi i sindacati non aderenti.
Inoltre, per individuare il c.d. contratto collettivo leader, occorrerebbe comparare tra loro contratti collettivi insistenti su ambiti diversi, non riconducibili dall’interprete ad un unico comune denominatore (operazione, quest’ultima, invece necessaria per una corretta “misurazione” della rappresentatività in base a criteri “quantitativi”) .
Il “patto per la fabbrica” del 2018 - e in questo vi è discontinuità rispetto al t.u. 2014 - pretende invece proprio di affrontare tale tema (dei perimetri) ed in aggiunta anche quello della misurazione della rappresentatività datoriale. Ma proprio per questo finisce per essere spiccatamente programmatico, limitandosi a puntualizzare i futuri nodi da sciogliere ed alla fine, come è stato detto, deve alzare «la bandiera bianca della legge sindacale» .
Il “patto per la fabbrica” apre dunque ad un eventuale intervento eteronomo. Vero è, però, che quest’ultimo dovrebbe a sua volta misurarsi con l’art. 39 Cost., ed in particolare con il tema del pieno riconoscimento, in capo alle organizzazioni sindacali, della libertà di individuare quali interessi collettivi tutelare, e dunque della libertà di determinare tanto la categoria organizzativa quanto (nel dialogo con la controparte) la categoria contrattuale, in base alla fondamentale affermazione secondo cui il sindacato è il prius e la categoria il posterius .
Si tratta, naturalmente, di un tema che ha dato luogo ad un dibattito amplissimo, polarizzatosi, in particolare in ordine al rapporto tra il co. 1 e i co. 2 e ss. dell’art. 39 Cost.: articolo segnato, secondo taluno, da una “crepa interna” e connotato invece, secondo una diversa lettura, da due parti «equiordinate e nello stesso tempo tra loro interferenti» .
In merito, sembrerebbe condivisibile l’idea di chi ritiene che quello di una perimetrazione “eteronoma” sia obiettivo improbo – a Costituzione invariata - se condotto secondo lo schema della “rappresentatività misurata”.
Ciò perché, come è stato evidenziato, non è possibile individuare in via eteronoma i “confini del campo da gioco” senza violare il principio di libera autodeterminazione delle categorie.
Mi sembra invece che un intervento normativo di mero sostegno “leggero” sia auspicabile, nell’attesa che la giurisprudenza, per approssimazione, “digerisca” e rielabori le numerose sollecitazioni degli ultimi periodi: tra le quali, in particolare, l’attribuzione di un c.d. “codice alfanumerico” unico ai c.c.n.l., capace di mettere in comunicazione gli archivi del Cnel con i flussi informativi raccolti dall’Inps (tramite le dichiarazioni Unilav e Uniemens) ; il deposito al Cnel dei c.c.n.l. con valorizzazione degli ambiti di insistenza tramite il riferimento a codici Ateco autonomamente individuati dalle parti sociali stesse; la convenzione 27 settembre 2019 tra Inps, Ispettorato nazionale del lavoro, Confami, Cgil, Cisl, Uil, relativa a raccolta e ponderazione dei dati associativi ed elettorali. Novità, tutte, che - a regime - dovrebbero, da un lato, consentire di rilevare il numero di lavoratori e di aziende cui trova applicazione un certo c.c.n.l. (benché detto dato, naturalmente, non corrisponda al dato “associativo”) ; e, dall’altro, rendere più agevole una qualche comparazione (pur sempre per approssimazione) degli ambiti.
Allo stato attuale, mi sembra, in particolare, che sarebbe utile un intervento normativo che cercasse di “disboscare” l’attuale giungla contrattuale dai c.c.n.l. pirata , intesi, questi ultimi, non già come quelli sottoscritti da organizzazioni di scarsa rappresentatività, quanto – come è stato suggerito – come quelli privi di contenuto genuinamente rivendicativo .
Per realizzare tale obiettivo, potrebbe essere utile un intervento “di minima” in materia salariale, che espressamente affidasse alla contrattazione collettiva il compito di individuare il trattamento “proporzionato e sufficiente” (ex art. 36 Cost.); ma che al contempo fissasse una (più bassa) soglia legale, quale «barriera rispetto ai sottosalari» , individuandola ad un livello tale da escludere in sostanza solo i contratti collettivi veramente pirata (in parte secondo lo schema del disegno di legge “Catalfo”) (C-658).
In sostanza, il legislatore dovrebbe fare rinvio ai contratti collettivi per l’individuazione della retribuzione proporzionata e sufficiente, ma al contempo sarebbe individuato un salario minimo legale e i contratti collettivi “sottosoglia” (al di sotto, cioè, della soglia legale) sarebbero automaticamente considerati “pirata”.
Tale soluzione non consentirebbe “fughe” dal contratto collettivo della parte datoriale, impedendo alla giurisprudenza di identificare tout court la retribuzione “proporzionata e sufficiente” di cui all’art. 36 Cost. nell’importo minimo (in ipotesi) fissato ex lege (come potrebbe invece avvenire, seguendo una diversa tecnica di intervento legislativo) .
Non si tratterebbe, però (a differenza di quanto traspare dal d.d.l. Catalfo) di rimettere la determinazione dei minimi ad un (unico) contratto collettivo c.d. leader, quanto piuttosto alle scelte operate da associazioni sindacali genuine, sia pure adottando una “soglia minima legale”.
Tale operazione non si risolverebbe in una mera salvaguardia dello status quo, ma potrebbe svolgere un ruolo chiarificatore in ordine all’identificazione dell’“impresa illecita”, rendendo meno impervia l’opera dei prestatori di lavoro, o degli ispettori chiamati a sconfessare, in giudizio, le pattuizioni “pirata”.
In secondo luogo, sempre in una prospettiva de jure condendo, mi sembrerebbe utile iniziare a dissodare il terreno della rappresentatività datoriale, ad esempio prevedendo, nei flussi informativi trasmessi dai datori all’Inps, la specificazione se il vincolo all’applicazione del c.c.n.l. derivi da iscrizione del datore all’associazione firmataria o da mero rinvio, lasciando poi alla giurisprudenza il compito di valorizzare tali dati.
Vorrei, infine, aggiungere un’ultima osservazione. L’art. 51 del D.lgs. n. 81/2015 precisa che, salvo diversa previsione, ai fini del decreto stesso per “contratti collettivi” si intendono quelli stipulati dai sindacati “comparativamente più rappresentativi”.
A me sembra che tale norma sia carica di ambiguità. Se non altro perché, nell’ambito del D.lgs. n. 81/2015, convivono tanto rinvii “propri” quanto rinvii “impropri” alla contrattazione collettiva.
Come noto, la dottrina da tempo distingue tra i rinvii “propri”, in cui la legge demanda al contratto collettivo il compito di derogare, sostituire o integrare il precetto legale; e rinvii “impropri” , nei quali la legge rinvia al contratto collettivo perché esso regoli direttamente la materia, senza nulla “togliere” e nulla “aggiungere” alla sfera di autonomia di cui i sindacati già sono titolari.
In caso di rinvio “proprio” il legislatore ben può assumere quale criterio di selezione quello della maggiore rappresentatività o della maggiore rappresentatività comparata, posto che il principio di libertà sindacale (di cui è espressione la libertà di contrattazione collettiva) non include la possibilità, per il sindacato, di derogare (sostituire, integrare) il precetto legale.
Non così, però, nel caso di rinvio “improprio”: se è vero che, in forza del principio di libertà sindacale, qualsiasi contratto collettivo, anche in assenza di rinvio, potrebbe comunque, di per sé solo, regolare la materia, ne consegue che il legislatore non può “riservare” solo a taluni sindacati (maggioritari) tale prerogativa, senza violare la libertà degli esclusi.
Ora, con riferimento al D.lgs. n. 81/2015, un rinvio “improprio” è, ad esempio, quello dell’art. 15 D.lgs. n. 81/2015, ove si prevede che il datore di lavoro informi con cadenza annuale le r.s.a./rsu circa l’andamento del ricorso al lavoro intermittente, salvo migliori previsioni dei “contratti collettivi”.
Questi ultimi, allora, non possono essere solo quelli “stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi”, come vorrebbe un’interpretazione letterale del combinato disposto dell’art. 15 e dell’art. 51 D.lgs. n. 81/2015, pena la lesione della libertà sindacale dei sindacati minori.
E ciò, come si è accennato, in ragione del fatto che si tratta di competenza “regolatoria” (e non già “derogatoria”) di cui i sindacati minoritari non possono essere spogliati dal legislatore.
Ove non si ritenesse possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata, occorrerebbe dunque sollevare una questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 15 e dell’art. 51 D.lgs. n. 81/2015 in parte qua.

 

 

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