TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa. Nella sua introduzione alla pubblicazione della pionieristica ricerca sui rinvii pregiudiziali nel settore sociale , condotta presso l’Istituto Universitario Europeo, Silvana Sciarra nel 2001 ricordava l’opinione, già espressa negli anni 80, dal Giudice della Corte di giustizia Paolo Pescatore: “ judicial interpretation of Community law in a creative process whether it serves the purpose of consolidating unstabile legal principles, clarifying them of favouring further developments. The European Court of Justice (ECJ) has been driven by National Courts in addressing central points of Community law: direct effect, supremacy, the protection of fundamental rights, common market and competion law and the social dimension..”. Per l’Autrice lo strumento del rinvio pregiudiziale rappresenta una sorta di “ pre-federal devise”: “the founding fathers must have evisaged this as an original institutional devise for a Community wich was essencialy kept together by a common market” : lungo quest’asse comunicativo diretto tra Corte del Lussemburgo e giudici nazionali si esprime anche una sorta di malaise di quest’ultimi: “ a state of constant search for a new, more advanced equilibrium between the centre and periphery of the European judiciary system “ in un sistema complessivo molto instabile come quello dell’UE dai tratti in certi aspetti marcati in senso pre-federale ma ancora non egemoni. Una “chiave di volta” del sistema giurisdizionale dell’Unione essenziale “per la salvaguardia della natura stessa dell’ordinamento istituito dai Trattati” ( ), come ha ricordato anche recentemente il Giudice italiano presso la Corte del Lussemburgo.
In questo intervento vorremmo ricostruire in particolare questo stato di malaise giudiziaria alla luce degli ultimi anni di utilizzazione di questo canale luminoso di “integrazione attraverso il diritto” nell’ambito del settore sociale, esposto a tensioni e sfide particolari cui accenneremo in breve. Dall’aggressione, avvenuta negli anni immediatamente successivi al 2008 come risposta alla crisi dell’euro, ai livelli di tutela consolidati in alcuni stati membri per effetto delle cosidette politiche di austerity , di matrice europea, per le quali i sistemi di tutela multilivello, incentrati sulla Carta dei diritti non hanno offerto alcuna efficace protezione, sino ad una imprevista contesa tra Corte di giustizia ed alcune Corti costituzionali per il “ controllo” dell’istituto del rinvio ( e delle sue conseguenze sul piano disapplicativo delle normative nazionali). Persino un sistema giudiziario come il nostro, tradizionalmente ben disposto a seguire gli orientamenti sovranazionali con pieno spirito collaborativo, ha subito momenti di disorientamento che, in certi casi, hanno portato a contrapporre fonti UE e fonti interne per una presunta debolezza o inadeguatezza delle prime . A ciò si è aggiunta una certa carenza di attitudine nomofilattica della Corte di giustizia, soprattutto sul lato delle modalità di applicazione della Carta dei diritti, rimaste molto confuse, anche volendo prescindere dai aspetti prima ricordati di contrasto interpretativo (e di egemonia) tra i Giudici del Lussemburgo ed alcune Corti supreme interne. Certamente questo Convegno fornisce un’occasione importante per tracciare collettivamente quali siano i punti di assestamento delle, talvolta aspre (forse necessarie), discussioni dottrinarie e giurisdizionali, degli ultimi anni sul ruolo del Giudice nazionale nel garantire i fundamental social rigths nel contesto europeo di (parziale, a tutt’oggi) codificazione europea di questi diritti. Forse, alla luce di questi ultimi approdi, può anche ammettersi che non abbiano più di tanto giovato le formule utilizzate per cercare di comporre, almeno in parte, i dissidi (soprattutto quelli meno ideologici) incentrate sul “ dialogo multilivello” che hanno finito con l’oscurare il carattere finalistico e strumentale ad una decisione che hanno le discussioni giudiziarie, anche tra Corti di diverso livello, nelle quali il modello habermasiano del confronto aperto, ininterrotto e libero da dominio subisce inevitabili limitazioni di natura pratica e performativa ( ). Proprio alla luce delle premesse comunicative del modello habermasiano il confronto giudiziario sembra avvicinarsi più ai processi dell’integrazione sistemica che a quelli dell’integrazione sociale (che mantengono la medesima ossatura giuridico-costituzionale comune ed il medium del diritto): la formula del “ dialogo” ( ) in effetti non è del tutto appagante per ricostruire come si sia nel tempo assestato il rapporto tra autorità giurisdizionali sovranazionali ed interne in quanto oscura quanto siano state anche le nuove policies UE (dal 2017 in poi) a determinare un mutamento di prospettiva e l’occasione per interpretazioni più disposte a smussare i conflitti in una visione comune. Difficile poter imputare alla sola “ragionevolezza” giuridica (pur di estremo rilievo nel recupero della “razionalità” del progetto europeo) l’allentamento delle tensioni o delle incertezze nella scelta tra strade di tutela sovranazionali o interne, anche se per i giuristi può essere una tentazione difficile da evitare.
2. Giudici del lavoro e rinvio pregiudiziale. I giudici del lavoro italiani sono da sempre apparsi piuttosto propensi ad utilizzare lo strumento del rinvio pregiudiziale in un clima generale (mai contrastato sino al 2017 dalla Consulta) anch’esso aperto alla cooperazioni tra Corti (il 28% dei rinvii pregiudiziali complessivi proviene proprio dal ben paese ed è in crescendo) e disposti ad interpretare al meglio il proprio ruolo di giudici di base del sistema multilivello; basterà pensare ai rinvii del Tribunale di Milano, dei giudici di merito di Brescia o a quelli del Tribunale di Napoli ed infine della Corte di cassazione per comprendere come una serie di passaggi e sviluppi interpretativi, soprattutto in tema di contratti atipici e di discriminazione nel lavoro o nell’accesso alle prestazioni sociali, del quadro normativo sovranazionale siano passati attraverso le richieste di chiarimenti dei magistrati italiani ( ).
La ragione di una spinta all’ausilio interpretativo della Corte del Lussemburgo ha indubbiamente radici profonde e strutturali; innanzitutto il carattere a macchia di leopardo della legislazione sovranazionale che, con il Trattato di Amsterdam, ha da una parte acquisito spazio normativo (spesso inutilizzato) ma dall’altra si è indebolita come fisionomia normativa perché non ha più finalità armonizzante ma stabilisce solo trattamenti minimi. Le direttive di nuova generazione sono, quindi, a maglie molto larghe, il cui effetto garantista è certamente non di immediata evidenza (ancora è materia di lotta giudiziaria l’effettività della clausola 5 antiabusiva della direttiva sui contratti a termine del 1999 e del suo rapporto con la clausola 4 antidiscriminatoria) e decisioni come quella del Tribunale di Napoli, dopo il rinvio pregiudiziale sui contratti a termine degli insegnanti di religione, hanno aperto di recente nuove strade, pur collaborative, con la Corte di giustizia ( ). Sull’altro fronte l’importante e coraggiosa giurisprudenza della Corte di giustizia ha sviluppato, soprattutto negli ultimissimi anni, potentemente ed ai limiti della rottura con i testi normativi( ), la portata garantista della direttiva sul lavoro interinale (assumendo come presupposto per l’adozione di questa estrema forma di lavoro flessibile il carattere “temporaneo” delle prestazioni nell’accezione primaria e letterale del termine) che pur si allontanava piuttosto radicalmente da quella a termine avendo alcune premesse generali che sembravano, prima facie, di sostanziale liberalizzazione del settore. Così come va ricordata la direttiva sui distacchi che la Corte di giustizia ha reso assai efficace ed aperta nelle sue conseguenze ricorrendo alla costruzione della frode alla legge, certamente poco utilizzata come formula negli anni precedenti ( ). Sulle ferie, l’orario di lavoro e la non discriminazione la Corte ha poi compiuto miracoli anche appoggiandosi sul Bill of rights europeo, gemmando in alcuni casi in sostanza nuovi diritti fondamentali come quello della previa informazione del diritto a godere di ferie ( ), alla maturazione delle ferie nel periodo in cui il rapporto è sospeso per licenziamento illegittimo poi annullato ( ) sino al dovere di conteggiare l’orario di lavoro per il datore di lavoro ( ) .Il rinvio pregiudiziale nel campo del diritto del lavoro si è rivelato centrale, nonostante si tratti di un settore a competenza condivisa nel quale neppure le competenze già attribuite sono state esercitate in modo integrale, perché attraverso questo vettore si è riusciti a definire (in molti casi sviluppando l’interpretazione teleologica e l’enfasi sulla ratio delle direttive in sintonia con la Carta dei diritti e/o la sua applicazione diretta) il campo essenziale dell’intervento regolatore sovranazionale. La seconda spinta è venuta dall’entrata in vigore della Carta dei diritti, l’unico principio speranza (per la costruzione di un’Europa sociale in grado di equilibrare in senso garantista le dinamiche dei mercati) che il Lisbon Treaty ha introdotto nel capitolo sociale dei Trattati. La necessità di chiedere aiuto ai giudici del Lussemburgo è derivata anche dal lentissimo assestarsi di una giurisprudenza sulla sua applicabilità , sugli effetti di questa, sul rapporto con le direttive, processo di chiarificazione che non appare, peraltro, completamente assestato. Con la sentenza Fransson - Grande sezione- del 26.10.2013, C-617/2010, sembrava essere destinata a divenire prevalente l’ interpretazione dell’art. 51 della Carta- che limita i casi di applicazione della Carta al diritto nazionale quando quest’ultimo sia una forma di “ attuazione” del diritto dell’Unione- scegliendo la più indiretta formula delle Spiegazioni alla Carta (secondo la tesi avanzata sin dal 2010 dalla Commissione europea). Per quest’ultima soluzione è sufficiente che “ gli stati agiscano nell’ambito di applicazione “ del diritto dell’Unione ( ) e quindi è sufficiente che la fattispecie esaminata cada per qualche suo aspetto nel <<cono d’ombra>> del diritto dell’Unione, anche indirettamente (nel linguaggio della Commissione che sussista un link tra il caso ed il diritto sovranazionale). Mentre l’art. 51 sembra stabilire un vincolo diretto e necessario tra il diritto dell’Unione e la disciplina interna, le dette Spiegazioni alla Carta (che secondo l’art. 6 TUE devono essere tenute in considerazione dagli interpreti) affermano che gli stati devono rispettare i diritti della Carta allorché agiscono nell’<<ambito di applicazione del diritto dell’Unione>> e richiamano la giurisprudenza della Corte di giustizia in ordine agli obblighi in via generale degli stati di rispetto del diritto sovranazionale che chiamano in causa ogni normativa interna che possa interferire con il primo anche in via indiretta o eventuale. Quindi se da un lato è molto chiaro che la Carta non è un mezzo per estendere la competenza dell’Unione, dall’altro lato però la Carta è ancorata nelle più ampie regole sul primato del diritto dell’Unione (per giunta primario o forse super-primario)la seconda opzione. Nella Fransson la Corte ha infatti affermato testualmente:
<< Secondo tali spiegazioni, «l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali definiti nell’ambito dell’Unione vale per gli Stati membri soltanto quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione». Di conseguenza, dato che i diritti fondamentali garantiti dalla Carta devono essere rispettati quando una normativa nazionale rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, non possono esistere casi rientranti nel diritto dell’Unione senza che tali diritti fondamentali trovino applicazione. L’applicabilità del diritto dell’Unione implica quella dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta. Ove, per contro, una situazione giuridica non rientri nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, la Corte non è competente al riguardo e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza >>.
Non sono però mancate subito dopo decisioni più restrittive secondo le quali <<per stabilire se una misura nazionale rientri nell’attuazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta occorre verificare… se la normativa nazionale in questione abbia lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’Unione, quale sia il suo carattere e se essa persegua obiettivi diversi da quelli contemplati dal diritto dell’Unione, anche se è in grado di incidere indirettamente su quest’ultimo, nonché se esista una normativa di diritto dell’Unione che disciplini specificamente la materia o che possa incidere sulla stessa>> (come nel caso Siragusa del 6 marzo 2014, C-206/2013,da cui è tratta la citazione che precede o nella decisione ordinanza Sindicato dos bancarios do Norte del 7 marzo 2013,C-128/2012, nella quale ( ) si è ritenuto non fosse stato dimostrato che le contestate misure di austerity portoghesi avessero un collegamento con le norme europee). Va infatti ricordata l’opinione del Giudice della Corte Marek Safjan ( ) che forse sembra cogliere una diversa linea di assestamento (più simile a quella seguita nella Siragusa) mediana fra le altre due prima citate che definisce <<funzionalista>>: è sufficiente che la fattispecie presenti un legame anche indiretto con il diritto europeo, ma si deve dimostrare che questo diritto abbia un significativo rilievo nel disciplinarla, non bastando che si tratti di un legame potenziale. A tutt’oggi questa oscillazione è continua: molte decisioni richiamano la Fransson come leading case, altre la ignorano sostituendola con la più rigida Siragusa; occorre precisare che proprio l’ultima opzione restrittiva sembra essere divenuta prevalente in campo sociale con la giurisprudenza molto discutibile sull’idoneità delle sanzioni in caso di licenziamento collettivo che ha anche scomodato la nozione di armonizzazione “parziale” ( ). Se si fosse seguita la “linea Fransson” non avrebbe avuto rilievo questa armonizzazione non integrale perché anche un limitato esercizio della competenza UE costituisce quel link tra normativa interna e normativa sovranazionale che comporta il dovere di rispettare la Carta dei diritti.
Discorso che per ragioni di spazio non si ha modo di affrontare compiutamente riguarda anche la questione della diretta applicabilità dei diritti della Carta (ancora in fase di assestamento) finalmente ammessa anche per meta-diritti a vastissima incidenza sociale come gli artt. 20 e 21 o l’art. 47 (non solo nella sua valenza processuale ma anche in quella sostanziale, quindi in collegamento con tutele non derivabili direttamente da norme della Carta). In una tale situazione appare molto probabile che i rinvii pregiudiziali dei giudici del lavoro si possano ulteriormente estendere propendendo la Corte UE per soluzioni che sono strettamente connesse al caso esaminato, pur coinvolgendo il tema del’efficacia del Bill of rights degli europei ( ) e che, quindi, determinano grande incertezza.
3.Cosa resta della 269? La disputa su rinvio pregiudiziale (e possibile conseguente disapplicazione della norma interna) versus questione di costituzionalità, nata formalmente in ambiente penale cioè in una materia nella quale sino a pochissimi anni prima si dubitava che l’Unione godesse di una potestà sanzionatoria diretta, in realtà a noi sembra che sia stata sollevata per ragioni che hanno a che vedere anche con il settore sociale. Nel saggio del giudice della Consulta Augusto Barbera, che anticipa la svolta della 269 e che argomenta sul tentativo di cambio di paradigma con la modifica dei principi “ Granital”, uscito sulla Rivista dell’AIC poco prima dell’ordinanza ( ), i riferimenti al settore sociale sono forse determinanti . Secondo l’Autore proprio in campo sociale vi sarebbe il rischio di un pericoloso traboccamento degli effetti della Carta e dell’istituto della disapplicazione delle norme interne attraverso il richiamo alla Carta, in particolare attraverso l’ art. 21 (come ammesso nel crescendo rossiniano delle sentenze che vanno dalla Mangold, alla Kὕcὕkdevici, sino alla Dansk Industri), che mette tra parentesi le fonti costituzionali interne nonostante il sistema europeo sia affetto da vistosa carenze protettive in campo sociale ed abbia tollerato (anzi provocato) le odiose politiche di austerity. Questo eccesso di attivismo giurisdizionale , con una sorta di tacita alleanza tra Corte del Lussemburgo e giudici ordinari, metterebbe fuori campo la Consulta, custode anche del sistema di controllo accentrato sul giudizio di costituzionalità, e la primazia assiologia della Costituzione fondata sui preminenti principi lavoristici , alludendo ad una sorta di federalismo giudiziario mai sottoscritto dai cittadini italiani e comunque molto problematico visto il fallimento del tentativo di dotare l’Unione di una costituzione .
Non vogliamo ripercorrere l’intenso e talvolta aspro dibattito del quale la stessa Consulta, come si dirà ha preso prontamente atto, rivedendo le posizioni assunte con l’obiter di fine 2017 ( ). Vorremmo solo notare che dal punto di vista dei giudici comuni del lavoro il sistema antistoricamente “etnocentrico” (a parere di chi scrive) di tutela dei diritti sociali fondamentali voluto dalla Consulta nell’obiter condurrebbe però a conseguenze piuttosto assurde. Pur dichiarando la Consulta che oggetto della propria precisazione è il caso della cosidetta doppia pregiudizialità cioè di una violazione da parte di una norma contemporaneamente della Costituzione italiana e della Carta di Nizza (lasciando inalterato il “sistema Simmenthal” di disapplicazione, ricorrendone i presupposti tramite direttive ) non si considera che le direttive sono le fonti delle norme della Carta la quale, solo eccezionalmente, si applica direttamente ma nella stragrande maggioranza dei casi opera come strumento interpretativo del diritto dell’Unione secondario (principio a lungo affermato dalla Corte di giustizia anche per le direttive antidiscriminatorie che darebbero attuazione all’art. 21). Quindi l’obbligo di ricorrere alla Consulta dovrebbe riguardare anche gli ordinari casi nei quali il giudice comune chiede all’organo che detiene il monopolio dell’interpretazione del diritto dell’Unione quale sia l’interpretazione di una disposizione di una direttiva alla luce della Carta (che è il parametro di legittimità costituzionale pertinente), valutazione che non può essere sostituita con quella della Consulta. Mettere in gioco le norme della Carta dei diritti implica necessariamente accettare il giudizio dei Giudici del Lussemburgo anche se si tratta di una mera interpretazione (di natura costituzionale ) di fonti secondarie.
Pertanto la mossa della 269 travalica, e di molto, le intenzioni dichiarate e vuole requisire in capo alla Consulta ogni questione nella quale si discuta (anche implicitamente) del contenuto dei diritti sociali fondamentali (comunemente riconosciuti in Costituzione e nel Testo di Nizza) o anche di bilanciamento con altri diritti. Si paralizzerebbe così l’obiettivo primario della Carta di realizzare una tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali, a cominciare da quelli socio-economici cui la Carta conferisce uno statuto equiparabile a quelli di mercato, che interessi l’intera comunità dei cittadini europei ( e dei residenti legali nei suoi territori). Anche volendo ritenere che la protezione giudiziaria tramite direttive sia rimasta immutata comunque verrebbe realizzato un paradossale effetto di decostituzionalizzazione in quanto, pur di accedere alla Corte di giustizia dalla giurisprudenza più innovativa di quella nazionali sulle materie ormai di competenza dell’Unione ( discriminazione, lavori atipici, orario e riposi, trasparenza rapporto di lavoro etc.), le parti (ed anche i giudici) potrebbero essere dissuasi dall’invocare le disposizioni della Carta di Nizza si da evitare l’imbuto dell’incidente di costituzionalità (fenomeno che si stava effettivamente determinando nei primi mesi successivi alla 269) . Né è apparso opportuno l’avere indicato in ogni caso la preferenza dell’incidente di costituzionale sul rinvio pregiudiziale laddove la norma sia priva di efficacia diretta in quanto in primo luogo spetta alla Corte di giustizia stabilire quale siano le norme dell’Unione che ne siano prove ed in secondo luogo perché spetta sempre alla Corte di giustizia stabilire se una norma violi il diritto dell’Unione ai fini dell’applicazione conforme e dell’eventuale risarcimento del danno sicché il principio affermato dalla Consulta semmai andrebbe rovesciato ( ). Forse, a parte le vivace reazioni alla 269 di gran parte della dottrina (giuslavorista e comunitarista sopratutto ), queste difficoltà applicative della 269, oltre alla pronta reazione della Corte di giustizia con la Global Starnet ( ), possono ben spiegare un diffuso disappunto dei magistrati italiani, in alcuni casi esplicitato dai giudici di legittimità ( ) , alle indicazioni della Consulta per giunta espresse in un obiter inaspettato da tutti in una decisione di inammissibilità, con modalità, quindi, molto peculiari.
Dopo lo “ sbandamento” dell’obiter del 2017 la Consulta ha precisato nelle decisioni n. 20 e 63 del 2019 che l’originario “deve”, in caso di contemporanea violazione della Carta di Nizza e della nostra Costituzione, adire per prima la Corte delle leggi,va interpretato nel senso del “può”, cioè che spetta al Giudice decidere quale delle due strade intraprendere per prima. Questa giusta assegnazione al potere di valutazione del Giudice nazionale quale Corte superiore interpellare prioritariamente appare sacrosanta visto che è questo Giudice a conoscere il caso e ad avere la responsabilità di offrire una risposta all’istanza di giustizia che è stata sottoposta alla sua competenza decisionale. Non da ultimo le rettifiche della Consulta consentono di ritenere il nostro sistema coerente con quello sovranazionale come precisato dalla Corte del Lussemburgo nella Global Starnet.
Sarebbe stato più opportuno, anche se mi rendo conto che rimane un tabù per la Consulta, che si fosse computo un vero e proprio revirement o comunque una rettifica più netta in modo da evitare ripensamenti o recuperi (anche parziali) del controverso obiter. In una recente e piuttosto eclatante decisione della Corte di giustizia in tema di applicabilità diretta del principio di proporzionalità delle pene (o di sanzioni amministrative a queste assimilabili secondo i noti criteri della giurisprudenza Engel della Corte di Strasburgo) dell’8 marzo 2022 (C-205,NE) la Corte del Lussemburgo ha avuto il coraggio di ritrattare una propria recente decisione ( ) consegnando ai giudici nazionali l’indicazione di disapplicare (parzialmente) normative nazionali che, anche nelle sanzioni edittali minime, appaiano violative del principio di proporzionalità- come stabilito nelle due Carte dei diritti europee- rideterminando direttamente una pena equa. Proprio nell’evidenziare la problematicità dell’applicazione di questa decisione (che lascerebbe troppo campo alla discrezionalità dei giudici in una certa tensione con il principio di legalità) un componente molto autorevole della Consulta ha sollecitato i giudici italiani a non seguire questa indicazione della Corte di giustizia e quindi, a sollevare un incidente di costituzionalità con un richiamo alla 269 del 2017 ( ). Talvolta la dottrina ( ) o anche qualche isolata decisione giurisdizionale interna ancora si riferiscono al metodo di scelta nel caso di doppia pregiudizialità indicato nel 2017 come vincolante (mentre il saggio di Viganò sembra prospettarlo come opportuno) . In altri termini non vorremmo che l’obiter (più volte ritrattato in tante decisioni) costituisse una sorta di “ passato che non passa” offrendo una sponda per continuare a pensare (anche se oggi con opinioni minoritarie) che, di fronte ad una “ questione di diritto dell’Unione” che coinvolge la Carta e le sue fonti nel diritto secondario, sia legittimo mantenere una priorità del punto di vista del diritto costituzionale nazionale. Tanto più- come ora diremo- che la Consulta, in una serie di decisioni, ha offerto un’altra narrazione ed un’altra ispirazione ricostruttiva, espresse proprio in campo sociale per il rapporto tra le Corti, che interpreta- ci pare- al meglio il processo di integrazione tra fonti e tra giudici di diverso livello (secondo una logica pre-federale).

4. La doppia pregiudizialità in una logica collaborativa (art. 4.2 TUE) . Come ricordavamo le due decisioni della Consulta 20 e 63 del 2019 hanno portato a una soluzione “permissiva” della questione della doppia pregiudizialità che porta il giudice nazionale a decidere quale strada percorrere: è sorta così una terza via “agnostica” che vorrebbe praticare contestualmente la cosidetta doppia pregiudizialità attivando le due strade contemporaneamente verso Roma e verso il Lussemburgo che, astrattamente parlando, non sembrerebbe in contrasto con i due sistemi, nazionale e sovranazionale. Questa linea “ mediana” non mi convince in quanto tende a drammatizzare il conflitto tra Corti superiori che vengono investite nello stesso momento di una questione di rilevanza costituzionale senza dare tempo all’una o all’altra di meditare termini e modi di soluzione della controversia; inoltre deresponsabilizza il Giudice nazionale che deve,invece, sforzarsi di individuare ( ) quale sia il canale di maggior pertinenza da percorrere, in linea con i Trattati ed in particolare con l’art.2.2 TFUE che per i settori a competenza condivisa ricorda che gli stati laddove il legislatore comunitario abbia esercitato la competenza prevista possono legiferare solo nei settori non coperti dall’Unione e dopo che questa ha dichiarato di cessare il proprio intervento: il contesto sovranazionale è, quindi, giuridicamente prioritario perché così stabilito dai Trattati . Mi sembra che oggi la Corte costituzionale fornisca indicazioni importanti a forte impronta “ cooperativa” per orientare la scelta, senza opportunamente dare dei diktat al giudice ordinario che- in presenza di questioni di diritto dell’Unione- agisce peraltro come organo del sistema giudiziario multilivello. La Corte con l’ordinanza n. 182 del 2020 ha sottolineato in primo luogo che il tema della dedotta discriminazione dei migranti dall’accesso alle prestazioni familiari aveva una dimensione indubbiamente paneuropea: << l’incertezza, che è necessario dirimere in maniera sollecita, è tanto più grave in quanto riguarda sia il settore nevralgico della politica comune dell’immigrazione dell’Unione europea nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sia il tema della parità di trattamento tra cittadini dei paesi terzi e cittadini degli Stati membri in cui soggiornano, che di tale politica rappresenta elemento qualificante e propulsivo>>. Ed ha aggiunto che
<<in un campo segnato dall’incidenza crescente del diritto dell’Unione, non si può non privilegiare il dialogo con la Corte di giustizia, in quanto depositaria del <<rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati>>(art. 19 paragrafo 1 del Trattato sull’Unione europea>>. Il divieto di discriminazione arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia, salvaguardati dalla Costituzione italiana(artt. 3 primo comma, e 31 Cost.), devono, difatti, essere interpretati anche alla luce delle indicazioni vincolanti offerte dal diritto dell’Unione europea (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.). Sulla portata e sulla latitudine di tali garanzie, che si riverberano sul costante evolvere dei precetti costituzionali, in un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione, si concentrano le questioni pregiudiziali che in questa sede si ritiene di sottoporre al vaglio della Corte di giustizia>>.
Ancora nella sentenza n. 254 del 2020 (che ha concluso il doppio rinvio contestuale operato dalla Corte di appello di Napoli su un licenziamento collettivo) ha evidenziato che
<<come questa Corte ha ribadito di recente (sentenze n. 63 e n. 20 del 2019 e ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019), l’attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate – ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata. A tale riguardo, non è senza significato che l’art. 19, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE)… consideri nel medesimo contesto – così da rivelarne il legame inscindibile – il ruolo della Corte di giustizia, chiamata a salvaguardare «il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati» (comma 1), e il ruolo di tutte le giurisdizioni nazionali, depositarie del compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (comma 2)>> (punti 2.1, 2.2.).
Non a caso la recente sentenza del 6 ottobre 2021 Consorzio italian management, C- 561/19 sull’obbligo del rinvio pregiudiziale per i giudici di ultima istanza, ai casi consolidati nella cosidetta giurisprudenza Cilfit, aggiunge la valutazione dell’interesse “europeo” ad una pronuncia anche quando in uno stato membro appaia consolidata una certa interpretazione della norma sovranazionale (valutazione che la Consulta sembra aver fatto propria nella citata ordinanza n. 182).
Il cerchio sembra chiedersi con la sentenza di inammissibilità n. 67/2022 su incidente di costituzionalità della Corte di cassazione che, dopo aver disposto rinvio pregiudiziale riteneva di non potere disapplicare la norma interna in quanto priva di efficacia diretta. La Consulta dopo aver ribadito, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia che trattandosi di norma discriminatoria la diretta applicabilità può essere raggiunta dal Giudice nazionale rimuovendo la discriminazione osserva (punto n. 11) che
“ il principio del primato del diritto dell’Unione e l’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE, costituiscono quindi l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali tenute insieme da convergenti diritti ed obblighi. Questa Corte ha costantemente affermato tale principio, valorizzandone gli effetti propulsivi nei confronti dell’ordinamento interno. In tale sistema il controllo accentrato di costituzionalità, configurato dall’art. 134 Cost. non è alternativo ad un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo”.
Finalmente si accenna ad un sistema complessivo fatto di precisi obblighi e doveri che collegano l’interazione tra le Corti, certo ogni volta da ricostruire e da ribadire ma che supera la tesi (sottesa dalla 269 ) della contrapposizione tra fonti costituzionali e/o tra le due Carte, nonché il suo corollario dell’ illegittimità di un controllo diffuso di attuazione del diritto UE. Spetta quindi anche al giudice ordinario partecipare pienamente a questa ricostruzione del “sistema” ( ).
Il mutamento di paradigma (che forse ripristina la tradizionale fedeltà europea della Consulta) giova sottolineare si è fatto strada con decisioni in ambito sociale (alcune delle quali adottate dopo un confronto diretto tra la Corte delle leggi e la Corte di giustizia), il che testimonia della estrema vitalità in questo settore del rinvio pregiudiziale.

5.Possibili evoluzioni Molto brevemente vorrei sintetizzare alcuni punti sui quali sarà interessante seguire come si svilupperà il confronto suscitato dai rinvii pregiudiziali. Il primo riguarda i poteri del giudice ordinario nel dare attuazione al diritto dell’Unione sulla base, eventualmente, delle indicazioni della Corte di giustizia. La dottrina ( ) ha messo già in rilievo come, anche come conseguenza dell’emergere in alcune Corti di vertice di posizioni di contestazione del primato del diritto dell’Unione, in certi casi come ricostruito dalla Corte di giustizia, quest’ultima abbia preteso un controllo più stretto sulla giurisprudenza nazionale come provato da ultimo dall’avere imposto alle Corti di ultima istanza di motivare laddove non dispongano il rinvio pregiudiziale ed anche di valutare, come detto, in questa prospettiva la caratura “europea” della questione. Per contro la Corte UE è divenuta molto più netta nel lasciare spazi e poteri al giudice nazionale nel completamento del processo di adeguamento del diritto nazionale a quello sovranazionale cercando il più possibile di captarlo in un processo decisionale integrato tra più dimensioni costituenti, come detto, un unico sistema giudici. Ossessivamente la Corte ripete che spetta al solo giudice ordinario l’interpretazione delle norme interne (la cui compatibilità con il diritto sovranazionale viene espressa a domanda del giudice remittente solo in via ipotetica restando sotto la responsabilità -anche disciplinare- di quest’ultimo il definitivo accertamento) nonché la ricostruzione dei fatti oggetto del giudizio. Tuttavia se queste precisazioni sono ribadite continuamente, in alcune recenti sentenze- di Grande sezione- la Corte è tornata a premere sul giudice nazionale perché faccia uso dell’insieme dei suoi poteri, anche d’ufficio, per realizzare l’effettività del diritto dell’Unione senza proteggersi dietro decadenze processuali, lacci o laccioli formalistici del diritto interno che impediscano l’esame delle questioni che riguardano l’avvenuta violazione o meno delle norme sovranazionali. La prima l’abbiamo già ricordata ed è quella dell’8 Marzo 2022 (Grande sezione) su sanzioni e principio di proporzionalità delle pene, NE,che invita il giudice ordinario se del caso a disapplicare una norma interna che, recependo una direttiva, stabilisce pene (o sanzioni amministrative a queste assimilabili) contrarie al principio di cui all’art. 49. 3 della Carta dei diritti di applicazione diretta, procedendo direttamente alla riparametrazione della pena o sanzione. La seconda e’ quella (Grande sezione) dell’8 novembre 2022, C-704/21 e c-39/21 che in tema di in vista di espulsione (o di trasferimento in altro paese membro) di migranti irregolari invita il giudice nazionale a verificare anche d’ufficio la persistenza dei requisiti procedurali e sostanziali che legittimano il trattenimento delle persone anche su profili non dedotti nell’atto di impugnazione del provvedimento. Ancora le 5 sentenze emesse tutte il 22 maggio 2022 sulle clausole vessatorie dei contratti bancari in violazione delle norme sovranazionali di tutela dei consumatori (sentenze nella causa C-600/19 Ibercaja Banco, nelle cause riunite C-693/19 SPV Project 1503, C-831/19 Banco di Desio e della Brianza e A., e nelle cause C-725/19 Impuls Leasing România e C-869/19 Unicaja Banco) che hanno escluso il limite (per l’accertamento di merito per il giudice nazionale) del giudicato implicito se riferito a provvedimenti non impugnati che non hanno esaminato in alcun modo il rispetto delle norme europee, questione piuttosto complessa che è stata rimessa alle sezioni unite della Corte di cassazione ( ).
Sebbene nessuna di queste decisioni riguardi il settore sociale da tempo il tema degli ostacoli processuali interni alla effettività della tutela per violazione del diritto dell’Unione è oggetto di attenzione processuale basterà a pensare alla giurisprudenza di legittimità sul danno comunitario in caso di abuso di reiterazione del contratto a termine e principio della prova del danno. Recentemente la Corte di cassazione (sezione lavoro), per applicare i principi fissati dalla Corte di giustizia nell’ultima giurisprudenza sui contratti di lavoro interinale che stabiliscono il presupposto della temporaneità comunque delle missioni, ha conteggiato anche i contratti non impugnati tempestivamente, ritenendo in sede di interpretazione autentica, che la mancata impugnazione non fosse d’ostacolo all’accertamento del carattere abusivo dei detti contratti nel loro complesso perché mancanti del carattere temporaneo delle prestazioni, visto che erano perdurati per anni ( ). La Corte di legittimità, annullando con rinvio, ha anche ricordato che in sede di interpretazione conforme il giudice nazionale è tenuto a ricercare (secondo la cosidetta giurisprudenza Pfeiffer) se esistano nell’ambito dell’ordinamento interno norme che siano in grado di realizzare la dovuta conformazione di quest’ultimo al diritto dell’Unione che ha identificato, trattandosi di violazione di norme imperative, negli artt. 1344 C.C. in combinato disposto con l’art. 1418. Ancora non vi sono riscontri, che potrebbero essere molto rilevanti, in campo sociale della sentenza della Corte di giustizia Thelen Technopark ( ), molto contestata, per la quale non sussiste un obbligo di disapplicazione di una disposizione nazionale laddove la norma europea sia priva di efficacia diretta ma sia possibile farlo per il giudice nazionale sulla base del diritto interno di non facile interpretazione ( ). Infine che ruolo potranno avere i giudici comuni attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale nella difesa anticipata dei “valori” dell’Unione ( ex art. 2 TUE) ed in particolare di quelli a carattere sociale? Le due sentenze gemelle della Corte di giustizia contro Polonia ed Ungheria del 16 febbraio 2022 (rispettivamente, C-157/2021 ed Ungheria C-156/2021) sul regolamento di condizionalità del 2020 offrono sentieri interessanti: in particolare in quella contro la Polonia si afferma
“occorre anzitutto ricordare che i valori fondanti dell’Unione e comuni agli Stati membri, contenuti nell’articolo 2 TUE, comprendono quelli del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, in una società caratterizzata in particolare dalla non discriminazione, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini…. Il preambolo della Carta ricorda, in particolare, che l’Unione si basa sui principi di democrazia e dello Stato di diritto e riconosce i diritti, le libertà e i principi enunciati nella stessa Carta. Gli articoli 6, da 10 a 13, 15, 16, 20, 21 e 23 di quest’ultima precisano la portata dei valori della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza, del rispetto dei diritti umani, della non discriminazione e della parità tra donne e uomini, contenuti nell’articolo 2 TUE. L’articolo 47 della Carta e l’articolo 19 TUE garantiscono in particolare il diritto a un ricorso effettivo e il diritto a un giudice indipendente e imparziale precostituito per legge, per quanto riguarda la tutela dei diritti e delle libertà garantiti dal diritto dell’Unione. Inoltre, gli articoli 8 e 10, l’articolo 19, paragrafo 1, l’articolo 153, paragrafo 1, lettera i), e l’articolo 157, paragrafo 1, TFUE precisano la portata dei valori di uguaglianza, di non discriminazione e della parità tra donne e uomini e consentono al legislatore dell’Unione di adottare norme di diritto derivato dirette ad attuare tali valori”.
Ebbene qui la Corte del Lussemburgo ricorda che l’art. 47 della Carta è servente anche ad altri valori dell’Unione che trovano attuazione attraverso norme di diritto derivato. Sono valori ex art. 2 anche la non discriminazione, la solidarietà e la parità uomo-donna che l’art. 2 ultima parte definisce come tratti caratterizzanti la società europea visto che nel passaggio di prima sono citati espressamente come valori non discriminazione e parità tra donne e uomini nella loro correlazione con la Carta che non figurano nel primo elenco ma nel secondo sui tratti caratterizzanti la società europea (quindi anche la solidarietà). Ma c’è molto di più: la stessa Corte ricorda alcune norme “ponte” dei Trattati che legittimano il diritto derivato nelle rispettive materie e l’applicabilità della Carta in caso di violazione. Si tratta di un collegamento che richiama quello già elaborato per lo stato di diritto per cui plurime violazione del diritto antidiscriminatorio, ad esempio, dell’Unione e del criterio parità uomo- donna (fotografato dall’art. 157 TFUE di applicabilità diretta) potrebbero rilevare anche sotto il profilo della violazione dei valori ex art. 2 e portare a quelle conseguenze drastiche previste dall’art. 7 TUE. La Corte sembra così affermare che i valori europei costituiscono nel complesso un sistema che si collega a quello disegnato nella Carta di Nizza. La stessa Corte ricorda alcune norme “ponte” dei Trattati che legittimano il diritto derivato nelle rispettive materie e l’applicabilità della Carta in caso di violazione. Si tratta di un collegamento che richiama quello già elaborato per lo stato di diritto per cui plurime violazione del diritto antidiscriminatorio, ad esempio, dell’Unione e del criterio parità uomo- donna (fotografato dall’art. 157 TFUE di applicabilità diretta) potrebbero rilevare anche sotto il profilo della violazione dei valori ex art. 2 e portare a quelle conseguenze drastiche previste dall’art. 7 TUE.
Su queste piste la dottrina pro-labour dovrebbe ingegnarsi (costruendo collegamenti originali tra diritto sovranazionale, applicazione della Carta e difesa dei valori), così come hanno saputo fare i costituzionalisti che hanno trovato il modo, attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia, di irradiare i principi dello stato di diritto come collante del sistema integrato tra Unione e stati membri ( ).

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