Testo integrale con note e bibliografia

1) La “grande dicotomia” tra subordinazione ed autonomia nei diritti nazionali europei: spunti di riflessione a partire dall’analisi di Adalberto Perulli.
Adalberto Perulli nel suo ultimo saggio (Oltre la subordinazione. La nuova tendenza espansiva del diritto del lavoro, Giappichelli, 2021), raffigura un poliedrico affresco su storia, postura attuale e destino futuro della “grande dicotomia” tra subordinazione ed autonomia su cui la rappresentazione fordista del lavoro tradizionalmente si fonda. Dall’analisi gius-economica emergono forme ibride, intermedie di lavoro che dal basso hanno messo in discussione la summa divisio dogmatica tra subordinazione e autonomia. La rivoluzione digitale e l’espansione della c.d. Gig economy, “in bilico tra due modelli” , hanno riproposto con urgenza il tema della tutela delle forme di lavoro “grigie”, spingendo i legislatori europei verso un “neo-interventismo” diretto a fornire una base minima di garanzie a favore dei lavoratori autonomi delle piattaforme.
I modi e i limiti con cui le definizioni di “lavoratore” elaborate nei sistemi giuridici dell’Unione Europea, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e della Carta Sociale Europea esercitano un effetto conformativo rispetto alle nozioni di “subordinazione” appartenenti ai diversi ordinamenti nazionali fisiologicamente mutano in ragione delle caratteristiche strutturali di ciascun diritto interno . Nel corso dell’ormai ultrasecolare processo di industrializzazione, i sistemi giuridici occidentali hanno costruito nozioni di lavoro subordinato funzionali all’esigenza di introdurre all’interno della relazione lavorativa uno statuto protettivo della parte debole del rapporto, concepito quale insieme coerente di strutture giuridiche capaci di correggere il naturale disequilibrio immanente alla relazione lavorativa. Il diritto del lavoro, per sua natura, è funzionalmente ordinato alla ricomposizione della sostanziale asimmetria che contrappone parti diseguali. Il diritto eurounitario non condivide, sempre e comunque, questo specifico orientamento funzionale, il quale anzi varia a seconda che l’azione del legislatore dell’Unione, in una determinata materia, sia teleologicamente volta a proteggere l’interesse soggettivo del lavoratore alla tutela dei propri diritti piuttosto che il gioco della libera concorrenza nel mercato unico europeo, presidiata, tra le molteplici disposizioni, dagli artt. 45 e 101 TFUE. Pertanto, ogniqualvolta il diritto eurounitario stabilisca una disciplina normativa che abbia come destinatario il “lavoratore”, giammai può darsi per scontato che essa sottenda una ratio protettiva di costui nel rapporto di lavoro o nella contesa con il mercato. È invece necessario investigare quale sia il preciso fine politico che il legislatore dell’Unione intenda perseguire in quel preciso contesto regolativo.
Strettamente legata alla funzione protettiva che, nell’Occidente contemporaneo, anima gli ordinamenti lavoristici, è l’idea dell’indisponibilità del tipo contrattuale. L’assunto teorico fondamentale è che la subordinazione esiste nei fatti, cosicché si esclude che le parti, ma anche lo stesso legislatore, abbiano facoltà di impedire l’applicazione del diritto che è proprio del rapporto ontologicamente subordinato. Per verificare se una determinata relazione negoziale debba essere qualificata alla stregua di lavoro “subordinato”, l’interprete non può fondare il proprio convincimento semplicemente sulle clausole formali del contratto, né sul nomen iuris scelto dalle parti, e nemmeno sulla volontà negoziale così come formalizzata nel contratto, bensì sulle concrete modalità esecutive della prestazione lavorativa.
Le diverse tradizioni giuridiche nazionali condividono il decisivo ruolo ricostruttivo svolto dall’analisi giurisprudenziale, la quale un po’ ovunque ha messo a punto teorie di qualificazione del rapporto di lavoro tutte ispirate alla tecnica dell’accertamento per “indici sintomatici”. Premessa l’omogeneità di tale contesto sistematico di fondo, alcuni ordinamenti si distinguono per l’esistenza di una definizione legislativa di subordinazione, ed eventualmente di ulteriori tipi normativi, mentre altri sono privi qualsivoglia punto di riferimento normativo.
Anche nell’ordinamento italiano, la formalizzazione normativa dell’eterodipendenza-eterodirezione quale elemento strutturale della subordinazione non ha impedito l’imperiosa affermazione giurisprudenziale di una teoria ricostruttiva “per indici sintomatici”, la quale oggi rinnova la propria potenzialità euristica a fronte della sopravvenuta necessità di distinguere la subordinazione, tradizionalmente intesa, dagli ulteriori tipi normativi introdotti ex novo e rimodulati dal legislatore a partire dal 2015.
Anche il sistema inglese conosce una nozione normativa di lavoratore, declinata secondo il modello tripartito dell’employee, del worker e del self-employed. Si tratta in questo caso di definizioni che, sotto il profilo contenutistico, risultano meno caratterizzate rispetto alla nozione di lavoratore subordinato fissata dall’art. 2094 c.c.. Il paragrafo 1 della sezione 230 dell’Employment Rights Act del 1996 definisce l’“employee”, in forma sostanzialmente tautologica, come la persona fisica che sia parte di una relazione ovvero di un contratto di “employment”, senza tuttavia precisare cosa debba intendersi per “contract of employment”. Quest’ultimo concetto è a sua volta definito, con percorso circolare, come “contract of service or apprenticeship”. La legislazione inglese rifugge da un’esauriente definizione anche del worker, il cui status è normativamente concettualizzato, in termini negativi, come la persona fisica che sia parte di un rapporto di lavoro che preveda l’esecuzione in forma personale di una qualunque prestazione o servizio in favore di una controparte che non sia cliente o consumatore della professione o del business esercitato da tale persona.
Non a caso, anche nell’ordinamento inglese ha giocato un ruolo cruciale l’attività di ricostruzione sistematica svolta dalla giurisprudenza. A partire dall’originaria tecnica del “control test”, specificamente diretta verificare l’esistenza e le eventuali modalità di esercizio del “controllo” operato sul lavoratore, la giurisprudenza inglese ha progressivamente ampliato il campo della propria indagine ad una serie di elementi rivelatori ulteriori (il cosiddetto “multiple test”) i quali, nel loro insieme, presentano tratti di forte similitudine rispetto agli “indici sintomatici” affermatisi altrove.
Nel celebre caso Ready Mixed Concrete, gli autisti impiegati in qualità di self-employed independent contractors, ma proprietari del mezzo di trasporto, chiedevano il riconoscimento dello status di employees. Il giudice inglese, valorizzando il dato della proprietà dello strumento di lavoro essenziale allo svolgimento del servizio, ha escluso la sussistenza di un rapporto di dipendenza. In altri casi, ha assunto un ruolo decisivo il grado di “personalità” della prestazione svolta dal lavoratore, a seconda che quest’ultimo avesse o meno facoltà di farsi sostituire da un altro lavoratore di propria scelta, ovvero che l’individuazione del sostituto di un istruttore di ginnastica e l’adempimento dell’obbligo di pagamento del relativo corrispettivo gravasse sul centro sportivo piuttosto che sul lavoratore sostituito. Ne risulta oggi delineato un ricco quadro di indici rivelatori della natura sostanzialmente dipendente del rapporto di lavoro, quali il grado di controllo esercitato sulle modalità esecutive della prestazione, l’esistenza in capo al destinatario della prestazione di un obbligo di “dare lavoro” al lavoratore, il carattere più o meno personale della prestazione, la titolarità degli strumenti di lavoro, il regime fiscale e previdenziale applicato al rapporto, la facoltà riconosciuta al lavoratore di offrire le proprie prestazioni anche ad altri eventuali committenti, l’allocazione delle spese di esecuzione della prestazione lavorativa, il regime delle ferie.
In altri ordinamenti, quali quello francese e quello tedesco sino al 2017 , non esiste alcuna definizione legislativa di subordinazione o di lavoratore dipendente (employé/salarié, Arbeitnehmer). In Francia, il nucleo caratterizzante il vincolo giuridico della subordinazione è stato individuato per mezzo di una sequenza di pronunce miliari (Bardou, Labbane, Société Générale ), riassumibile nell’esistenza in capo ad un employeur dei poteri di impartire tanto direttive generali quanto ordini puntuali, di controllare l’esecuzione della prestazione lavorativa e di sanzionare gli inadempimenti del lavoratore.
Vi sono alcuni ordinamenti in cui lo scarto tra lavoro subordinato e lavoro autonomo costituisce, mutuando l’efficace espressione di Auzero-Dockés, une frontière brutale, ed altri ordinamenti che invece conoscono figure intermedie di lavoratore , quali il worker del sistema inglese, nonché i tipi del collaboratore “organizzato” ed del lavoratore in “velocipede”, introdotte rispettivamente dall’art. 2 e dall’art. 47 bis del decreto legislativo n. 81/2015.
Alcuni ordinamenti sono poi accomunati dal fatto di riconoscere un “bloc de constitutionnalité”, vale a dire un nucleo costituzionalmente indisponibile di valori fondanti del quale costituiscono nerbo imprescindibile taluni diritti sociali ed economici, cui non solo le parti negoziali e la pubblica amministrazione nell’esercizio dei propri poteri imperativi, ma nemmeno il legislatore può derogare. L’esistenza di tale “blocco” si giustifica, sul piano teorico, sull’assunto che il rapporto di lavoro dipendente è innanzitutto un “fatto”, prima ancora che una qualificazione normativa, il quale come tale non può che imporsi, sul piano storico-materiale, tanto sulla volontà politica del legislatore, quanto sulla volontà negoziale delle parti. Al contempo, è diffuso il paradosso che nessuna di tali carte costituzionali ne formalizza la definizione, e l’elaborazione di essa finisce per essere inesorabilmente affidata all’iniziativa del legislatore ordinario, ed in ultima istanza alla ricostruzione giurisprudenziale, la quale occupa il ganglio terminale del processo di nomopoiesi.
È interessante rilevare, ciononostante, la sostanziale convergenza di risultati interpretativi cui le rispettive giurisprudenze nazionali sono pervenute nella selezione degli indici fattuali ritenuti particolarmente sintomatici di uno stato di subordinazione giuridica, quali l’integrazione della prestazione lavorativa all’interno di un servizio organizzato dall’imprenditore, il trattamento del lavoratore alla stregua di lavoratore subordinato in ragione del riconoscimento di congedi retribuiti, la consegna di buste paga, l’iscrizione al regime generale di sicurezza sociale, la predeterminazione del luogo e dell’orario di lavoro, la prestazione del lavoro resa in forma personale ed esclusiva, la messa a disposizione degli strumenti di lavoro, la forma della remunerazione, l’eventuale vincolo di esclusiva .

2) Le nuove difficoltà dogmatiche: il lavoro in piattaforma.
A fronte delle multiformi caratteristiche strutturali della subordinazione nei diversi ordinamenti nazionali, l’evoluzione dei lavori, e in particolare le innovazioni introdotte nel tessuto produttivo dalla gig-economy, anche digitale, hanno dato nuova enfasi ad alcune criticità insite nella teoria della subordinazione giuridica. Tanto che l’esigenza teorica e pratica di delineare più adeguati approcci di ricostruzione sistematica ha rivitalizzato in dottrina la valenza concettuale ed assiologica dello stato di dipendenza economica quale criterio discretivo funzionale all’esigenza di individuare la parte sostanzialmente debole del rapporto di lavoro, valorizzandone la rilevanza “sovratipica”. Tale prospettiva ricostruttiva rappresenta uno degli assi portanti dell’analisi sul superamento della “grande dicotomia” sviluppata da Adalberto Perulli in Oltre la subordinazione . La stessa sentenza Bardou, nel 1931, già faceva menzione della “debolezza ovvero dipendenza economica” quale indice sintomatico dell’inferiorità del prestatore di lavoro.
La spinta alla giuridificazione del lavoro in piattaforma digitale ha fatto emergere tre diffuse criticità negli ordinamenti nazionali.
In primo luogo, la pratica giurisdizionale dimostra che il lavoro in piattaforma digitale pone il giudice dinanzi a peculiari difficoltà nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini della qualificazione del rapporto. Come noto, Uber, Deliveroo, Foodora, Take Eat Easy, Plimco - solo a citarne alcuni - non funzionano tutti allo stesso modo. Le modalità di prestazione dei diversi servizi, dal trasporto di persone effettuato dal driver di Uber alla consegna di cibi del fattorino ciclomunito di Foodora, variano sensibilmente da piattaforma a piattaforma, a seconda che i prestatori incaricati della fornitura del servizio abbiano o meno la facoltà di scegliere i giorni e gli orari di lavoro o la libertà di accettare o rifiutare singole corse o consegne, siano o meno tenuti a seguire un determinato itinerario prestabilito dal gestore della piattaforma anziché sceglierlo secondo la propria convenienza, assoggettati a forme di sanzione in caso di rifiuto della singola corsa, consegna o prestazione, controllati per mezzo di geolocalizzazione, sottoposti ad un disciplinare aziendale rigido anziché ricevere indicazioni orientative o comunque facoltative. Tale eterogeneità esclude, di per sé sola, che la ratio decidendi posta a fondamento di una decisione giudiziaria riguardante una certa piattaforma possa essere automaticamente estesa alla soluzione di questioni qualificatorie concernenti piattaforme differenti.
Nemmeno sorprende che la descrizione del servizio Uber effettuata nel 2018 dal Tribunale di Torino, il quale ha escluso l’acquisizione di prova sufficiente ad accertare l’esistenza di un potere di impartire ordini puntuali, di controllo e di sanzione disciplinare, sia sostanzialmente diversa dalla descrizione del medesimo servizio rinvenibile nella sentenza pronunciata l’anno successivo dalla Corte d’Appello di Parigi, la quale ha accertato, analogamente a quanto fatto anche dal Tribunale di Valencia, l’esistenza di un faisceau suffisant d’indices de subordination. Tuttavia appartiene alla comune esperienza il grado di assoluta standardizzazione che caratterizza i servizi erogati dalle varie piattaforme nei diversi paesi in cui esse operano.
Del resto, ogni decisione giudiziaria è diretta a risolvere un caso particolare, il quale è irreversibilmente condizionato sia dall’esaustività delle allegazioni difensive articolate delle parti, sia dall’univocità del quadro probatorio acquisito nel corso dell’istruttoria. Nemmeno si può trascurare che i regimi processuali che stabiliscono le regole di accertamento e di valutazione dei fatti variano da ordinamento a ordinamento. Si pensi al caso macroscopico dei sistemi processuali ove l’autorità giudiziaria dispone di poteri istruttori ufficiosi.
In secondo luogo, l’integrazione della prestazione lavorativa nelle organizzazioni produttive in piattaforma solleva peculiari problemi sotto l’ulteriore profilo della qualificazione giuridica, non sempre univocamente sistematizzabile . È nota la decisione con cui la Corte d’Appello di Parigi, dopo aver dettagliatamente descritto le modalità di esecuzione della prestazione da parte dei fattorini in bicicletta della piattaforma Take Eat Easy France, ha escluso il vincolo di subordinazione, sull’assunto che a costoro veniva riconosciuta, tra l’altro, la libertà di scegliere settimana per settimana i giorni di lavoro. La Corte di Cassazione francese, pronunciandosi sulla medesima vicenda, ha invece ritenuto che l’insieme degli elementi di fatto già presi in considerazione della Corte d’Appello dovessero essere diversamente ponderati. In particolare valorizzando il ruolo giocato sia dal controllo operato sui singoli fattorini per mezzo del sistema di geolocalizzazione, sia dall’esistenza di un potere di sanzione, ha sancito la natura subordinata del rapporto di lavoro.
Tali difficoltà di ricostruzione dogmatica sono ulteriormente enfatizzate negli ordinamenti nazionali che riconoscono tipi normativi “intermedi”. Ne costituisce dimostrazione pratica il fraintendimento in cui è incorsa la sentenza del Tribunale di Belo Horizonte nel punto motivazionale in cui ha dichiarato che Employment Law Tribunal di Londra avrebbe “allo stesso modo deciso” che i drivers di Uber sarebbero parti di una “tipica relazione di lavoro subordinato”, quando invece il tribunale inglese ha qualificato tali conducenti alla stregua non di employees, ma di workers, i quali per definizione sono esclusi dallo stato di subordinazione .
Analogamente, le decisioni assunte dal Tribunale di Torino, dalla Corte d’Appello e dalla Corte di Cassazione sul problematico caso dei riders Foodora Italia disvelano tre approcci dogmatici, oltre che soluzioni qualificatorie, completamente differenti tra loro .
Non contribuiscono certo a semplificare il quadro regolativo le incalzanti novelle legislative che, in taluni Stati, hanno ulteriormente complicato il quadro dogmatico, come avvenuto ad opera prima del decreto legislativo n. 81/2015, poi del decreto legge n. 101/2019, convertito in legge 2 novembre 2019, n. 128.
In terzo luogo, il quadro comparatistico è caratterizzato da eterogeneità non solo concettuali, ma anche linguistiche, le quali complicano le operazioni di ricostruzione dogmatica tanto in senso orizzontale, tra ordinamento e ordinamento, tanto in senso verticale nel rapporto di coordinamento dei diritti nazionali con l’ordinamento eurounitario. L’art. 3 della Direttiva 89/391/CEE sul miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori, nella parte in cui formalizza la propria definizione di “lavoratore”, ne rappresenta eloquente esempio. La versione francese dell’art. 3, identificando il “travailleur” come “toute personne employée par un employeur”, non solleva particolari dubbi di interpretazione. Risulta chiaro che l’ambito applicativo di tale disposizione, in virtù della specularità concettuale e semantica riscontrabile rispetto ai corrispondenti istituti di diritto francese, è diretto ad abbracciare il dominio proprio dell’emploi, vale a dire della subordinazione. Diversamente, la versione inglese della medesima disposizione non reca un significato altrettanto univoco. Essa definisce il “worker” come “any person employed by an employer […]”, e l’“employer” come “any […] person who has an employment relationship with the worker”. È evidente che tale norma, facendo uso dei termini “worker” ed “employer” per definire l’uno per mezzo dell’altro, se letta unilateralmente dall’angolo visuale del giurista di diritto inglese presenta un contenuto intrinsecamente contraddittorio, quasi il legislatore eurounitario intendesse sovvertirne la logica sistematica.

3) L’orientamento teologico del diritto UE: il vincolo conformativo secondo l’effetto utile.

Il quadro giuridico dell’Unione Europea non conosce un’unica nozione normativa di lavoratore. Essa si presenta anzi frammentata in una poliedricità definitoria che varia di volta in volta in funzione del settore di disciplina, e con essa l’orientamento fortemente teologico che connota la natura intima del diritto eurounitario.
Il principio di primato del diritto dell’Unione Europea impone agli Stati membri di garantire l’effettivo raggiungimento dei fini dell’Unione. L’adempimento di tale obbligo non solo abbraccia risultati fissati dalle direttive (art. 288 TFUE), ma attinge i fini politici concretamente perseguiti dalle istituzioni europee così come risultanti, ad esempio, dalle motivazioni su cui si fondano gli atti giuridici dell’Unione (art. 296 TFUE). L’art. 4, par. 3 TUE stabilisce che “gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione”. L’obbligo di adottare “ogni misura […] generale o particolare” vincola lo Stato in tutti i suoi organi istituzionali - legislativi, amministrativi e giurisdizionali - ad adottare qualsiasi misura effettiva, comprese quindi le decisioni giudiziarie le quali costituiscono, per antonomasia, “misura particolare” utile ad assicurare la conformità dell’ordine giuridico nazionale rispetto ai fini politici di volta in volta avuti di mira dall’Unione. Nell’ambito di tale quadro, l’obbligo di interpretazione conforme rappresenta uno strumento interpretativo-applicativo il quale consente, e al contempo impone, ai giudici nazionali di adottare ogni “misura particolare” a loro disposizione utile ad assicurare l’effetto conformativo rispetto al diritto dell’Unione.
Tale competenza interpretativa, correttamente intesa alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, implica l’attribuzione al giudice nazionale di un ruolo non sempre conciliabile con la tradizionale idea che concepisce l’interpretazione giuridica alla stregua di attività rigorosamente separata dalla sfera del policy making , come tale riservata alle autorità titolari del potere di indirizzo politico-amministrativo. Nel caso Pfeiffer la Corte si è pronunciata in merito alla conformità rispetto alla Direttiva 93/104, nella parte in cui fissa l’orario massimo di lavoro settimanale a 48 ore, della legge tedesca di recepimento la quale ha consentito, in taluni casi, di superare il limite fissato dalla Direttiva per mezzo di apposite pattuizioni contrattuali collettive. La Corte, all’esito del giudizio, ha invitato il giudice nazionale a interpretare il diritto nazionale, per quanto possibile, in modo da applicarlo in senso conforme rispetto agli obiettivi della Direttiva, così da garantire che quest’ultima sia pienamente efficace. Costituisce senz’altro un obiettivo perseguito dalla Direttiva quello di impedire il superamento dell’orario di lavoro massimo di 48 ore, senza eccezioni di sorta. È pertanto evidente che l’unica possibile interpretazione utile a garantire tale obiettivo è nella sostanza un’interpretatio abrogans di quella disposizione legislativa nazionale che consente alla contrattazione collettiva il superamento del limite. In altri termini, l’interpretazione secondo l’effetto utile richiede talora al giudice il compimento di un’attività la quale, nell’ottica dell’ordinamento costituzionale nazionale, potrebbe più propriamente appartenere al processo legislativo, piuttosto che alla sfera di attribuzioni proprie della funzione giudiziaria, con ogni possibile conseguenza anche in termini conflitto interno di attribuzioni tra poteri. Ciò vale particolarmente nei sistemi giuridici particolarmente legati alla tradizionale concezione della separazione dei poteri dello Stato di matrice illuministica, fondati sulla pietra angolare del primato della legge statutaria.
Effetti di simile impatto ordinamentale possono derivare anche dall’adempimento dell’obbligo gravante sugli Stati membri di stabilire rimedi giurisdizionali effettivi nei settori coperti dal diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 19 TUE, ed ora anche in virtù di quanto sancito dall’art 47 CDFUE. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha chiarito che per “Stati membri” devono intendersi non esclusivamente i legislatori nazionali, bensì ogni altra autorità che rappresenti lo Stato ed abbia il potere di adottare misure particolari, compresa quindi l’autorità giurisdizionale.
Non passa tuttavia inosservato che, in specialmente negli ordinamenti di civil law, il compito di stabilire il catalogo dei rimedi giudiziari per la protezione di un determinato diritto soggettivo è di regola compreso nella sfera di attribuzioni proprie del potere legislativo. Nel caso Pannon la CGUE, nell’interpretare l’art. 6 della Direttiva 93/13/CEE, ha stabilito che la necessità di riequilibrare la posizione sostanzialmente debole del consumatore impone ai giudici nazionali di valutare l’abusività di una clausola contrattuale di propria iniziativa ed anche in assenza di una specifica istanza giudiziale, e ciò nonostante la norma processuale interna non consenta di rilevare d’ufficio la questione ovvero preveda un termine di decadenza ad effetto preclusivo. Nella sentenza Sánchez Morcillo la Corte si è spinta oltre. Il diritto spagnolo riconosceva esclusivamente al creditore procedente - non anche, asimmetricamente, al consumatore debitore - un rimedio in opposizione avverso la decisione sfavorevole sull’incidente di esecuzione di determinati contratti bancari. Dando per la prima volta applicazione all’art. 47 CDFUE, la Corte ha stabilito che i giudici nazionali hanno l’obbligo di garantire ai consumatori una tutela effettiva, che nel caso di specie si traduce, in pratica, nell’assicurare un’interpretazione della legge spagnola utile a compensare la lacuna nel sistema di rimedi interni, e quindi sostanzialmente creativa.
Ciò spiega in che senso l’integrazione delle giurisdizioni nazionali nel sistema giuridico dell’Unione - l’elemento maggiormente federalizzato dell’ordinamento europeo - pone i giudici nazionali in una relazione del tutto privilegiata con il “sostrato” politico del diritto eurounitario, e chiarisce la rilevanza dell’impatto prodotto sul diritto interno dall’effetto conformativo che da esso promana.

4) Profili conformativi e profili selettivi delle definizioni eurounitarie di lavoratore.
Il vincolo conformativo originato dal diritto eurounitario produce sugli ordinamenti nazionali effetti certo penetranti, ma nettamente selettivi: non solo in quanto operanti nei soli settori del diritto interno costituenti attuazione del diritto dell’Unione, ma anche in quanto selettivamente orientati, entro tale perimetro, al perseguimento degli specifici fini avuti di mira dal legislatore eurounitario in ciascun settore di disciplina. Ciò deve essere tenuto particolarmente presente nell’analisi della nozione eurounitaria di “lavoratore”, la quale non trova un’espressa definizione all’interno dei trattati europei, e nemmeno nell’ambito del diritto derivato. Il diritto eurounitario non conosce una definizione generale di lavoro subordinato, e nemmeno uno statuto completo ed esaustivo di protezione del lavoratore subordinato. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha anzi elaborato una molteplicità di nozioni di “lavoratore”, ognuna delle quali chiamata ad operare nell’ambito di una precisa sfera regolativa. Se si assume quale criterio di sistematizzazione il particolare vincolo finalistico in funzione del quale le diverse nozioni eurounitarie di lavoratore sono costruite, esse risultano coagulate attorno a due poli concettuali: da un lato la definizione di lavoratore rilevante ai fini della tutela della libertà di circolazione all’interno dell’Unione (art. 45 TFUE), dall’altro lato la definizione di lavoratore quale destinatario di un particolare regime protettivo di diritti individuali.
Quanto al primo nucleo definitorio, il più antico, la Corte di Giustizia ha tradizionalmente affermato il principio secondo cui il termine “lavoratore”, in quanto strumentale alla tutela del principio fondativo della libera concorrenza nel mercato unico europeo, deve avere una portata comunitaria autonoma, la quale non ammette di essere definita semplicemente per mezzo di un rinvio alle definizioni legislative individuate da ciascuno Stato membro, bensì esige di essere demarcata sulla base di criteri identificativi obiettivi e autosufficienti. Se infatti la nozione di lavoratore dipendesse dalla scelta definitoria operata dai diritti interni, ciascuno Stato avrebbe nei fatti la possibilità di modificare il contenuto della nozione di “lavoratore” e di sottrarre, a proprio piacimento, certe categorie di soggetti alla sfera di protezione stabilita dai Trattati. L’art. 45 TFUE (così come già l’art. 48 TCE) resterebbero evidentemente sviliti nella propria portata applicativa, e le finalità dei trattati messe sotto scacco, se il contenuto di tale nozione potesse essere unilateralmente stabilito e modificato dal diritto interno di ciascuno Stato membro.
In tale campo, l’interesse soggettivo del lavoratore alla libera circolazione è tutelato in funzione per così dire riflessa, nel senso che lo scopo primario di tale settore del diritto eurounitario resta la protezione del mercato unico europeo, il quale “vive” delle sue quattro libertà fondamentali, di cui la libera circolazione nel mercato del lavoro costituisce elemento strutturale. Tale definizione di lavoratore è assistita da un grado di autonomia concettuale che potremmo definire assoluta, nel senso che essa è del tutto immune ad interferenze o compressioni esercitate dalle determinazioni politiche, eventualmente confliggenti, assunte dai legislatori nazionali.
Come verrà approfondito nel prosieguo, tale definizione ha subito un progressivo moto espansivo del proprio ambito applicativo, sino ad assumere il ruolo di polo concettuale attrattivo anche rispetto ad ambiti regolativi ulteriori. In un primo momento, essa è stata mutuata dalla giurisprudenza europea ai fini della qualificazione di “lavoratore” quale destinatario del diritto fondamentale alla parità di trattamento (artt. 21 e 23 CDFUE, artt. 2 TUE, artt. 10, 18, 19 e 157 TFUE nonché, a livello derivato, le Direttive 2000/78/EC, 2000/43/EC, 2004/113/EC, 2006/54/EC, oltre alle norme antidiscriminatorie particolari quale l’art. 4 della Direttiva 1999/70/EC e l’art. 4 della Direttiva 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale), nonché della disciplina eurounitaria di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Successivamente, è stata assunta quale generale criterio di riferimento ai fini dell’individuazione del campo soggettivo di applicazione del sistema di protezione dei diritti fondamentali dell’Unione, in particolare quelli sanciti dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Quanto al secondo nucleo definitorio, la Corte ha riconosciuto che la nozione di “lavoratore”, seppur autonoma, non è sempre univoca, in quanto varia a seconda dell’ambito di applicazione di volta in volta considerato. Ed infatti il legislatore dell’Unione, nel momento in cui - a partire dagli anni settanta - ha iniziato ad implementare le prime politiche sociali dirette alla creazione di uno statuto armonizzato di protezione del lavoratore, ha optato per un approccio coesivo soltanto parziale, nel senso che da un lato ha provveduto all’omogeneizzazione del regime regolativo proprio degli istituti protettivi di volta in volta disciplinati dalle diverse Direttive, dall’altro lato ha scelto di riservare alla discrezionalità degli Stati membri il compito di ritagliare una propria definizione di “lavoratore”. Per questa via è stata affidata agli ordinamenti interni l’individuazione dei presupposti soggettivi di applicazione degli istituti eurounitari di protezione.
Una strada analoga è stata percorsa anche dal legislatore europeo della sicurezza sociale, il quale ha collegato la definizione di “lavoratore”, quale soggetto destinatario della disciplina europea di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale, alla nozione di “persona assicurata” così come definita in base alle regole proprie di ciascun regime previdenziale nazionale (art. 48 TFUE, Regolamenti n. 1408/71 e n. 883/2004). Deve essere tuttavia demarcata, a quest’ultimo riguardo, la significativa differenza che distingue le Direttive di coesione, le quali sono dirette ad armonizzare negli Stati membri il contenuto delle tutele di cui gode il lavoratore, dal sistema eurounitario della sicurezza sociale, il quale provvede ad un mero coordinamento dei regimi nazionali, senza imporre vincoli circa i contenuti o i presupposti costitutivi dei diritti previdenziali riconosciuti da ciascuno Stato.

5) La definizione eurounitaria di lavoratore ai fini della libertà di circolazione.

La nozione di lavoratore elaborata dalla giurisprudenza della Corte Europea ai fini dell’individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione della libertà di circolazione è ciò che più si avvicina alla nozione di subordinazione per “indici sintomatici”, così come comunemente conosciuta nei sistemi giuslavoristici nazionali: la sentenza capostipite Lawrie-Blum del 1986 identifica quali elementi strutturali del rapporto di lavoro “la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione”. A partire da questa sentenza, la Corte di Giustizia ha costantemente fatto riferimento a questi tre criteri obiettivi di qualificazione del rapporto di lavoro, i quali devono trovare applicazione qualunque sia la qualificazione, eventualmente differente, attribuita dalle parti ovvero dal legislatore nazionale: a) la natura reale ed effettiva del servizio personalmente prestato dal lavoratore; b) l’esistenza di un potere di direzione della prestazione esercitato dal destinatario del servizio; c) la natura onerosa della prestazione.
Tale evidente assonanza definitoria, tuttavia, è più apparente che reale. In effetti, nel quadro delle tradizionali dogmatiche nazionali gli indici sintomatici della subordinazione sono immediatamente funzionali all’individuazione del vincolo di eterodipendenza-eterodirezione, nel quale sostanzialmente si risolve la struttura del rapporto di lavoro subordinato.
L’approccio della giurisprudenza della Corte di Giustizia, invece, è molto più flessibile. Per un verso, la Corte ricostruisce gli elementi strutturali della subordinazione secondo contenuti “leggeri”, tali da abbracciare categorie tipologiche connotate da un grado di autonomia incompatibile con il perimetro concettuale della subordinazione riconosciuta dalla generalità degli ordinamenti nazionali. Ciò è ben dimostrato dall’approdo cui è giunta la Corte nel caso italiano Iraklis Haralambidis ove il giudice del rinvio, con riferimento allo status del presidente di un’autorità portuale, aveva espressamente preso posizione nel senso di escludere la sussistenza della subordinazione alla luce dei criteri qualificatori propri del diritto nazionale, mentre la Corte ha ritenuto che si trattasse di un “lavoratore” nel senso definito dalla sentenza Lawrie-Blum.
Per altro verso, nella prospettiva europea la condizione di eterodirezione, una volta integrata, assume un carattere sostanzialmente recessivo rispetto agli altri due presupposti costitutivi dell’effettività della prestazione e dell’onerosità del rapporto. Quest’ultimi, pur riconosciuti alla stregua di elementi strutturali del rapporto di lavoro anche dai sistemi giuslavoristici nazionali, nel diritto interno finiscono per rivestire un ruolo qualificatorio sostanzialmente marginale, a fronte della preponderante rilevanza del presupposto dell’eterodirezione-dipendenza. Nella prospettiva del diritto nazionale italiano, mettere in dubbio il carattere reale ed effettivo della prestazione significa sconfinare nel campo della simulazione negoziale, e quindi contestare alla radice la stessa ontologia del rapporto di lavoro, oltre che negarne il significato giuridico. Escluderne poi il carattere oneroso significa aprire alla questione dell’ammissibilità del lavoro a titolo gratuito, la quale non rappresenta certo il cuore del tema della qualificazione del rapporto di lavoro subordinato, almeno così come solitamente sistematizzato dalla tradizione dogmatica. Come noto, è l’accertamento dell’eterodipendenza-eterodirezione della prestazione lavorativa ad assorbire, ed essenzialmente esaurire, la questione di qualificazione giuridica della fattispecie.
Tale diversità di prospettiva riflette il diverso orientamento finalistico rispetto al quale, nei diversi sistemi, la definizione di lavoratore è funzionalizzata: la protezione della parte debole del rapporto di lavoro nei diritti nazionali, la tutela della concorrenzialità del mercato del lavoro nel diritto eurounitario.
Pertanto non sorprende che nell’economia della definizione uniforme di lavoratore sia l’effettività della natura economica della prestazione a prevalere, piuttosto che gli aspetti afferenti il grado più o meno intenso di soggezione ai poteri di direzione e di controllo eventualmente esercitati da datore di lavoro. La giurisprudenza europea ha interpretato estensivamente il concetto di “direzione” del lavoratore, così da virare dal concetto di “eterodirezione” verso il concetto meno stringente di “eteroorganizzazione”. Da un lato si è rarefatta la rilevanza della condizione di sottomissione al potere di un superiore gerarchico, dall’altro lato è l’apprezzamento di “non marginalità”, “non insignificanza”, “non inutilità” economica della prestazione a prendere il sopravvento. È grazie a questa nozione più leggera di subordinazione, unitamente alla valorizzazione dell’utilità economica di essa, che la Corte ha ricompreso nell’ambito della nozione uniforme di lavoratore l’eterogenea congerie dei lavori flessibili, atipici e non-standard in genere.
Del resto, come evidenziato da Adalberto Perulli, tale moto espansivo rispecchia il processo di logoramento vissuto dalla subordinazione quale “figura social-tipica egemone del mercato del lavoro” in quegli stessi contesti economico culturali di diritto nazionale che sono stati la culla del “prototipo normativo” del lavoratore dipendente.
Nel caso Lawrie-Blum la Corte ha ritenuto che un’insegnante stagiaire sia una “lavoratrice” sull’assunto che si tratta di “un’attività avente un valore economico, per la quale [la lavoratrice] riceve un corrispettivo”. Facendo tesoro del medesimo approccio interpretativo, nel caso Levin la Corte Europea ha valorizzato il carattere “reale ed effettivo” della prestazione, a compensazione in questo caso della modestissima onerosità, per riconoscere lo status di lavoratore pur in presenza di redditi da lavoro subordinato inferiori a quanto lo Stato olandese individuasse come minimo vitale, indipendentemente dal fatto che essi fossero o meno integrati da altre entrate che consentissero di raggiungere detto minimo. Anche nel caso Kempf, la Corte ha riconosciuto lo status di lavoratore ad un soggetto al quale era stato rifiutato il permesso di soggiorno per ragioni di lavoro in quanto impiegato a tempo parziale con un reddito che non raggiungeva il minimo di sussistenza reddituale se non grazie all’integrazione di sussidi pubblici. Analogamente nell’affare Raulin, ove la Corte ha ritenuto che una prestazione lavorativa come addetto alle pulizie, seppur di modestissima estensione (60 ore), non ne precludesse la qualificazione quale “lavoratore” ai sensi dell’art. 48 TCE (ora art. 45 TFUE).
In tutti questi casi il criterio di qualificazione decisivo non è lo stato di subordinazione giuridica del lavoratore - tema che nel corpo motivazionale delle varie sentenze viene solo sfiorato - quanto la constatazione che si tratti di prestazioni lavorative reali ed effettive, economicamente non marginali, e quindi di interesse per il mercato comune.
Tale prospettiva assiologica è talmente consolidata che nella sentenza Jany la Corte, dopo aver ritenuto che l’attività prostitutiva professionalmente svolta debba essere considerata un’attività economica reale ed effettiva di natura non puramente marginale o accessoria, ha preso atto che l’allora TCE attribuisse ai cittadini degli Stati membri il diritto fondamentale di svolgere attività lavorativa tanto informa dipendente, quanto in forma autonoma, cosicché “non è […] così importante accertare nei particolari lo status del lavoratore”.
Se ne deduce che la definizione uniforme di lavoratore rilevante ai fini della libertà di circolazione (art. 45 TFUE, art. 48 TCE) non può esercitare, in linea di principio, alcun un effetto conformativo rispetto alle correlative nozioni di diritto interno, perlomeno ogni qualvolta quest’ultime assumono rilevanza strumentale alla protezione dei diritti individuali del lavoratore, anziché alla tutela della concorrenzialità del mercato del lavoro

6) L’effetto conformativo eurounitario sulla qualificazione giuridica del lavoro in piattaforma telematica.
Si pone allora la questione se, ed eventualmente entro quali limiti, la definizione di lavoratore Lawrie-Blum abbia l’attitudine a disporre vincoli conformativi utili ad orientare la sistematizzazione dei problemi interpretativi posti dalle recenti riforme legislative in materia di lavoro subordinato, organizzato, “coordinato” ai sensi dell’art. 409 c.p.c. così come modificato dalla legge 22 maggio 2017, n. 81, svolto in “piattaforme anche digitali” ai sensi dell’art. 47 bis d. lgs. n. 81/2015.
La questione assume ancor più rilevanza alla luce delle sentenze Uber France e Uber Spain pronunciate, in questo caso, non in materia di libertà di circolazione, bensì di tutela antitrust. L’analisi sviluppata dalla Corte di Giustizia si è concentrata proprio sulla natura del potere di eterodirezione cui i drivers sono assoggettati nell’esecuzione della prestazione. L’approccio seguito presenta un’evidente specularità rispetto al metodo qualificatiorio per “indici sintomatici” invalso nei sistemi giuslavoristici nazionali. La Corte ha preso in esame le concrete modalità con cui la piattaforma Uber esercita la propria influenza condizionante sulla prestazione resa dai drivers, in particolare predeterminando il prezzo massimo della corsa, incassando il prezzo direttamente dal cliente per riversarne poi al conducente la parte lui spettante, esercitando un potere di controllo tanto sulla qualità dei veicoli impiegati nel trasporto quanto sulle qualità personali dei conducenti, così come sul comportamento tenuto nella prestazione del servizio, disponendo del potere, se del caso, di escludere il driver dalla piattaforma digitale.
Anche in questo caso non si può prescindere dall’orientamento teologico concretamente perseguito dal diritto eurounitario. La ratio decidendi sottesa alla sentenza Uber France è fondata sull’esigenza di accertare se il servizio erogato dalla piattaforma fosse da considerare un “servizio della società dell’informazione”, come tale sottoposto all’obbligo di notificazione preventiva la Commissione previsto dall’art. 8, par. 1 della Direttiva n. 98/34, ovvero un “servizio nel settore dei trasporti” ai sensi dell’art. 2, par. 2, lettera d) della Direttiva 2006/123. In effetti, il caso ha trovato origine in una serie di procedimenti giudiziari avviati in Francia nei confronti di Uber, cui venivano addebitate pratiche commerciali fraudolente consistenti nell’esercizio illegale della professione di taxi, penalmente sanzionato dal diritto francese. La Corte, alla luce di una puntuale analisi degli indici di “dipendenza” sopra indicati, ha ritenuto che il gestore della piattaforma esercitasse un’influenza determinante sulle concrete modalità esecutive della prestazione da parte dei drivers, e che quindi il servizio di intermediazione organizzato da Uber dovesse essere qualificato alla stregua di servizio di trasporto. Così come già ritenuto nel caso Uber Spain, la Corte ha stimato che l’influenza decisiva esercitata dalla piattaforma sull’organizzazione del sevizio determinasse una prevalenza dell’attività di trasporto rispetto a quella di networking, con ogni conseguenza in punto di disciplina applicabile.
Anche in questo caso, l’analisi del potere di ingerenza sulla prestazione risulta non strumentale all’accertamento di un eventuale stato di subordinazione giuridica quale presupposto applicativo di un eventuale standard di protezione dei diritti del lavoratore, bensì funzionale ad assicurare il corretto esercizio del gioco della concorrenza all’interno di un determinato settore del mercato comune.
Analoga ratio decidendi, pur al di fuori dello schema tipologico del lavoro in piattaforma, è ravvisabile nel caso FNV Kunsten, ove la Corte si è pronunciata sulla questione di qualificazione giuridica di una convenzione collettiva, conclusa dalle associazioni rappresentative dei musicisti olandesi e dalle fondazioni musicali, con cui le parti stabilivano delle tariffe minime per la remunerazione della prestazione resa non solo dai musicisti supplenti impiegati per mezzo di un contratto di lavoro subordinato, ma anche da quelli di volta in volta ingaggiati per mezzo di rapporti di lavoro autonomo, svolgenti tutti identiche mansioni. E infatti i musicisti prestatori di lavoro autonomo, se autenticamente tali, devono essere considerati “imprese” ai sensi dell’art. 101 TFUE, e i loro accordi alla stregua di “accordi tra imprese”, come tali vietati in quanto diretti a falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato unico. Se invece si trattasse di musicisti in una situazione di fatto sostanzialmente comparabile a quella dei lavoratori dipendenti, essi sarebbero qualificabili quali “falsi autonomi” (faux indépendants, false self-employed), e quindi le loro organizzazioni rappresentative alla stregua di associazioni autenticamente sindacali, i cui accordi resterebbero esclusi delle restrizioni stabilite dalla disciplina europea antitrust. Come già avvenuto nel caso Allonby, la Corte ha indicato quali indici rivelatori del grado di dipendenza nello svolgimento della prestazione, e quindi della genuinità o falsità della natura autonoma del rapporto di lavoro, la circostanza che i lavoratori “autonomi” fossero o meno sottoposti alla direzione dell’ente musicale nella scelta del luogo di esecuzione, dell’orario e del contenuto della prestazione lavorativa, che partecipassero o meno ai rischi commerciali dell’imprenditore, che fossero o meno integrati nell’impresa costituendo con essa una sostanziale “unità economica”.
È quindi evidente l’eterogeneità dei fini cui il test per “indici sintomatici” nei diversi sistemi è preordinato: la tutela della libera concorrenza nella prospettiva eurounitaria, la protezione dei diritti fondamentali del lavoratore nei sistemi giuslavoristici nazionali. Ciò consente di comprendere in che senso le specularità categoriali riscontrabili tra tale segmento della dogmatica eurounitaria e quella tradizionalmente propria dei sistemi giuslavoristici nazionali (“lavoratore”, “dipendenza”, “autonomia”, “falsa autonomia”) non riflettano una corrispondente omogeneità assiologica, e quindi precludano il dispiegamento di un effetto conformativo rispetto alle corrispondenti definizioni nazionali di lavoratore subordinato, autonomo, eteroorganizzato, coordinato, in piattaforma digitale.

7) La definizione eurounitaria di lavoratore ai fini della parità di trattamento e della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
A partire dagli anni settanta, l’ordinamento europeo ha iniziato a definire un quadro, seppur frammentario, degli standard minimi di protezione del lavoratore. La tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e il principio di parità di trattamento tra uomini e donne rappresentano gli ambiti privilegiati di espansione nei quali la definizione Lawrie-Blum di lavoratore è per la prima volta migrata al di fuori del campo della libertà di circolazione. I meccanismi di tutela antidiscriminatoria sono previsti sia dai Trattati (art. 119 CEE, poi art. 141 TCE e infine art. 157 TFUE), sia da altre fonti di rango costituzionale eurounitario (art. 21 CDFUE), oltre che da norme antidiscriminatorie specificamente stabilite da singole direttive. Altrettanto è da dirsi in merito alla protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori (art. 153, paragrafo 1, lett. a) TFUE, già art. 137 TCE, art. 31 CDFUE). Entrambi i principi sono da sempre riconosciuti quali diritti fondamentali del diritto comunitario, e poi eurounitario, alla stessa stregua della libertà di circolazione.
Nel caso Allonby la definizione Lawrie-Blum di lavoratore è stata impiegata al fine di qualificare il soggetto titolare della tutela avverso la lamentata discriminazione indiretta fondata sul sesso posta in essere da un ente scolastico il quale, in un primo momento, aveva impiegato la lavoratrice in forma subordinata a tempo parziale, successivamente ha posto fine al contratto di lavoro per riassumere la lavoratrice in veste di collaboratrice esterna, così da ridurre i costi di gestione. La Corte ha esplicitato il principio, poi reiterato nel caso FNV Kunsten Informatie en Media, secondo cui la qualificazione formale di lavoratore autonomo alla luce del diritto nazionale non preclude una riqualificazione come “lavoratore” ai fini perseguiti dal diritto europeo qualora la condizione di indipendenza sia soltanto fittizia e tale da celare una “reale relazione di lavoro”. Il caso Fenoll mostra anche come la definizione autonoma di lavoratore, così come importata nell’ambito del diritto antidiscriminatorio, ha preservato la propria originaria struttura costitutiva, tale per cui continua a rivestire un ruolo preponderante il requisito della rilevanza economica della prestazione lavorativa, mentre assume un peso molto più sfumato il presupposto dell’eterodirezione-eterodipendenza.
L’effetto espansivo subito dalla definizione Lawrie-Blum nell’ambito applicativo proprio della tutela antidiscriminatoria è, a ben vedere, coerente con l’affinità teleologica che intercorre tra parità di trattamento e libertà di circolazione, atteso che l’inibizione di trattamenti discriminatori costituisce di per sé uno strumento di protezione antidumping a tutela del mercato intracomunitario.
Il vincolo strumentale che funzionalizza il principio di parità di trattamento rispetto alla tutela del mercato è esplicitato nella sentenza Abercrombie & Fitch, ove la Corte ha posto in diretto bilanciamento da un lato l’interesse del lavoratore intermittente a non essere discriminato in ragione dell’età (art. 21 CDFUE e art. 6, par. 1 della Direttiva 78/2000), dall’altro lato la legittima finalità politica di promozione del mercato del lavoro, rispetto alla quale la scelta legislativa di consentire il licenziamento del lavoratore per il solo fatto di aver raggiunto il venticinquesimo anno di età deve essere considerata per un verso appropriata, in quanto utile a sollecitare assunzioni poco vincolanti e funzionali alla professionalizzazione in giovane età, per altro verso necessaria, in quanto giustificata dal rallentamento economico ed occupazionale del mercato nazionale.
L’estensione della definizione uniforme di lavoratore alla materia antidiscriminatoria ha prodotto una corrispondente espansione dell’effetto conformativo che le è proprio ad una variegata gamma tipologica di lavori i quali, alla luce dei diritti nazionali, sfuggirebbe al regime della subordinazione. È il caso della lavoratrice austriaca, parte di un contratto di lavoro intermittente senza obbligo di risposta alla chiamata e senza predeterminazione di un orario fisso di lavoro, che lamentava una discriminazione retributiva indiretta fondata sul sesso rispetto ai lavoratori subordinati a tempo pieno, in prevalenza uomini, nonché della persona handicappata impiegata in una professione creata al solo scopo di procurare un’occupazione a soggetti in condizione disagiata, la quale lamentava una discriminazione indiretta per esserle precluso il diritto all’indennità sostitutiva dei congedi annuali non goduti.
Analogamente, è stato qualificato “lavoratore” secondo la definizione di cui all’art. 45 TFUE il cittadino di uno stato membro entrato in territorio danese allo scopo non di esercitare un’attività lavorativa, bensì di svolgere in tale paese un corso di formazione, ed abbia poi solo incidentalmente intrapreso una contemporanea attività lavorativa, assicurandosi in tal modo il beneficio della parità di trattamento rispetto ai cittadini di quello stato nel godimento di sussidi pubblici per il mantenimento agli studi.
In entrambi i casi la Corte ha giustificato l’stensione definitoria della definizione uniforme di lavoratore sull’assunto che si trattasse di prestazioni recanti un valore economico reale ed effettivo, non puramente marginale ed accessorio.
Si osserva anche, quale effetto riflesso, l’incidentale attrazione nel raggio d’azione del vincolo conformativo promanante dal principio fondamentale di non discriminazione anche di diritti non fondamentali, qualora ne venga messo in discussione il godimento paritario in violazione di fattori antidiscriminatori rilevanti per il diritto dell’Unione.
Tuttavia, anche in questo caso l’effetto conformativo della definizione di lavoratore opera selettivamente negli ordinamenti nazionali nei limiti in cui si ponga questione di trattamenti discriminatori ovvero di protezione della sicurezza e della salute sul lavoro, di per sé non estendibile ad ogni altro caso in cui si invochi la protezione del lavoratore in piattaforma “all’esterno” di tali peculiari ambiti applicativi.

 

8) La definizione eurounitaria di lavoratore nella tutela dei diritti non fondamentali.
Alla luce delle conclusioni tratte nei paragrafi che precedono, non è possibile affermare che la nozione autonoma di lavoratore abbia portata universale. Essa infatti si ritrae, in linea di principio, ogni qualvolta sia in gioco la violazione di diritti non fondamentali, quali ad esempio quelli stabiliti dalle Direttive 2008/94/CE in materia di protezione dei salari in caso di insolvenza del datore di lavoro, 98/59/CE in materia di licenziamenti collettivi, 2001/23/CE in materia di trasferimento d’impresa, 1999/70/CE in materia di lavoro a tempo determinato, 97/81/CE in materia di lavoro a tempo parziale, 2008/104/CE in materia di lavoro interinale. E infatti nessuna di queste direttive provvede a definire il contenuto della nozione di lavoratore rilevante ai fini dell’individuazione del proprio ambito soggettivo di applicazione, per fare invece rinvio alla nozione di lavoratore così come stabilita da ciascun ordinamento nazionale.
L’art. 2, paragrafo 1, lett. d) della Direttiva 2001/23/CE espressamente definisce come lavoratore “ogni persona che nello Stato membro interessato è tutelata come tale nell’ambito del diritto nazionale del lavoro”. Già nel vigore della Direttiva 77/187/CCE, poi sostituita dalla Direttiva del 2001, la Corte Europea aveva ritenuto che, nell’assenza di espresse disposizioni comunitarie, l’esistenza o meno di un contratto o di una relazione di lavoro dovesse essere valutata alla luce di quanto disposto dal diritto nazionale. Una disposizione sostanzialmente identica è prevista dall’art. 3, par. 1, lett. a) della Direttiva 2008/104/CE. Analogamente, l’art. 2, paragrafo 2 della Direttiva 2008/94/CE prevede che essa non pregiudica il diritto nazionale per quanto riguarda la definizione dei termini, tra l’altro, di “lavoratore subordinato”, “datore di lavoro”, “retribuzione”. Le Direttive 97/81/CE e 1999/70/CE allo stesso modo dichiarano di essere applicabili, rispettivamente, ai lavoratori a tempo parziale e ai lavoratori a tempo determinato “con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro”. La Direttiva 98/59/CE non reca alcuna definizione di lavoratore, limitandosi ad escludere dal proprio campo di applicazione alcune tipologie di rapporti di lavoro, quali i contratti di lavoro conclusi per una durata determinata per un compito determinato ovvero alle dipendenze dell’amministratore pubblica, nonché i contratti del personale navigante. Lo stesso modello dogmatico è ora riproposto dall’art. 1, par. 2 della direttiva 2019/1152 sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, il quale rinvia la definizione di rapporto di lavoro al contenuto stabilito “dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia”.
Le Direttive di coesione si limitano a fissare limiti definitori esterni di carattere antielusivo, diretti ad evitare che i legislatori nazionali, nell’esercizio della discrezionalità loro riservata, individuino definizioni di lavoratore tali da pregiudicare le finalità politiche dell’Unione. Ad esempio, l’art. 2, par. 2 della Direttiva sulla tutela dei lavoratori in caso di insolvenza impedisce ai legislatori nazionali di escludere dal proprio ambito d’applicazione i lavoratori a tempo parziale, i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori interinali, nonché di condizionare il diritto di avvalersi della Direttiva ad una durata minima del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro. La clausola 2 della Direttiva sul lavoro a termine stabilisce che gli Stati membri possono escludere dall’applicazione dell’accordo quadro i rapporti di formazione professionale e di apprendistato, nonché i rapporti a causa formativa o di riqualificazione professionale, a condizione che ciò avvenga previa consultazione e/o codecisione delle parti sociali.
La Corte di Giustizia, per parte sua, ha elaborato una giurisprudenza diretta a restringere il margine di apprezzamento degli Stati membri nell’introduzione di deroghe alla definizione di lavoratore, se anche autorizzate dalle Direttive all’atto della loro trasposizione, in particolare riconoscendo quale limite generale alla discrezionalità degli Stati membri il divieto di pregiudicare le finalità perseguite dall’ordinamento eurounitario.
Nella sentenza Tümer la Corte, pronunciandosi su un caso di esclusione di un residente di un paese terzo dal campo d’applicazione della Direttiva 80/987 in ragione della situazione di soggiorno illegale sul territorio dello stato in cui costui si trovava, ha stabilito che, se anche la Direttiva non definisce una nozione di “lavoratore subordinato” e non preclude al legislatore nazionale di definire tale concetto secondo i propri criteri di diritto interno, tale margine di discrezionalità non è illimitato. Se diversamente fosse, verrebbero messe in pericolo le finalità sociali della Direttiva stessa, le quali mirano a garantire una soglia minima di protezione a tutti i lavoratori subordinati a fronte dell’insolvenza del datore di lavoro.
Pertanto, nell’ambito dei diritti di rango derivato la definizione di lavoratore è autonoma in senso più formale che sostanziale, atteso che l’individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione della disciplina eurounitaria coesiva dello statuto protettivo del lavoratore è in concreto rimessa alla determinazione delle autorità nazionali, alle quali in ultima istanza è riservata la competenza di modulare il contenuto della definizione di “lavoratore” destinatario di quella disciplina.
Al contempo, si tratta di quel settore dell’ordinamento eurounitario il cui orientamento teologico è per natura affine alla ratio legis propria degli ordinamenti lavoristici nazionali, proprio in quanto entrambi funzionali alla protezione dei diritti individuali dei diritti del lavoratore nel rapporto di lavoro, anziché alla tutela della concorrenza nel mercato comune. Si tratta quindi, stavolta, di un ambito sostanziale rispetto al quale l’effetto conformativo può e deve operare. Ma anche in questo caso, l’efficacia del vincolo non può che dispiegarsi in forma selettiva.
Essa senz’altro agisce rispetto al contenuto sostanziale degli istituti protettivi disciplinati dalle diverse Direttive. Ne costituisce un noto esempio, soprattutto per i giuristi di diritto italiano, il potente impatto conformativo prodotto dalla clausola 5 della Direttiva 1999/70/CE rispetto alla disciplina legislativa sulla giustificazione causale del lavoro a termine di cui all’art. 1 d. lgs. n. 368/2001.
Nessun effetto conformativo può invece operare con riferimento al contenuto della nozione di lavoratore - la cui definizione è sostanzialmente rimessa alla competenza degli ordinamenti nazionali - se non limitatamente ai meccanismi antielusivi previsti dalla normativa eurounitaria ed elaborati dalla giurisprudenza della Corte, ora peraltro espressamente richiamata dall’art. 1 della Direttiva 2019/1152.

9) La definizione europea di lavoratore nella tutela dei diritti fondamentali: il dirompente impatto della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

In tale quadro sistematico ha assunto un ruolo storico decisivo l’introduzione della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Entrata in vigore congiuntamente al Trattato di Lisbona con il “medesimo valore giuridico dei Trattati” (art. 6, par. 1 TUE), essa ha ampliato il catalogo dei diritti fondamentali sino ad allora previsti dai trattati europei. Molti di essi hanno diretta rilevanza lavoristica, quali la libertà professionale e il diritto di lavorare (art. 15), il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa (art. 27), il diritto di negoziazione e di azioni collettive (art. 28), il diritto alla tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30), il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque (art. 31), il divieto del lavoro minorile e il diritto alla protezione dei giovani sul luogo di lavoro (art. 32), il diritto alla sicurezza sociale e assistenza sociale (art. 34).
Altri diritti hanno portata trasversale, ma tale da assicurare una tutela incidentale anche sul luogo di lavoro, quali il diritto al rispetto della vita privata (art. 7), il diritto alla protezione dei dati di carattere personale (art. 8), la libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 10). La Carta riafferma, tra i principi fondanti dell’ordine eurounitario, i principi di non discriminazione (art. 21), di parità tra uomini e donne (art. 23), nonché il principio di uguaglianza davanti alla legge (art. 20), già enunciato quale “metaprincipio” dall’art. 2 TUE.
Si è allora delineata, in seno alla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, una recente propensione ad estendere la nozione uniforme di lavoratore oltre il campo proprio della tutela antidiscriminatoria, per bracciare potenzialmente l’intero ambito di operatività dei diritti fondamentali dell’Unione. Tale approccio ermeneutico previene l’irragionevole incongruenza che produrrebbe una bipartizione dell’ambito soggettivo di applicazione di due differenti regimi di tutela, pur a fronte di diritti egualmente fondamentali di rango equiordinato nel sistema delle fonti del diritto eurounitario.
La Corte ha quindi sancito l’applicabilità della definizione Lawrie-Blum ai fini dell’individuazione del soggetto titolare del diritto ai congedi per maternità sancito dalla Direttiva 92/85/CE in quanto ritenuto coperto dall’ambito applicativo dell’art. 33 CDFUE. Altrettanto è avvenuto in materia di protezione del diritto al rispetto dei tempi di lavoro stabiliti dalla Direttiva 2003/88/CE e del diritto ai congedi annuali retribuiti disciplinati dalla Direttiva 2003/88/CE, in quanto entrambi riconducibili alla sfera di applicazione dell’art. 31 CDFUE. Sempre in materia di diritto alle ferie e orario di lavoro, la Corte ha riconosciuto lo status di lavoratore, secondo l’ampia definizione Lawrie-Blum, ad un assistente genitoriale presso un ente pubblico il cui rapporto di lavoro era caratterizzato, per espressa previsione della legge rumena, da un regime estremamente flessibile nel godimento di ferie, riposi settimanali, giorni festivi.
Tale evoluzione è portatrice di un impatto potenzialmente dirompente. Si tratta, in questo caso, di un ampio settore del diritto costituzionale eurounitario il cui orientamento teleologico è diretto alla costituzione, in forma coesiva, di uno statuto protettivo dei diritti individuali del lavoratore, e quindi sostanzialmente omogeneo rispetto alla ratio legis protettiva che è propria, in linea di principio, degli ordinamenti lavoristici nazionali. Pertanto, costituisce effetto naturale di tale affinità assiologica l’estensione del vincolo conformativo proprio della definizione uniforme di lavoratore anche rispetto a tutte quelle norme interne che costituiscono attuazione di disposizioni di diritto eurounitario a loro volta coperte dall’abito applicativo della CDFUE (art. 51 CDFUE).
Peraltro, non deve essere trascurato l’orientamento che si sta delineando in seno alla giurisprudenza della Corte, nonostante alcune divergenze rispetto all’orientamento teorico-applicativo espresso dalla Corte Costituzionale italiana, la tendenza a riconoscere alle disposizioni della Carta effetto diretto anche nei rapporti orizzontali. È noto, in particolare ai giuslavoristi, il potente e controverso impatto prodotto negli ordinamenti nazionali, sin dai tempi delle sentenze Mangold e Kücükdeveci, dall’applicazione orizzontale del principio di parità di trattamento, ora sancito anche dell’art. 21 CDFUE. Tale approccio, recepito da talune pronunzie nazionali, trae ora nuova linfa vitale. Nel caso Max-Planck la Corte, in materia di diritto alla liquidazione economica dei giorni di ferie non goduti, ha riaffermato l’obbligo per il giudice nazionale di disporre, se del caso, la disapplicazione del diritto interno anche in un rapporto di lavoro tra privati, riconoscendo efficacia diretta all’art. 31 CDFUE, che è di per sé norma di principio, sull’assunto che il relativo contenuto risulta sufficientemente dettagliato per mezzo del contenuto di disposizioni di diritto derivato, qual è appunto l’art. 7 della Direttiva 2003/88.

10) La rilevanza del principio di uguaglianza (art. 20 CDFUE) nel processo di generalizzazione della definizione eurounitaria di lavoratore.
Diventa a questo punto ineludibile la questione se sia ancora vero che la definizione relativamente autonoma di lavoratore, stabilita di volta in volta dalle Direttive, costituisca ancora la regola generale, o se non sia progressivamente divenuta un’eccezione.
A rigore, si potrebbe anche sostenere che le due definizioni di lavoratore, rispettivamente quella assolutamente autonoma rilevante ai fini dell’art. 45 TFUE e quella relativamente autonoma prevista dalle Direttive di coesione, siano dirette a coprire ambiti sostanzialmente distinti e non comunicanti, proprio in quanto teleologicamente orientate alla tutela di interessi eterogenei: la tutela del mercato la prima, la protezione dei diritti individuali del lavoratore la seconda. La teoria economica tuttavia insegna che la forza lavoro è un fattore della produzione suscettibile di condizionare il mercato e di essere organizzata nel mercato, e ciò mal si concilia con un approccio antimercatista che pretendesse di trattare lavoro e mercato come monadi in strutturale contrapposizione l’una con l’altra.
Tanto chiarito, si è sopra esaminato come, in prospettiva storica, la definizione assolutamente autonoma di lavoratore ha tradizionalmente trovato applicazione in funzione strumentale alla protezione dei diritti del lavoratore in forma strettamente selettiva, in quanto limitata all’ambito della tutela antidiscriminatoria e della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Si è anche evidenziato, al contempo, come l’ordinamento eurounitario, nella sua evoluzione, tende a relegare sempre più, sino in prospettiva a marginalizzare, la classe dei diritti subcostituzionali, o loro particolari aspetti, che restano esclusi dal raggio d’influenza conformativa proiettata dalla Carta.
La traiettoria di tale percorso di graduale convergenza è resa particolarmente manifesta, da ultimo, dalla decisione B. c. Yodel Delivery . La Corte, nell’enucleare gli elementi rivelatori (o, si potrebbe dire, sintomatici) dello status di “lavoratore” ai fini della Direttiva 2003/88/CE, si avvale di indici qualitativamente analoghi a quelli già ritenuti decisivi, seppur ad altri fini, nel proprio filone giurisprudenziale Uber France e Uber Spain, e precisamente: il margine di libertà goduto nella scelta di eventuali sostituti o subcontractors, nell’accettazione, rifiuto o limitazione del numero delle commesse, nel prestare analogo servizio in favore di terze parti anche in concorrenza con il committente, nella fissazione di un orario di lavoro che tenga conto anche della personale convenienza del prestatore, oltre che di quella del committente.
Ed invero, tale decisione potrebbe assumere un valore ancor più pregnante se si considera che essa nemmeno fa applicazione o menzione dell’art. 31 CDFUE, limitandosi ad affrontare la questione definitoria di cosa debba intendersi per lavoratore entro l’orizzonte segnato della sola Direttiva 2003/88/CE. Sembra quindi che, in questo caso, alcuni profili della definizione assolutamente autonoma di lavoratore sia già filtrata, in via autonoma, all’interno dell’ambito applicativo proprio delle direttive di coesione così concorrendo direttamente alla costituzione dello statuto protettivo dei diritti del lavoratore, pur in assenza di copertura da parte della CDFUE. Si tratterà comunque di comprendere se ci si trovi effettivamente in presenza di un consapevole passo in avanti fatto dalla Corte lungo il proprio percorso evolutivo. La questione pregiudiziale è stata infatti decisa facendo applicazione dell’art. 99 delle Regole di Procedura, che disciplina un particolare procedimento semplificato cui è possibile ricorrere qualora la questione sia identica ad altra già decisa o decidibile sulla base della consolidata giurisprudenza della Corte. Insomma, uno strumento procedurale non adatto alle innovazioni giurisprudenziali.
Ad ogni modo si pone ormai ineludibile una questione di compatibilità complessiva del sistema eurounitario, nella parte in cui reca tale distorsione di carattere escludente, rispetto al principio di uguaglianza ora formalizzato nell’art. 20 CDFUE. L’art. 20 risulta diffusamente citato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, di regola in congiunzione con l’art. 21 CDFUE. Tuttavia, è quest’ultimo a giocare in concreto il ruolo di parametro “decisore” delle singole questioni interpretative. Il principio di uguaglianza, sino ad ora, ha rivestito la veste nobile di “metaprincipio” dell’Unione, per restare però nella sostanza privo di un concreto impatto regolativo.
La stessa elaborazione concettuale operata dalla Corte sembra talora sovrapporne i ruoli. Nella recente sentenza Gardenia la Corte ha infatti affermato che l’art. 4 della Direttiva 1999/70, che sancisce il principio di non discriminazione nelle condizioni di impiego dei lavoratori a tempo determinato, costituirebbe “attuazione” del principio di uguaglianza previsto dall’art. 20 della Carta.
I due principi, tuttavia, non devono essere confusi. Essi recano differenti portate sostanziali, originate da differenti tradizioni giuridiche le quali, con spirito sincretico, sono state entrambe recepite nel testo della Carta.
Il principio di non discriminazione, la cui tecnica applicativa si è fortemente affinata nella prassi giudiziaria del mondo anglosassone, non rileva quale parametro di legittimità della norma legislativa, bensì quale criterio di valutazione in concreto della proporzione di una determinata disparità di trattamento rispetto alla sua ragione giustificativa. Come ben dimostrato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, e specularmente anche dalla giurisprudenza della Corte Edu, il giudizio di proporzione involve tutte le circostanze di fatto costitutive della fattispecie, vale a dire le condotte concretamente tenute, il contesto in cui sono compiute, il contenuto di policies aziendali e di codici di condotta, le prassi comunemente osservate da individui, gruppi e pubbliche autorità, la rilevanza sociale del controinteresse posto in bilanciamento. Nella sostanza, quello antidiscriminatorio è un giudizio sul fatto.
Al contrario, il principio di uguaglianza affonda le proprie radici nell’Etica Nicomachea aristotelica, e costituisce il substrato teorico della dottrina illuministica dell’égalité, poi recepita da gran parte degli ordinamenti continentali ispirati a tale matrice culturale. Il principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione italiana, art. 1 della Costituzione francese), nella propria essenza, è una regola di carattere procedurale, la quale subordina la legittimità/validità del processo di law making al rispetto del principio secondo cui “casi uguali siano trattati in modo uguale” . Il giudizio di compatibilità rispetto al parametro costituzionale di uguaglianza è un giudizio di diritto. Pertanto, l’illegittimità dei trattamenti discriminatori nelle situazioni concrete opera per così dire “a valle”, quale conseguenza della corretta costruzione della norma giuridica nel rispetto del principio costituzionale di uguaglianza formale e sostanziale. Tanto che nell’ordinamento italiano la tutela antidiscriminatoria si attua in concreto per mezzo non di un unico rimedio di carattere generale nella disponibilità del giudice costituzionale, bensì per mezzo di una molteplicità di rimedi in funzione della protezione di fattori di volta in volta considerati da azionare dinanzi al giudice comune (cfr. artt. 36-38, 55 quinquies, 55 septies, comma 2 d. lgs. 11.4.2006, n. 198; art. 44 d. lgs. 25.8.1998, n. 286; art. 4 e 5 d. lgs. 9.7.2003, n. 215; art. 4 e 5 d. lgs. 9.7.2003, n. 216; art. 3 e 4 l. 1.3.2006, n. 67).
Tanto chiarito, a fronte dell’attrazione nell’ambito applicativo della definizione uniforme di lavoratore di tutti quei diritti subcostituzionali “coperti” delle disposizioni della Carta, l’esclusione di una cerchia residuale di essi rischia di sollevare un problema non tanto di discriminazione, bensì di possibile violazione del principio eguaglianza. Tale esclusione infatti inficia la struttura stessa del sistema legislativo eurounitario nella parte in cui permette la sottoposizione a regimi giuridici differenziati, senza sufficiente giustificazione, di fattispecie sostanzialmente simili, in quanto espunge dal più ampio regime protettivo un ristretto sottoinsieme di diritti i quali risultano egualmente funzionali alla tutela dei diritti soggettivi lavoratore quale parte debole della relazione lavorativa.
Potrebbe essere questa la via capace di traghettare il principio di uguaglianza dalla sfera del “metadiritto” verso il mondo pragmatico del diritto applicato e al contempo, sotto il profilo gius-economico e assiologico, una delle possibili traiettorie d’assetto del “problema di un giusto dosaggio tra universalismo e selettività delle tutele” focalizzato in Oltre la subordinazione.

 

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