Testo integrale con note e bibliografia

 

In Italia , non diversamente da quanto succede nel resto del mondo , nonostante i principi contenuti nelle Carte e nonostante la consapevolezza delle ricadute negative in termini economici, permangono profonde differenze nelle condizioni lavorative fra donne e uomini, sicuramente un profondo “gendergap” sul piano salariale.
In queste brevi riflessioni non intendo affrontare l’argomento dal punto di vista dei dati o delle norme, o mancate norme, di diritto positivo, né ragionare sugli strumenti per modificare questa situazione, che sembra stagnante: dei dati e dei suggerimenti sul piano delle azioni, nonché di analisi sul sistema normativo e sulla necessità di procedere a sue modifiche, si occupano da tempo studiosi di discipline diverse e, in particolare, i giuslavoristi .
Come costituzionalista vorrei ragionare sul quadro dei principi costituzionali, sul loro significato profondo, alla luce anche della loro origine storica, per confutare una volta per tutte quella tesi, che ancora affiora in alcuni contributi dottrinali o perlomeno nel pensiero comune, secondo la quale i principi costituzionali non sarebbero un ostacolo di per sé al permanere di questa situazione di disuguaglianza di diritto o di fatto, e in ogni caso, non offrirebbero ulteriori strumenti giuridici per una modifica dello status quo.
Sorprende infatti come, in un ordinamento come il nostro, abituato a reazioni incisive dinanzi alla violazione di alcuni principi costituzionali, anche in materia di parità fra uomo e donna , pochissime sono le azioni giudiziarie che contestano in generale differenti trattamenti e in concreto una differenza salariale .
Ed è, altrettanto, significativo come rare siano le pronunce in cui l’articolo 37, comma 1, della Costituzione ha rivestito ruolo di parametro costituzionale nei giudizi di legittimità avanti al Giudice delle Leggi e come, per di più, in nessuna ipotesi sia stata invocata o riscontrata una violazione del principio di parità salariale tra uomo e donna.
Quando la Corte è entrata nel merito lo ha fatto, infatti, essenzialmente con riguardo alla tutela della conciliazione tra vita e attività lavorativa della donna , oppure con riferimento all’esigenza di assicurare il principio di parità di trattamento in ambito lavorativo anche in favore degli uomini .
Anche nel caso più recente, e cioè nella sent. n. 205 del 2015, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, prevedeva che l’indennità di maternità spettasse alla madre libera professionista solo se il bambino non avesse superato i sei anni di età, la Corte costituzionale si è concentrata solo sulla tutela della maternità e sulla possibilità di conciliare il ruolo di madre e quello di lavoratrice .
Alla luce delle scarne indicazioni che ci provengono in materia di gender gap dalla giurisprudenza costituzionale, non sembra inutile un tuffo nel passato, alla ricerca delle origini delle norme costituzionali, dal punto di vista teorico e nei lavori in Assemblea costituente.
È finora stato poco studiato, soprattutto fra i giuristi, il fondamentale apporto di Anna Kuliscioff alla nascita di quella piattaforma di diritti delle donne che costituirà la base del lavoro in Assemblea costituente: un apporto di principi e di idee che ancora fatica ad essere riconosciuto oggi, ma che deve essere tenuto presente in una lettura dei principi costituzionali che non voglia essere a senso unico .
La Kuliscioff aveva ben colto l’impatto della predominanza culturale maschile sulla vita e sui diritti delle donne, affermando pubblicamente – nella celebre conferenza “Il monopolio dell’uomo” pronunciata al circolo filologico di Milano nel 1890 – l’esistenza del “‘monopolio dell’uomo’ sotto molteplici aspetti: la famiglia, i diritti civili e politici, la lotta per l’esistenza, materiale e intellettuale” .
L’analisi della Kuliscioff non si limitava, tuttavia, ad una mera presa di coscienza della condizione di sottomissione della donna (sottomessa due volte, a casa e nel lavoro), ma individuava, in ottica propositiva, i volani dell’emancipazione femminile: il lavoro e l’indipendenza economica e familiare.
Il lavoro, fondamento della dignità e motore dell’eguaglianza sociale, rappresentava per la Kuliscioff il presupposto imprescindibile per l’emancipazione della donna dal monopolio culturale maschile. Allo stesso tempo la promozione di politiche sociali e del lavoro non potevano che essere lo strumento fondamentale per rendere la donna non più solo “madre”, ma realmente cittadina “con parità e pienezza di diritti, che possa anche esercitare completamente le forze e le attitudini sue in qualsiasi direzione” .
Dal pensiero della Kuliscioff emerge, dunque, una figura di donna “cittadina” e “lavoratrice”, il cui ruolo non poteva esaurirsi nell’esclusiva funzione materna e familiare .
I temi del lavoro, dell’eguaglianza, della maternità, così fortemente presenti negli scritti di Anna Kuliscioff, sono divenuti poi – come noto - oggetto dell’impegno delle Costituenti, determinate a veder “riconosciuta nella sua nuova dignità, nella conquistata pienezza dei suoi diritti, questa figura di donna italiana finalmente cittadina della nostra Repubblica” .
Eppure, gli stessi lavori dell’Assemblea costituente sembrano aver subito l’influenza di un contesto storico e culturale fortemente caratterizzato da quello che Anna Kuliscioff ha definito “il monopolio dell’uomo”; monopolio che può dirsi riflesso in quelle formule “ambigue” sancite nella Costituzione del 1948 - come il riferimento all’ “essenziale funzione familiare” di cui all’art. 37 – e che è proseguito nella fase di attuazione ed interpretazione del principio di parità sino ai tempi più recenti.
Tant’è che tutt’oggi, talvolta, si ricordano i Costituenti esclusivamente al maschile: i “Padri costituenti”: l’oblio dell’esistenza anche di “Madri costituenti” si traduce nella scarsa sensibilità verso il tema della parità di genere e nell’interpretazione dei principi costituzionali solo in ottica “maschile”.
Di questa storia dimenticata, è utile ricordare innanzitutto un passaggio fondamentale: il 26 giugno del 1946 l’UDI (Unione delle donne italiane, che in quel momento rappresentava donne appartenenti a tutte le formazioni politiche) sottopose alle elette in Assemblea costituente un elenco di norme a favore delle donne da inserire in Costituzione, chiedendo esplicitamente: “la parità giuridica con gli uomini in ogni campo, il riconoscimento del diritto al lavoro e accesso a tutte le scuole professioni, carriere; il diritto a un’adeguata protezione che permetta alla donna di adempiere ai suoi compiti di madre; uguale valutazione, trattamento e compenso degli uomini per uguale lavoro, rendimento, responsabilità” .
Le richieste dell’UDI vennero “patrocinate” dalle donne in Assemblea costituente e poi effettivamente accolte nel testo costituzionale. Sull’inserimento dei principi di parità le donne fecero letteralmente “fronte comune”; fronte che non era espressione diretta delle direttive dei partiti, ma di un condiviso senso di responsabilità nei confronti di tutte le cittadine.
Le elette, quindi, non agivano da sole, ma in virtù di una sintonia con la società femminile più avanzata e rispetto alla quale avevano un mandato da realizzare.
Allo stesso tempo, però, le Costituenti erano convinte che l’obiettivo della parità non fosse solo “cosa di donne”, ma interesse di tutti ed anzi imprescindibile presupposto di una compiuta democrazia, una democrazia fatta di uomini e donne.
È soprattutto grazie al lavoro delle Costituenti se il principio di uguaglianza fra donne e uomini, nella sua duplice ottica formale e sostanziale, è oggi così chiaramente sancito in Costituzione.
Si deve, infatti, ad Angela Merlin l’introduzione al primo comma dell’art. 3 Cost. dell’inciso “senza distinzioni di sesso”, che precisa il divieto di discriminazione di genere .
Ed è merito della più giovane fra le Costituenti, Teresa Mattei , l’aggiunta nel secondo comma dell’art. 3 Cost. dell’espressione “di fatto”, la quale impone alla Repubblica di rimuovere concretamente gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la piena eguaglianza degli individui. La mera parità formale, infatti, non poteva essere considerata sufficiente.
Tuttavia, l’affermazione delle diverse declinazioni del principio di parità di genere in Costituzione non rappresentò un risultato scontato. Anzi, durante il dibattito in Assemblea non mancarono posizioni volte a limitare o ad ostacolare l’introduzione di norme che sancissero l’eguaglianza effettiva tra donne e uomini.
Un particolare merito delle ventuno donne elette fu proprio la resistenza opposta ai tentativi di alcune componenti conservatrici di “sgretolare” la regola dell’uguaglianza con la previsione di una serie di deroghe scivolose. Ciò è dimostrato, ad esempio, dal dibattito scaturito intorno al principio di eguaglianza nell’accesso ai pubblici uffici (art. 51 Cost.), nel mondo del lavoro (art. 37 Cost.) e nella famiglia (art. 29 Cost.).
Si pensi al fronte comune che si parò contro la proposta di richiamare nell’art. 51 Cost., in chiave derogatoria rispetto alla proclamazione della parità nell’accesso a cariche pubbliche ed elettive, il concetto delle “attitudini”; ma anche alle opposte posizioni intorno alla locuzione “essenziale funzione familiare” sancita dall’art. 37 Cost. .
In particolare, il dibattito intorno al principio di eguaglianza di genere nel mondo del lavoro, oggi sancito dall’art. 37 Cost., si concentrò su due profili: la parità di retribuzione fra donne e uomini; la tutela nell’ambito lavorativo della funzione familiare e materna della donna .
Il primo aspetto venne trattato nell’ambito della I Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, di cui faceva parte Nilde Iotti.
Di fronte alla proposta, sostenuta anche da Togliatti e Dossetti, di introdurre un comma che garantisse alla donna lavoratrice “gli stessi diritti e lo stesso trattamento che spettano ai lavoratori” , si accese un aspro dibattito.
L’Onorevole Umberto Merlin, infatti, riteneva che: “con tutta la buona volontà di essere generosi, approvando la formula che sia la più ampia possibile, non si deve però adottare una formula equivoca come quella «lo stesso trattamento economico». Le lavoratrici interpreteranno la formula nel senso che esse debbono avere il salario che spetta al lavoratore maschio, mentre in pratica questo non avviene mai” .
A tale affermazione non esitò a rispondere indignata Nilde Iotti: “non vedo il motivo perché ciò non debba avvenire” .
Inoltre, c’era chi sosteneva che la parità di retribuzione dovesse essere legata alla parità di rendimento sostenendo, tra le righe, l’inferiorità della donna nell’ambito lavorativo: “la donna farà un lavoro più leggero e più confacente alla sua natura, e perciò il salario sarà proporzionato al minor rendimento” .
Nonostante tale argomentazione fosse stata fortunatamente rigettata dalla I Sottocommissione, perché si riteneva che la parità di rendimento fosse implicita nella formula “a parità di lavoro”, essa fu proposta nuovamente in Assemblea plenaria: “Riteniamo quindi opportuna la norma costituzionale che anche in questo campo conferisce alla donna la parità dei diritti; però vogliamo che non si stabilisca un privilegio in suo favore e diciamo: a parità di lavoro sì, ma non basta, occorre aggiungere a «parità di rendimento», perché soltanto allora sarà giustificata e reclamata la parità della retribuzione” .
La proposta venne definitivamente rigettata, anche grazie all’intervento di Maria Federici: “C'è una tendenza all'autosvalutazione, perché la donna ritiene secondario, semplicemente integrante, il lavoro suo e quindi il guadagno che le spetta, di fronte al salario del marito o del capo famiglia (…). In questi giorni stiamo faticosamente cercando di ottenere che alle donne sia riconosciuto il diritto di fruire di uguale indennità di contingenza, nei confronti dell'uomo lavoratore. Dunque, non dalla pratica, ma dalla coscienza comune, è oggi acquisito che il compenso spettante all'uomo lavoratore — intendo dire non il vero e proprio salario, ma anche tutti i benefici e le provvidenze che al salario siano eventualmente connesse — non debba essere superiore al compenso stabilito, per pari lavoro, alla donna lavoratrice” .
Il dibattito si fece ancora più aspro in relazione alla tutela della funzione familiare della donna. Sempre durante i lavori della I Sottocommissione venne presentata una proposta in relazione all’art. 33 del progetto (oggi art. 37 Cost.) condivisa dal Partito comunista e dalla Democrazia cristiana che mirava a garantire alla donna “condizioni particolari che le consentano di adempiere al su lavoro e alla sua missione familiare” .
L’Onorevole La Pira propose di aggiungere l’aggettivo “prevalente” per caratterizzare la missione familiare della donna, registrando alcuni consensi. Fu così che l’Onorevole Moro, al fine di giungere ad una soluzione di compromesso per garantire tanto il diritto al lavoro della donna, quanto la tutela della sua funzione familiare, propose di sostituire l’aggettivo “prevalente” con l’aggettivo “essenziale”. In tal modo, secondo Moro, si sarebbe garantita l’essenzialità della missione familiare della donna, senza interferire con la sua attività di lavoratrice.
Tuttavia, l’espressione “essenziale” lasciava spazio ad interpretazioni diverse che rischiavano di restringere il principio di parità nell’ambito lavorativo. Ciò è dimostrato ad esempio dal confronto tra i Costituenti Mastrojanni e Basso.
Il primo, infatti, sosteneva come: “la parola «essenziale» abbia un significato dal quale non si possa prescindere, nel senso che si deve ritenere che la donna rimanga quanto è più possibile nella sua funzione naturale, e che il resto della sua attività nella vita pubblica e lavorativa sia considerato come accessorio e non come essenziale. Per queste ragioni propone che l'espressione «essenziale» rimanga nella formula, e che anzi ne sia meglio rafforzato il concetto, di modo che non possano sorgere equivoci per il futuro” .
Al contrario Lelio Basso ribadiva: “il rifiuto netto e reciso dell'aggettivo «essenziale», in quanto esso si potrebbe prestare alle pericolose interpretazioni che ne ha dato l'onorevole Mastrojanni. Come per l'uomo, così anche per la donna c'è una posizione di parità sia nel lavoro come nella vita familiare, perché entrambi hanno il dovere del lavoro e dell'assistenza alla famiglia” .
La proposta di Moro, tuttavia, fu approvata dalla Sottocommissione nonostante i voti contrari di Lelio Basso e Nilde Iotti, la quale dichiarò: “di votare contro l'aggiunta, non per il concetto espresso dall'articolo, che condivide, ma perché ritiene che la parola «missione» dica già da sé molto più di quanto possa dire con l'aggiunta di qualsiasi aggettivo” .
Il dibattito intorno alla tutela dell’essenziale funzione familiare della donna proseguì durante i lavori dell’Assemblea plenaria. È in questa sede che si registrarono posizioni contrastanti anche tra le stesse Costituenti. Infatti, una compagine compatta di dieci donne dell’ala sinistra dell’assemblea (Nadia Gallico Spano, Teresa Noce, Teresa Mattei, Elettra Pollastrini, Rita Montagnana Togliatti, Angela Merlin, Maria Maddalena Rossi, Adele Bei, Nilde Iotti, Angiola Minella; appartenenti tutte al Partito comunista, ad eccezione della socialista Angela Merlin) presentò un emendamento volto ad eliminare la locuzione “essenziale” poiché: “Se i redattori dell'articolo proposto non hanno voluto dare alla parola un significato particolare, si sopprima come uno dei tanti pleonasmi che infiorano la nostra Costituzione. E si sopprima pure, se i redattori hanno voluto usare quel termine con il significato limitativo che noi gli attribuiamo e che consacrerebbe un principio tradizionale, ormai superato dalla realtà economica e sociale, il quale circoscrive l'attività della donna nell'ambito della famiglia” .
Diversamente, la democristiana Maria Federici riteneva che la missione della donna:
“sia veramente essenziale, non dico per la famiglia, ma per la società intera, il lavoro della donna nella famiglia. Essenziale sì, la funzione familiare della donna. Io credo che appartenga alla esperienza di tutti, e quindi non solamente a quella dell'onorevole Calosso, che la donna dispieghi nella famiglia un complesso grandioso di attività, il cui valore è notevolissimo anche dal punto di vista economico” . Per tale ragione anche Maria Federici si associò alla dichiarazione di voto della Democrazia cristiana, contraria alla soppressione della parola “essenziale”, la quale fu definitivamente incorporata nel testo costituzionale.
Nonostante le divergenze interpretative appena ricordate si ritiene che il fine ultimo delle Costituenti - tanto della Democrazia Cristiana, tanto del Partito Comunista - fosse quello di promuovere l’attività lavorativa della donna, tutelandone allo stesso tempo la funzione familiare e materna. Non è un caso che le stesse donne che avevano foraggiato la soppressione della parola “essenziale” proposero, in linea con la democristiana Maria Federici, di introdurre un inciso volto ad “assicurare alla madre ed al fanciullo una speciale, adeguata protezione” .
Una volta entrata in vigore la Costituzione, è significativo osservare che la prima legislazione di attuazione dell’art. 37 Cost. fu prevalentemente volta alla tutela della maternità: si pensi alla legge n. 860 del 1960 ( “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”) e alla legge n 1204 del 1971 (“Disposizioni per il sostegno alla maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”) .
Torniamo però al peso che l’art. 37, come norma costituzionale dedicata alla donna lavoratrice, può e deve avere oggi: è evidente che, come ebbe modo di dire Bianca Bianchini (ragionando delle norme sulla scuola, ma con una affermazione di principio di più ampio respiro) “la Carta costituzionale deve essere intesa non soltanto quale specchio delle condizioni dell'attuale momento, ma porta aperta ad eventuali progressi, ad eventuali realizzazioni di esigenze spirituali vive nella nostra coscienza contemporanea” .
Tuttavia, tornando alle considerazioni iniziali, possiamo domandarci se il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., dal punto di vista formale e sostanziale e ribadito in relazione all’art. 37 Cost. dedicato alla donna lavoratrice non solo sia attuato, ma possa essere invocato oggi a conferma di una disparità di fatto e di diritto esistente, anche solo dal punto di vista delle differenze salariali. Differenze esistenti non solo nel settore privato, ma anche nel settore pubblico, dove fortunatamente gli stipendi sono equiparati e dove però la “essenziale funzione familiare” spesso conduce le donne a una forma di segregazione rispetto alla carriera, costringendole a chiedere forme di lavoro “part-time”, in alcuni settori di fatto limitativi di progressioni di carriera . Faticano poi, nel settore pubblico, ad affermarsi forme di “lavoro agile” o “smart working” che invece consentirebbe a molte donne di garantire una presenza lavorativa piena, conciliandola con il lavoro “di cura”.
Per non parlare del settore delle libere professioni dove le differenze reddituali sono altissime (per fare un esempio, le “avvocate” guadagnano in media il 68 % in meno dei colleghi uomini e non godono di garanzie di tutela rispetto alla maternità in ordine alla gestione della clientela) .
Vi è un quadro fattuale ancora sconcertante, se pensiamo che in concreto alle donne viene chiesto ancora nei colloqui di lavoro se sono sposate, se intendono avere un figlio; ancora, di fronte alla comunicazione dello stato di maternità, si assiste a modifiche delle mansioni, a rinnovi di contratti non più garantiti. Di fronte a questo scenario, sembra che i principi costituzionali restino muti, di fatto non assolvendo alla loro funzione, che, come la Corte costituzionale ha affermato in modo limpido nella sent. n. 81 del 2012, deve costituire la cornice di “legalità”, imprescindibile nell’ambito di uno Stato costituzionale come il nostro.
Credo quindi che questo sguardo al passato sia oggi a maggior ragione utile. Occorre rappropriarci della storia dei nostri principi costituzionali. Sia pur scritti faticosamente e con qualche tratto di “ambiguità”, essi sono la base sulla quale innestare nuove consapevolezze e legittime rivendicazioni di parità alle Corti e al Legislatore.

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