testo integrale con note e bibliografia
Dopo due anni di intensa mobilitazione, con una raccolta di 400 mila firme a sostegno e un pressing incessante su partiti e Parlamento, la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla CISL sulla partecipazione dei lavoratori è finalmente diventata Legge dello Stato. Si tratta di un risultato storico: solo in sette casi, prima d’ora, un progetto di legge popolare era riuscito a completare l’iter legislativo nell’intera storia repubblicana, e mai prima si era osato tanto, ovvero dare concreta attuazione a un principio costituzionale finora rimasto inattuato. L’approvazione di questa riforma rappresenta una forte discontinuità nelle relazioni industriali del nostro Paese, un’innovazione dirompente capace, se ben utilizzata, di innescare cambiamenti radicali nel modo di concepire e vivere le relazioni sociali e produttive in Italia.
Non tutti hanno subito colto la portata di questa innovazione, perché spesso il dibattito sul lavoro volge lo sguardo all’indietro, riproponendo schemi e antagonismi antistorici e insensati. Questa legge, invece, parla al futuro: è il coronamento di un percorso storico verso una piena cittadinanza dei lavoratori anche nella sfera economica e produttiva, oltre i cancelli della fabbrica e del luogo di lavoro. La partecipazione dei lavoratori alle decisioni d’impresa diventa uno strumento concreto per rafforzare insieme democrazia economica e sistema produttivo, riequilibrando il rapporto tra lavoro e impresa e contrastando derive di rendita e speculazione finanziaria.
La nostra Costituzione, all’articolo 46, riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro, in armonia con le esigenze della produzione. Questo principio fu frutto di un ampio dibattito in Assemblea Costituente.
Oltre a Giulio Pastore, convinto sostenitore della democrazia economica in azienda fu Giorgio La Pira, che concepiva l’impresa come una comunità di lavoro in cui tutti coloro che vi operano, a qualsiasi livello, sono membri di un unico organismo che trascende i singoli interessi; il lavoratore cessa di essere un semplice salariato e diventa partecipe a pieno titolo di questa comunità. Anche il leader sindacale Giuseppe Di Vittorio sostenne convintamente l’articolo 46, affermando la necessità che la Repubblica promuovesse la giustizia sociale e l’inclusione dei lavoratori nella democrazia. L’art.46 fu approvato con un vasto consenso trasversale, pensando proprio al suo valore di guida per il futuro delle relazioni industriali italiane.
Eppure, per oltre settant’anni è rimasto lettera morta, non è mai stato concretamente attuato da una legge ordinaria, malgrado diversi tentativi parlamentari nel corso del tempo. Le ragioni storiche di questa mancata attuazione risiedono in parte nella struttura economica del secondo Novecento. Nel modello industriale fordista, fortemente gerarchico, l’idea di far partecipare i lavoratori alla gestione d’impresa era percepita come un corpo estraneo, inconciliabile con l’organizzazione scientifica del lavoro che considerava l’operaio alla stregua di un esecutore passivo di mansioni decise dall’alto. In tale cultura, il conflitto tra capitale e lavoro era ritenuto fisiologico e l’unica tutela per i lavoratori risiedeva nella contrattazione collettiva e nell’azione rivendicativa, più che nella condivisione delle scelte gestionali.
Va però ricordato che, anche in assenza di una legge generale, nel corso dei decenni non sono mancati esempi virtuosi di partecipazione avviati mediante la contrattazione sindacale. Queste buone prassi aziendali, sviluppatesi dal basso, hanno ispirato la proposta di legge della CISL e dimostrato che la partecipazione può funzionare anche nella realtà italiana. Peraltro, già da alcuni anni l’ordinamento promuove indirettamente forme di coinvolgimento dei lavoratori: basti pensare ai benefici fiscali per i premi di risultato che vengono erogati sotto forma di partecipazione agli utili d’impresa, o all’ulteriore incentivo previsto per i contratti collettivi che introducono forme di coinvolgimento paritetico dei dipendenti nell’organizzazione del lavoro . Il terreno, insomma, era già in parte preparato: mancava solo una cornice legislativa nazionale che generalizzasse e sostenesse queste esperienze, dando piena attuazione al disegno costituzionale. Oggi, con la nuova legge, quel vuoto viene finalmente colmato.
La legge individua quattro forme principali di coinvolgimento dei lavoratori. La partecipazione gestionale riguarda il ruolo attivo dei dipendenti nelle decisioni strategiche dell’impresa – ad esempio con la presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione o di controllo – mentre la partecipazione economico-finanziaria consiste nella condivisione dei risultati economici d’impresa con il personale, attraverso meccanismi come la distribuzione di una quota degli utili (profit sharing) e piani di azionariato diffuso per i dipendenti . Vi è poi la partecipazione organizzativa, ovvero il coinvolgimento paritetico dei lavoratori nelle decisioni su come organizzare il lavoro quotidiano (dagli orari all’introduzione di nuove tecnologie, fino alle misure per migliorare qualità e sicurezza sul lavoro). Infine, la partecipazione consultiva si sostanzia nel diritto dei lavoratori a essere informati e consultati sulle principali decisioni aziendali che li riguardano.
La portata innovativa della legge sta anche nell’aver tracciato un confine netto attorno al concetto di partecipazione per evitarne usi strumentali o meramente cosmetici. Si afferma chiaramente che la vera partecipazione è alternativa sia all’antagonismo tradizionale, fondato sull’idea di un conflitto insanabile tra lavoro e capitale, sia al coinvolgimento unilaterale di facciata deciso dal management senza il coinvolgimento del sindacato. In altre parole, la legge promuove un modello di partecipazione autentica e bilaterale, che valorizza la collaborazione tra le parti in chiave non conflittuale ma al tempo stesso impedisce di etichettare come partecipazione pratiche aziendali di people care finalizzate a bypassare la rappresentanza collettiva. Coerentemente con questa impostazione, sarà la contrattazione collettiva a definire in dettaglio le regole applicative (ad esempio le modalità di scelta e di formazione dei rappresentanti dei lavoratori negli organi paritetici). Lungi dal ridimensionare le relazioni sindacali, la legge ne rafforza il ruolo: è uno strumento di potenziamento della democrazia industriale che sfida le parti sociali – e in primis noi sindacati – ad attuare questa nuova stagione partecipativa da protagonisti e non da semplici spettatori. Del resto, già oggi alcune imprese applicano volontariamente meccanismi partecipativi con ottimi risultati; la sfida ora è diffondere queste buone pratiche a tutto il sistema produttivo.
Completano il quadro normativo alcune disposizioni finali di rilievo. La legge estende l’applicazione di tutte queste misure anche alle imprese cooperative, opportunamente adattate alle peculiarità del settore. È inoltre istituita presso il CNEL una Commissione nazionale permanente per la partecipazione, con il compito di monitorare l’evoluzione delle prassi partecipative, raccogliere le migliori esperienze e fornire pareri interpretativi su quesiti applicativi posti dalle parti. Infine, per favorire la diffusione degli accordi di partecipazione, lo Stato ha previsto uno stanziamento dedicato (circa 72 milioni di euro) a sostegno degli incentivi concordati tra le parti in attuazione della legge. È un segnale concreto che valorizza la scelta partecipativa: senza imporre nulla dall’alto, si creano condizioni favorevoli per chi vuole intraprendere questa strada innovativa.
La CISL ha ritenuto urgente promuovere una legge sulla partecipazione per motivazioni insieme politiche, economiche e culturali, radicate nella nostra lettura del presente e soprattutto del futuro prossimo. Da troppo tempo il dibattito sul lavoro in Italia è ingessato su vecchie dicotomie conflittuali, quasi che l’unico schema possibile fosse quello antagonista ereditato dal Novecento: da una parte il capitale, dall’altra il lavoro, perennemente contrapposti. Questo approccio è non solo anacronistico, ma controproducente di fronte alle sfide epocali che stiamo vivendo. Insistere su una visione di conflitto irriducibile finisce per lasciare campo libero proprio alle forme più predatorie di capitalismo, perché impedisce di costruire soluzioni condivise. Occorre invece riconoscere che esistono spazi di interesse comune tra impresa e lavoratori, in cui la partecipazione può creare valore per entrambi, superando l’idea antiquata del conflitto a somma zero.
Sul piano economico-produttivo, poi, è ormai evidente che un modello di relazioni industriali fondato solo sul conflitto non è in grado di governare con successo le trasformazioni in atto. Le rivoluzioni tecnologiche in atto (digitale, intelligenza artificiale, piattaforme) rischiano di comprimere gli spazi di democrazia economica, concentrando il potere in poche mani. La partecipazione, invece, può introdurre nell’impresa logiche di corresponsabilità e di equilibrio, ampliando quella che potremmo chiamare la governance democratica dell’economia. La tendenza internazionale va nella stessa direzione: investitori e cittadini chiedono imprese più aperte e responsabili, in cui anche i lavoratori abbiano voce nelle decisioni.
Vi è poi l’obiettivo di rilanciare la produttività e l’innovazione senza sacrificare la coesione sociale. L’Italia soffre da tempo di una crescita stagnante della produttività del lavoro, un nodo che è indispensabile sciogliere se vogliamo far ripartire lo sviluppo economico e migliorare i salari. Non basta ridurre il costo del lavoro o inseguire la flessibilità: bisogna puntare sulla qualità del lavoro. Numerosi studi attestano che l’innovazione nei luoghi di lavoro nasce dall’interazione tra investimenti nelle competenze e pratiche partecipative. In altre parole, formare meglio i dipendenti serve a poco se poi essi non possono mettere a frutto le competenze perché esclusi dai processi decisionali; viceversa, quando i lavoratori hanno voce in capitolo e si sentono parte attiva dell’organizzazione, crescono la motivazione, la disponibilità al cambiamento e, di conseguenza, anche la produttività aziendale. Una partecipazione ben progettata fa convergere l’interesse dei lavoratori (migliori condizioni di lavoro e retribuzioni più elevate) con l’interesse dell’impresa (maggiore efficienza e redditività): su questa convergenza virtuosa abbiamo puntato nel proporre la legge.
Le ragioni sono anche sociali e culturali. I mutamenti demografici e generazionali in atto – dal progressivo invecchiamento della forza lavoro all’ingresso di giovani con aspettative nuove – impongono un ripensamento delle relazioni in azienda. Le nuove generazioni, in particolare, chiedono più partecipazione, trasparenza e qualità della vita lavorativa: non si accontentano di un lavoro inteso solo come fatica in cambio di salario, ma vogliono sentirsi parte di qualcosa, avere riconoscimento e opportunità di crescita. La partecipazione risponde anche a questa domanda, trasformando il luogo di lavoro in una comunità in cui ciascuno è valorizzato e non un ingranaggio anonimo. Inoltre il rapporto di lavoro è intrinsecamente incompleto: non tutto può essere previsto dal contratto e molte questioni emergono solo sul campo. Disporre di sedi di confronto partecipativo permette di affrontare insieme gli imprevisti e di costruire quella comprensione reciproca tra le parti che fa funzionare meglio l’organizzazione.
Infine, c’è una motivazione politica in senso stretto: difendere e rivitalizzare lo spazio di autonomia delle parti sociali nel nostro ordinamento democratico. Negli ultimi anni abbiamo avvertito segnali di un certo dirigismo da parte della politica, tendente a occupare ambiti propri della contrattazione. Si pensi, ad esempio, al tentativo di introdurre per legge un salario minimo senza coinvolgere i sindacati. Sul fronte opposto, alcune grandi aziende hanno cercato di bypassare la rappresentanza collettiva instaurando canali diretti con i dipendenti e offrendo unilateralmente benefici nel tentativo di rendere superfluo il sindacato. Entrambe queste tendenze indeboliscono la voce collettiva del lavoro. Con la nostra iniziativa abbiamo voluto invertire la rotta: la legge sulla partecipazione restituirà centralità alla contrattazione, dimostrando che le relazioni industriali possono evolvere con più condivisione, non con l’esclusione di una delle parti.
Se attuata con convinzione, la partecipazione può generare benefici tangibili tanto per il sistema-Paese quanto per le singole imprese e per gli stessi lavoratori. Possiamo riepilogare i principali impatti attesi:
• Più equità e trasparenza nei rapporti di lavoro: dando voce ai dipendenti nei processi decisionali si riduce l’asimmetria intrinseca nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Una partecipazione strutturata corregge questo squilibrio a favore della parte più debole, promuovendo relazioni interne più trasparenti e un clima di fiducia reciproca . Ciò significa meno arbitri nelle scelte unilaterali e più garanzie di rispetto per la dignità di chi lavora.
• Aumento della produttività e competitività dell’impresa: le aziende partecipative tendono a ottenere migliori risultati economici. L’apporto di idee e informazioni che proviene dai lavoratori può migliorare l’efficienza dei processi produttivi, con effetti positivi sulla redditività e sui margini operativi . Una migliore performance aziendale crea a sua volta lo spazio per incrementi retributivi e premi collegati ai risultati, in un circolo virtuoso per cui i progressi dell’azienda si riflettono anche sulle retribuzioni dei dipendenti.
• Innovazione organizzativa, maggiore controllo sul rispetto delle normative su salute e sicurezza, valorizzazione delle competenze: la partecipazione è un volano per diffondere pratiche organizzative moderne e per utilizzare appieno il capitale di conoscenze del personale. Coinvolgere anche chi opera sul campo nelle decisioni su come svolgere il lavoro mobilita creatività e iniziativa a tutti i livelli, aumentando la capacità di innovare e di adattarsi ai cambiamenti del mercato.
• Radicamento del lavoro e degli investimenti, argine alle delocalizzazioni, maggiore motivazione e soddisfazione dei lavoratori: il coinvolgimento accresce il senso di appartenenza e l’autoefficacia di chi lavora , aumentando la fidelizzazione e diminuendo stress e conflitti. Ne conseguono meno dimissioni volontarie (chi sta bene in azienda tende a restare) e meno vertenze, poiché molti problemi si risolvono in via preventiva senza degenerare in conflitti aperti.
Il varo di questa legge e’ per la CISL il raggiungimento di un traguardo epocale. È un punto di arrivo storico, ma soprattutto è un punto di partenza. Abbiamo aperto una strada nuova, dimostrando che è possibile aggiornare e innovare l’ordinamento in senso più democratico e partecipativo. Ora inizia un percorso impegnativo: dare concreta applicazione a questi principi nelle fabbriche, negli uffici, in tutte le realtà lavorative. Sarà necessario l’impegno di tutti – sindacato, imprese, istituzioni – per costruire davvero un ecosistema partecipativo diffuso.
Guardiamo al domani e al bene comune, senza nostalgie del passato, ma con una visione di progresso condiviso . Se sapremo attuarla pienamente, la nuova norma potrà inaugurare una stagione di collaborazione e crescita, in cui la dignità del lavoro e la competitività del nostro sistema produttivo cammineranno finalmente fianco a fianco. Ora spetta davvero a ognuno di noi.