testo integrale con note e bibliografia

Quello della partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese è tema tanto antico, quanto complesso, articolato e, per certi aspetti, persino contraddittorio. Ha radici profonde nel dettato costituzionale e, pur tuttavia, controverse ne sono la materia e il merito.

A ben vedere, l’insieme delle norme della nostra Legge fondamentale che riguardano il lavoro sono caratterizzate da limiti attuativi, non intrinseci, ma da attribuire a un contesto economico e politico che, nel corso dei decenni, non ha saputo valorizzare l’impegno dei Padri costituenti a fondare la neonata Repubblica proprio sul lavoro. Basti pensare al dibattito che, ancora oggi, ruota intorno agli articoli 39 e 40, sulla rappresentanza e sul diritto di sciopero, ma anche all’articolo 36, forse il più disatteso di tutti, se è vero, come è vero, che, in Italia, persiste, irrisolta, una vera e propria questione salariale.

Di recente, invece, la legge 76 del 15 maggio 2025 sembrerebbe aver dato una risposta compiuta all’articolo 46 della Costituzione, quello che, per l’appunto, richiama il tema della partecipazione. In realtà, è solo un’illusione ottica. Altre sarebbero state le strade da seguire.

Peraltro, la storia sindacale illumina questa vicenda con chiarezza e rende inequivoche le posizioni delle singole organizzazioni sull’argomento in oggetto. La Uil, in particolare, ha sempre adottato un’impostazione in linea con la sua matrice laica e riformista. Ne sono eloquente testimonianza alcune posizioni espresse persino in sede congressuale, a partire da quasi mezzo secolo or sono, che rimandano a una visione non ideologica, ma di merito e di sostanza, che riemerge con puntualità in occasione del riaccendersi del dibattito sul tema.

A tal proposito, risalendo quasi alle origini della questione, vale la pena ricordare che, il 29 giugno del 1977, a Bologna, il VII Congresso della Uil, si aprì con una relazione dell’allora Segretario generale, Giorgio Benvenuto, dal titolo decisamente evocativo: “Un Sindacato di partecipazione, per l’unità tra i lavoratori, i disoccupati, i giovani, le donne”. La questione, allora, era soprattutto “politica”, per così dire, e atteneva, in particolare, “alla partecipazione del sindacato alla determinazione delle scelte del Paese”. Poco più avanti nello stesso testo si può leggere anche che “a questa espressione noi diamo un significato più ampio e in sé più vitale e positivo di quello che usano dare alcuni settori imprenditoriali. L’iniziativa sindacale, quando si sorregge su una linea di progresso e di crescita civile, è sempre una forma di partecipazione anche quando si esprime in forme conflittuali. La nostra concezione della democrazia e del rapporto tra le forze sociali ci porta a vedere nella partecipazione un elemento di dialettica sul quale si costruisce la politica di rinnovamento della società italiana. È per questo che rifiutiamo modelli astratti di ingegneria istituzionale che finirebbero con il comprimere, se non proprio pregiudicare, la ricchezza e la pluralità dei contributi che la società sa esprimere”.

Peraltro, anche il successivo Congresso, l’ottavo, che si celebrò a Roma dal 10 al 14 giugno del 1981, ripropose il tema più specifico della democrazia industriale, in una relazione di apertura, sempre di Giorgio Benvenuto, dal titolo più che eloquente: “Anni ‘80: dall’antagonismo al protagonismo”.

Nel corso della sua storia, dunque, la Uil ha considerato la partecipazione un valore fondamentale ed essenziale, ma non assoluto ed esclusivo, valido nella misura in cui si conferma come strumento per l’attuazione delle rivendicazioni a tutela delle lavoratrici e dei lavoratori. Insomma, per la Uil, l’idea di un’economia della partecipazione riconducibile allo slogan “metti un’azione nella busta paga” - immagine rievocata criticamente da Piero Craveri e Giuseppe Pignatelli, nel libro Per una riforma delle relazioni industriali - non rappresentava e non rappresenta, di certo, il punto di approdo di un percorso privilegiato.

Insomma, si fa presto a dire “partecipazione”, perché le declinazioni di questa modalità di relazioni industriali possono essere diverse tra loro e, nella migliore delle ipotesi, anche in presenza di una concordanza di vedute, può cambiare di molto la gerarchia e la priorità delle opzioni in campo.

Pur collocandosi in questo contesto, dunque, la Uil ha esplicitato la propria posizione, esprimendosi a favore della realizzazione di un modello duale, anche al fine di separare i diversi ambiti di competenza delle parti coinvolte. Da un lato, cioè, vi deve essere il Consiglio di amministrazione, con le sue specificità e le sue responsabilità, all’interno del quale è davvero difficile immaginare la presenza dei rappresentanti dei lavoratori. Il motivo è semplice: occorre evitare sia che si determinino sovrapposizioni di ruoli con il management sia che si indeboliscano le funzioni delle rappresentanze sindacali. Dall’altro, invece, ci sono tutte le condizioni per prevedere una rappresentanza dei lavoratori nell’ambito dei Consigli di sorveglianza, oltreché nei Comitati aziendali europei. Questi sono gli spazi giusti e adeguati per esercitare la partecipazione con la maggiore efficacia possibile, evitando commistioni e salvaguardando le tutele e i diritti contrattuali. Non si può rischiare, infatti, di depotenziare e ridurre il peso della contrattazione collettiva, lasciando campo libero alla discrezionalità delle imprese e alle previsioni statutarie.

Peraltro, c’è da chiedersi quali sarebbero i criteri in base ai quali poter scegliere con trasparenza i soggetti da far partecipare al Consiglio di amministrazione: si dovrebbe ricorrere a una sorta di cooptazione? E su quali basi? Secondo quali logiche? Anche l’ipotesi di un’elezione da parte delle lavoratrici e dei lavoratori genererebbe alcune clamorose contraddizioni: la stessa platea si troverebbe nella condizione di scegliere il proprio Rsu, ma, al contempo, anche il soggetto che, dal fronte del CdA, si potrebbe contrapporre a quel rappresentante. Meglio separare compiti e competenze, dunque, e sviluppare il modello duale, con il rafforzamento dei Consigli di sorveglianza e, al loro interno, con l’incremento della quota di rappresentanti della parte contrattualmente più vulnerabile.

L’altro aspetto fondamentale sarebbe quello di garantire un’adesione a questo modello partecipativo la più ampia e diffusa possibile, se non addirittura generalizzata. Non si possono escludere settori pubblici e servizi essenziali, così come occorrerebbe assicurarne concretamente la fruizione anche al mondo delle piccole imprese, che costituiscono la gran parte del tessuto produttivo italiano.

Per quel che riguarda, poi, l’aspetto specifico della cosiddetta partecipazione economica e finanziaria, che presenta diverse sfaccettature, a partire da alcune forme di azionariato o di partecipazione dei dipendenti agli utili sino alla partecipazione alla gestione diretta dell’impresa da parte dei propri rappresentanti, la Uil ha già espresso alcune perplessità. Sia ben inteso, non ci sono pregiudiziali per questo tipo di coinvolgimento, ma sicuramente non si tratta di una questione prioritaria. Soprattutto, la preoccupazione è che senza una regolamentazione stringente, vincolata a specifici accordi sindacali, che siano in grado di garantire trasparenza, equità e volontarietà nell’adesione, vi possa essere il rischio, come già accennato in precedenza, che questi strumenti vengano utilizzati per sostituire altre forme di retribuzione o anche che si indebolisca il potere negoziale delle lavoratrici e dei lavoratori.

Bisogna evitare, insomma, che un concetto distorto di partecipazione finisca per andare a discapito della contrattazione collettiva. Quest’ultima, invece, deve essere rafforzata, in particolare quella di secondo livello, anche per favorire una maggiore diffusione della stessa partecipazione nelle aziende di dimensioni più ridotte, per regolamentare più efficacemente i piani di azionariato, per evitare che si istituiscano figure le cui funzioni si sovrappongano a quelle già svolte dalle Rsu, dalle Rsa o dagli Rls, per ripristinare l’architettura della partecipazione consultiva e per riequilibrare quella organizzativa.

In estrema sintesi, un efficace modello partecipativo deve saper cogliere la complessità del nostro sistema produttivo, valorizzando il ruolo delle lavoratrici, dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali, oltreché della contrattazione a tutti i suoi livelli. Sarà così possibile affrontare le sfide della transizione, dell’intelligenza artificiale, della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica, in un contesto produttivo più giusto, più sostenibile e più democratico.

Peraltro, in questa particolare fase storica, sono altre le priorità e le urgenze che il Sindacato è chiamato ad affrontare. C’è, innanzitutto, una questione che attiene alla scarsa qualità dell’occupazione, con una precarietà sempre più diffusa e, per così dire, invalidante. Sono tantissimi, infatti, i giovani disoccupati o con il contratto a tempo determinato o in part-time involontario che, per queste ragioni, non riescono a programmare la propria vita, perché non possono avere un finanziamento, non possono fare un mutuo, non possono costruirsi un futuro. Dopo quella su “Zero morti sul lavoro”, la Uil ha dato vita a un’altra campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, delle Istituzioni e della politica affinché siano date risposte concrete a queste situazioni, così da trasformare quei “lavoratori fantasma” in persone.

Inoltre, per certi aspetti connesso al precedente, c’è il tema del lavoro povero. In Italia esiste, ormai da tempo, una questione salariale che riguarda sia molta parte dei giovani precari sia coloro che hanno perso potere d’acquisto e sono in attesa dei rinnovi contrattuali sia chi è costretto a sottostare a contratti pirata, firmati da sedicenti associazioni sindacali e datoriali senza alcuna rappresentatività, che, a loro uso e consumo, cuciono addosso alle lavoratrici e ai lavoratori solo contratti di taglia small, in termini normativi e salariali. Ecco perché diventa urgente definire la questione della rappresentanza, così da avere dei parametri codificati per la misurazione del peso di ogni singola parte sociale che sarà abilitata alla sottoscrizione di contratti solo al raggiungimento di precisi requisiti.

In realtà, esiste già un accordo interconfederale, firmato da tutti, che stabilisce questi criteri, peraltro operativi e funzionanti nel pubblico impiego: andrebbe concretamente attuato anche nel privato. A tal proposito, sarebbero sufficienti solo due norme di sostegno a quell’intesa: una, per obbligare i datori di lavoro a comunicare il numero degli iscritti alle singole organizzazioni sindacali; l’altra, per fissare un election day anche in tutti i settori privati.

Ecco, sarebbe molto più utile se ci si concentrasse su questi aspetti che hanno ripercussioni concrete nella vita quotidiana di milioni di lavoratrici e lavoratori. Definire la questione della rappresentanza e rappresentatività significherebbe affrontare e risolvere, a cascata, il tema dei salari bassi e, in qualche misura, anche quello della precarietà.

Proprio mentre scriviamo, ha preso il via un confronto tra i sindacati e la Confindustria che, all’ordine del giorno, vede inseriti alcuni di tali argomenti. L’auspicio è che chi legge possa aggiungere alle riflessioni di questo testo anche la notizia di un positivo avanzamento di quel dialogo interconfederale. Vorrà dire che saremo sulla strada giusta per mettere, finalmente, al centro dell’attenzione questioni vitali per le lavoratrici e i lavoratori di questo Paese.

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