Testo integrale con note e bibliografia

 

1. L’inchiesta condotta tra Ottobre e Novembre del 2020 dalla Rete lavoratrici e lavoratori Agili – Italia conferma sul piano empirico, coerentemente con i risultati di altre coeve rilevazioni , alcune considerazioni che erano prontamente emerse nel dibattito scientifico .
Ma prima di addentrarci nella disamina dei dati è forse utile, per meglio inquadrare i risultati del questionario somministrato, sottolineare due aspetti di ordine generale che l’inchiesta ci restituisce già in prima battuta.
Il primo attiene alla composizione della popolazione intervistata.
In particolare, il grafico a torta relativo all’inquadramento ci evidenzia quello che in realtà già sapevamo. Lo smart working, lavoro agile, remotizzato, home working, o come lo si voglia chiamare, non è per tutti. Taglia fuori di netto quasi completamente il lavoro operaio. Che infatti troviamo relegato alla soglia, poco più che simbolica, dello 0,7% degli intervistati. Dunque anche questa rilevazione ripropone, anzitutto, quella dicotomia, che un tempo si sarebbe detta tra colletti bianchi e tute blu. E che forse troppo presto, a partire dal cd. inquadramento unico in poi , il diritto del lavoro ha ritenuto superata.
Salvo osservarne la riemersione, da ultimo e proprio con riferimento allo smart working, nelle polemiche che hanno preceduto e accompagnato le trattative dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego .
Allo stesso tempo, come evidenziano i coevi dati Istat, il lavoro agile non riguarda (e non riguarderà) allo stesso modo tutti i comparti e le filiere merceologiche .
E già queste due osservazioni dovrebbero indurre ad una qualche moderazione i commentatori più enfatici. Il lavoro agile non è il futuro prossimo del lavoro tout court. Anche se sembrerebbe rappresentarne, in molti ambiti, e per una quota parte rilevante dei lavoratori attuali, un’attendibile anticipazione.

2. Il secondo dato da sottolineare è la valutazione essenzialmente positiva sullo smart working che accomuna gli intervistati.
Certo, per avere una più realistica comprensione del rapporto costi/ benefici indotti dalla remotizzazione del lavoro, durante e oltre l’emergenza, al diffuso gradimento tra i lavoratori occorrerebbe affiancare anche la rilevazione delle opinioni dei loro datori di lavoro, e degli utenti e clienti finali.
Ma tant’è, limitiamoci qui all’inchiesta che ci occupa, tanto più che il dato, plebiscitario, appare inequivocabile. Nel tracciare un bilancio complessivo dell’esperienza, chi ha lavorato in smart working durante la fase emergenziale ed ha, dunque, potuto saggiare l’incidenza di questa modalità organizzativa direttamente sul proprio equilibrio vita/lavoro, vuole continuare o tornare a farlo (95%).
Sia pure, beninteso, auspicando adattamenti normativi e regolatori, la cui entità viene però resa nella relazione che accompagna i dati rilevati con la formula effimera e semplicistica “purché sia realmente smart e con le dovute tutele”.
Ora, quella formula, nella prima parte sembra alludere alla constatazione che, nell’esperienza del lavoro remotizzato per causa di forza maggiore, di agile o smart c’è stato, invero, molto poco, per non dire niente.
Si è trattato di home working. O per dirla ancora più chiaramente, del buon vecchio telelavoro domiciliare, di cui magari pensavamo di esserci disfatti, al pari di altri ritrovati tecnologici novecenteschi, ormai superati o non più aggiornabili.
L’indagine della Rete lavoratrici e lavoratori Agili – Italia conferma, in sostanza, quanto era intuibile sin dal primo lock down. Incalzati dall’emergenza, i lavoratori remotizzati hanno continuato a fare quello che facevano prima. Solo lo hanno fatto da casa.
Ma senza ricevere alcuna formazione e, soprattutto, senza alcuna riorganizzazione delle attività e dei processi di produzione. Tant’è che il dato forse più vistoso dell’intera rilevazione è che addirittura il 94,2% degli intervistati, ancora ad Ottobre e Novembre 2020, ha riferito che la struttura organizzativa precedente è rimasta tale e quale. E cioè, con la stessa composizione del team di lavoro, identici riporti gerarchici e le medesime procedure interne. Tutto “pietrificato” allo status preesistente, quando il lavoro si svolgeva nella sede aziendale.
Solo che l’assenza di processi di riorganizzazione del lavoro realizza, in realtà, una contraddizione eclatante della ratio profonda dell’istituto, anche a dispetto della inessenzialità all’interno della fattispecie legale costruita da un legislatore troppo preoccupato di non dare agibilità al contenzioso attivando l’ennesimo controllo casuale .
Il dato sulla mancata riorganizzazione dei processi di lavoro, non solo certifica una sorta di sviamento funzionale dell’istituto , ma registra un clamoroso ritardo sul fronte della capacità di adattamento delle imprese e amministrazioni italiane.
Ritardo che se era da mettere in conto nella prima fase emergenziale, nell’attuale seconda o terza fase appare, inevitabilmente, molto meno giustificabile.

3. La rilevazione effettuata mostra poi anche che la domiciliazione coatta del lavoro d’ufficio – a certificarla tale il dato del 95,2% degli intervistati che ha risposto di lavorare ormai abitualmente esclusivamente dalla propria abitazione - non è stata, e non poteva essere, un’esperienza smart.
Certo nessuno degli intervistati si è mai atteso che lavorare da remoto equivalesse a portare occasionalmente a casa del lavoro il fine settimana. Ma forse neppure immaginava quanto poi emerso. L’essere di fatto tenuti, senza alcuna preparazione, e senza soluzione di continuità, a replicare la prestazione di lavoro normalmente svolta in ufficio dalla propria abitazione, accanto ai propri familiari, utilizzando e condividendo con loro i propri strumenti di lavoro, ci dice la ricerca, ha significato, non solo subire uno stravolgimento della dimensione professionale, ma anche affrontare una invasione degli spazi e dei tempi di vita familiare senza precedenti.
Invasione che si è spinta ben oltre i noti fenomeni di time porosity le cui criticità sono da tempo evidenziate in letteratura.
Allo stesso tempo, tutto questo ha fatto registrare anche un inaspettato impoverimento nelle relazioni interpersonali, dovuto, come dimostra la ricerca, ad un imprevisto decalage nelle interazioni tra colleghi ed alla più generale chiusura dell’orizzonte relazionale e geografico nel ristretto ambito domestico.
Sempre la ricerca, ci spiega che tutte queste conseguenze collaterali non sono state affatto taumaturgicamente ovviate, ma neppure sufficientemente compensate, da una sin troppo sopravvalutata socialità di matrice digitale.
Di qui, con ogni probabilità, nasce anche la richiesta diffusa tra gli intervistati della garanzia di mantenimento della propria postazione di lavoro aziendale.
Solo che il vagheggiato ritorno “alla normalità” della postazione fissa “garantita per tutte e tutti in Azienda”, suona inevitabilmente contraddittorio rispetto alla dichiarata volontà di continuare a lavorare in smart working (e non semplicemente remotizzati in casa) anche dopo la pandemia.
Traspare nella filigrana delle risposte la paura dell’irreversibilità, e forse anche il timore di ritrovarsi improvvisamente nella propria azienda, non più come un intraneus, come “uno di casa”, ma come “un ospite”, al pari dei fornitori di servizi. Del resto, nella più parte dei casi, la remotizzazione in massa cd. emergenziale non è stata una scelta individuale ponderata, ma un’imposizione generalizzata. Dunque è stata immancabilmente vissuta come una sorta di salto nel vuoto ad occhi chiusi per sfuggire ad un pericolo peggiore, fosse il contagio o la disoccupazione.
Senonché, per mantenere viva quella dimensione socializzante che gli intervistati evidentemente correlano tutt’oggi alla presenza contestuale nel medesimo luogo e tempo di lavoro, un conto è chiedere il riconoscimento del diritto al rientro periodico in sede, come già avveniva col telelavoro .
Tutt’altro è pretendere che l’organizzazione agile del lavoro abdichi a quel progetto di disarticolazione della contestualità spazio temporale, incarnato icasticamente dal taglio delle scrivanie, per cui è nata e che ne costituisce la ragion d’essere.

4. Le risposte al questionario confermano anche un'altra criticità prontamente evidenziata nella letteratura. L’esperienza del lavoro agile emergenziale ha avuto ben poco a che fare anche con la volontarietà. Non poteva essere altrimenti.
Nondimeno quando leggiamo che il 74,1% degli intervistati ha potuto soltanto prendere atto della decisione aziendale, e vi aggiungiamo l’ulteriore 10,6% che ha diligentemente eseguito la “decisione” del proprio “team di lavoro”, prima di gridare alla sovversione del modello dettato dalla l. n. 81 del 2017, dobbiamo chiederci quali reali alternative avesse ciascuna di quelle aziende nel contesto eccezionale in cui sono state prese le singole determinazioni di remotizzare il lavoro.
Anche se questo poi non toglie che già nell’impianto della l. n. 81 del 2017 la consensualità venisse rimessa ai rapporti di forza tra le parti individuali del contratto di lavoro. E, dunque, nella grande maggioranza dei casi scolorava nell’unilateralità datoriale .
Piuttosto, appurato che non sussiste un generale diritto soggettivo di lavorare in modalità agile , già si pone, e crediamo si porrà sempre più in futuro, il tema della corretta ripartizione delle occasioni di lavoro smart. E forse anche della valutazione giudiziale del rifiuto opposto dal datore di lavoro, nei casi in cui, per ragioni di salute o conciliazione, lavorare da remoto rappresenta l’unica reale alternativa al non lavorare e tra i richiedenti è rilevabile un differenziale nelle esigenze di cura o conciliazione .
Ragione per cui proprio su questi più specifici profili, che attengono alla distribuzione della domanda di lavoro smart, sarà bene iniziare a raccogliere per tempo informazioni ed acquisire contezza dell’esperienza concreta.

5. Per il resto, i dati confermano quanto già emerso in alcune pregresse rilevazioni . Lavorare da remoto non significa certo lavorare meno.
A fronte di un 50% di intervistati che ha riferito che l’orario di lavoro è rimasto invariato, ed appena un 7% per i quali è diminuito, ben il 43% ha riferito di avere aumentato il proprio orario di lavoro. Ed il 37% ha dichiarato di avere impiegato lavorando di più il tempo risparmiato per i mancati spostamenti casa/lavoro.
Il tutto con la (più che prevedibile) difficoltà nell’ottenere il riconoscimento economico degli straordinari effettuati. Cui si è aggiunta la (più che giustificata) percezione della impalpabilità del diritto alla disconnessione. Non foss’altro che per il fatto che questo fondamentale presidio è demandato ad accordi, che qui, del tutto legittimamente, non ci sono stati . E persino (più inaspettatamente) con l’ulteriore difficoltà di godere delle pause, visto che il 64% degli intervistati ha riferito di non essere riuscito ad interrompere il lavoro a propria discrezione.
Dati questi che vanno, però, considerati e bilanciati con quello del 59,4% di intervistati che ha giudicato, comunque, migliorata l’elasticità nella propria gestione dell’orario di lavoro.
Si è lavorato di più, dunque, e sembrerebbe anche meglio.
Stando al campione rilevato il 61,8% degli intervistati ha giudicato la propria performance meno dispersiva e più efficiente.
Cosa che non dovrebbe poi sorprendere, visto che lo smart working, al di là della molteplicità di esternalità positive che pure conosciamo, dovrebbe anzitutto, contribuire a migliorare la produttività.

6. Il versante dove la rilevazione mostra, almeno apparentemente, maggiori criticità è quello della salute e sicurezza.
Ad Ottobre 2020, secondo i risultati di questa rilevazione, un’azienda su due non aveva ancora aggiornato al lavoro da remoto il DVR.
In questo contesto, sostanzialmente un lavoratore su due ha valutato la propria postazione di lavoro inadeguata quanto a illuminazione, ergonomicità e climatizzazione.
Completano il quadro l’assenza di formazione, il già ricordato fenomeno di diffuso overwork e l’utilizzo di strumentazioni informatiche personali o domestiche, visto che solo nel 3,3% dei casi è stata l’azienda a fornire un dispositivo per collegarsi alla rete.
Ora, specie con riguardo alla sicurezza e salute, a mio avviso, occorre, necessariamente, sforzarsi di distinguere gli effettivi standard di protezione previsti dall’ordinamento dalla percezione diffusa della loro violazione.
Il punto è, infatti, che gli intervistati, avendo, come visto, viepiù telelavorato da domicilio, istintivamente, ed in un certo qual modo anche comprensibilmente, rivendicano ora quel diritto alla ergonomicità della postazione e quella responsabilità finale del datore di lavoro per le strumentazioni informatiche impiegate che sono propri, però, del telelavoro . Senza troppo badare che nello smart working le regole sono altre, e la postazione fissa di lavoro è (rectius dovrebbe essere) un’eresia.
Mentre andrebbe considerato che già ai sensi dell’art. 18, co. 2, della legge n. 81 del 2017 il datore di lavoro è responsabile esclusivamente della sicurezza e del buon funzionamento degli “strumenti tecnologici” che ha “assegnati” al lavoratore per lo svolgimento dell'attività lavorativa. Inoltre, l’art. 90 del d.l. n. 34 del 2020, per fronteggiare l’emergenza Covid19, ha pure precisato che “la prestazione lavorativa in lavoro agile può essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro”.
Non solo, ha anche consentito l’assolvimento in via semplificata dell’obbligo di informativa sulla sicurezza, e cioè anche telematicamente, utilizzando la modulistica di tipo generale INAIL, che fa riferimento genericamente ai rischi in astratto avvertibili nei contesti indoor privati, come negli ambienti outdoor .
Residua la questione del mancato aggiornamento il DVR. Ma se pure si accede, come sembra corretto, alla tesi che ogni remotizzazione comporta un cambiamento delle condizioni e dell’ambiente di lavoro, e pertanto richiede di valutare i rischi connessi, resta che, senza la previa definizione di uno specifico luogo di lavoro, e nell’impossibilità pratica di verificare la salubrità degli ambienti ispezionando casa per casa, nella fase emergenziale l’aggiornamento del DVR, con ogni probabilità, avrebbe al più comportato la trascrizione delle molteplici generiche tipologie di rischio astrattamente riscontrabili che già erano censite dall’informativa INAIL.

7. Veniamo al dato sull’impiego del tempo liberato per effetto del mancato spostamento casa/lavoro.
Qui, accanto ad un 31,7% di intervistati che dichiara di averlo utilizzato per lavorare di più, spicca il dato di coloro (44,8%) che affermano di averlo speso in obblighi di cura.
La questione è delicata e meriterebbe un approfondimento specifico . Va da sé che la funzione di conciliazione è indiscutibilmente propria dell’istituto.
Ma è pure innegabile che nelle famiglie italiane grava tutt’ora come un macigno la sproporzione nell’adempimento delle obbligazioni di cura, che troppo spesso ricadono quasi esclusivamente o, comunque, in maniera preponderante, sui componenti di genere femminile.
Ne discende quantomeno il sospetto, che tra domiciliazione coatta, superlavoro, pause e disconnessioni aleatorie, incremento del tempo di cura, per molte lavoratrici agili si possa essere effettivamente materializzato quell’“incubo” cui si fa cenno nella relazione di accompagnamento ai dati.

8. C’è poi il versante della ricerca dedicato alla partecipazione sindacale.
I dati sull’interesse sindacale dei lavoratori agili intervistati è di difficile lettura.
Se è pressoché stabile il dato di chi ha sempre partecipato ad assemblee e discussioni sindacali che, nella sostanza, si attesta ad uno su tre degli intervistati (il 37,4% prima dell’emergenza covid-19, il 33,3% dopo, nonostante le restrizioni); sembra ridursi il dato di coloro che non hanno mai partecipato agli incontri sindacali (dal 34,8% scende al 19,1%); ma questo risultato viene poi compensato da coloro (il 23,5%) che dichiarano di non partecipare più dopo le misure anti-covid19.
Una qualche volatilità dei dati, si potrebbe anche spiegare, con elementi di contesto: quanta attività sindacale si è fatta in questi mesi? E con quali strumenti? Anche considerato che lo Statuto dei lavoratori è pensato per relazioni sindacali in presenza.
Nondimeno, nel complesso la rilevazione evidenzia una visione piuttosto ottimistica dei lavoratori agili, direi con toni e accenti da metà Novecento, per cui: la rappresentanza sindacale dei lavoratori da remoto sarà sempre più utile (58,3%) ; il lavoro da remoto condurrà a nuovi diritti per il 59,5% degli intervistati; e le nuove garanzie le porterà il contratto collettivo nazionale (79%).
Ci asteniamo da troppo facili esercizi di scetticismo, che solo il futuro ci dirà.

9. Lo scopo dichiarato di questa indagine era contribuire alla costruzione di una narrazione basata sulle condizioni reali delle e degli smart workers in carne e ossa.
Ma la realtà, si sa, è sempre irrimediabilmente complessa.
Inevitabilmente, ci ritroviamo in conclusione a fare i conti con una immagine della realtà molto sfaccettata, che, come in un caleidoscopio, è in grado di rifrangere, perlomeno nella percezione degli intervistati, un lavoro: più rigido, meno solidale, più invadente, poco smart, (apparentemente) poco sicuro, più faticoso, meno partecipato, per certi versi più costoso (il 93,8% degli intervistati ha sostenuto i costi della rete internet personale o domestica utilizzata, uno su due ha utilizzato un proprio pc, spesso acquistandolo senza alcun rimborso), per altri versi meno remunerativo (v. il mancato riconoscimento degli straordinari e la negazione dei ticket restaurant), alle volte persino illecito .
Eppure, paradossalmente, così attrattivo.

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