Testo integrale con note e bibliograifa

1) I tre segmenti normativi: permanenti criticità interpretative
E’ osservazione largamente condivisa che, a distanza di 11 anni dalla legge Fornero del 2012 e di 8 dal decreto legislativo intitolato al “Contratto a tutele crescenti” (2015), l’applicazione della disciplina dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo continua a presentare notevoli difficoltà, malgrado lo sforzo di sistemazione operato (e solo in parte riuscito) dalla giurisprudenza.
Criticità forse prevedibili considerato il carattere di forte rottura e discontinuità ideale delle norme appena richiamate rispetto a una inveterata tradizione garantista del nostro ordinamento e la conseguente inevitabile reazione di rigetto di una giurisprudenza e più in generale del corpo sociale che poco hanno apprezzato l’operazione di allentamento della tutela del posto di lavoro.
Sul tavolo del Giudice arriva, così, un materiale magmatico sotto il quale si agitano ancora contrapposte correnti di pensiero e incandescenti fuochi ideologici.
Il tema del licenziamento per g.m.o. può essere scomposto in 3 segmenti normativi distinti, ancorché in qualche modo interconnessi:
a) la nozione di g.m.o. imperniata sulle ragioni inerenti alla attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa dalla cui presenza o meno dipende l’esito del vaglio di legittimità del licenziamento;
b) il distinguo, rilevante solo nello schema dell’art. 18, tra l’insussistenza del fatto “oggettivo” posto a base del licenziamento e le “altre ipotesi” di licenziamento illegittimo; distinguo che non rileva invece nel contesto del D.lgs. n. 23 del 2015;
c) il regime sanzionatorio con l’alternativa tra reintegrazione e indennizzo e una diversa modulazione quantitativa delle indennità.

2) La nozione di G.M.O.: irrilevanza delle finalità ultime della modifica organizzativa
La nozione del g.m.o. ha sollecitato non da oggi un ampio dibattito interpretativo.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha tuttavia ormai fornito sul punto un contributo decisivo, con forti valenze di nomofilachia, disegnando una soluzione che può essere condivisa o meno, ma che ormai costituisce diritto vivente.
A partire infatti dalla nota sentenza della Cassazione n. 25201/2016, con un orientamento stabilizzato, la Suprema Corte ha escluso il rilievo delle ragioni economiche o produttive che sono a monte della soppressione del posto occupato dal lavoratore licenziato: qualsiasi modifica dell’assetto organizzativo che comporta l’esubero di una posizione lavorativa integra il g.m.o., irrilevanti essendo le motivazioni economiche e/o le finalità dell’intervento caducatorio.
Financo l’obiettivo di una riduzione dei costi, di un incremento del profitto o la presenza di una crisi economica congiunturale possono legittimare la soppressione di un posto di lavoro; che è autosufficiente al fine di integrare la fattispecie del g.m.o. e quindi a giustificare il licenziamento.
La Cassazione argomenta sul punto con il principio - implicito nell’art. 41 Cost. ed esplicito negli artt. 30, c. 1, della legge 183/2010 e 1, c. 43, della legge 92/2012 – che arresta il controllo giudiziale sulla soglia della discrezionalità organizzativa dell’imprenditore e del merito delle sue scelte.
In realtà non sembra necessario scomodare tali discussi assunti normativi poiché l’art. 3 della legge 604/66 non richiede – come pure avrebbe potuto fare – un requisito finalistico ulteriore rispetto alla mera presenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive. Del resto se lo avesse fatto – se ad esempio avesse inserito un presupposto di crisi economica – questo sarebbe divenuto un requisito non di merito ma di legittimità del licenziamento, un ulteriore espresso limite all’esercizio del potere di recesso datoriale sindacabile dal Giudice e non precluso al suo controllo dalla libertà della iniziativa economica.
Dunque, a rendere irrilevanti le motivazioni ultime della modifica organizzativa non è il limite posto dalle sopra richiamate norme alla valutazione giudiziale bensì proprio la formula utilizzata dall’art. 3 della legge del ’66.
Della estraneità delle motivazioni ultime alla formula del g.m.o. va però ricordata una criticità applicativa: quid se il datore adduce espressamente specifiche motivazioni che colorano finalisticamente la modifica organizzativa? La giurisprudenza ritiene di massima che in tal caso il datore sia vincolato a fornire prova della esistenza e veridicità di tali motivazioni e che la mancata prova si traduca in illegittimità del licenziamento, anche se in tal caso sarebbe appropriato ipotizzare un regime sanzionatorio puramente indennitario.
Sul piano casistico è ormai acclarato che il g.m.o. di licenziamento si realizza anche in presenza di un incremento del tasso di informatizzazione o l’inserimento di nuove tecnologie nel processo produttivo; di processi di esternalizzazione; di ripartizione delle mansioni tra gli altri lavoratori, dirigenti o titolari dell’impresa; di alleggerimento della catena di comando.
Ovviamente non integra un g.m.o., in quanto non realizza una soppressione del posto, la mera sostituzione di un lavoratore con altro meno costoso o più produttivo o con un lavoratore somministrato.

3) Il distinguo tra l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento e “gli altri casi”; il mancato repechage
Come già accennato, incertezze interpretative si presentano riguardo a un distinguo presente solo nel testo dell’art. 18 (come modellato dalla legge n. 92/2012). La norma, infrangendo il carattere monolitico della nozione di g.m.o., contrappone “l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” alle “altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del g.m.o.”. Ferma restando per entrambe le fattispecie la illegittimità del licenziamento, alla prima l’art. 18 fa conseguire la reintegrazione del lavoratore (necessitata e non più discrezionale dopo la sent. n. 59 del 7.4.2021 della Corte costituzionale), agli altri casi una mera sanzione indennitaria.
In sede di puntualizzazione del distinguo la Corte di Cassazione ha chiarito che il fatto è insussistente:
- se la modifica organizzativa e la conseguente soppressione del posto di lavoro non sono effettive;
- se non vi è un nesso causale tra la riorganizzazione e il licenziamento del lavoratore;
- se non è provata dal datore di lavoro la impossibilità di collocare su altre postazioni il lavoratore licenziando. Il che significa che, in questa ottica, anche il repechage diviene un elemento del “fatto” la cui insussistenza fa scattare l’obbligo datoriale di reintegrazione.
A tale impostazione alquanto consolidata consegue che per la Cassazione l’unica ipotesi di licenziamento illegittimo per motivi diversi dal fatto insussistente - e quindi da collocare entro “gli altri casi” che postulano una reazione puramente indennitaria - è la violazione del criterio di buona fede e correttezza nella scelta del lavoratore da licenziare, in presenza di una pluralità di lavoratori con mansioni fungibili o omogenee.
Una simile ricostruzione, tuttavia, non convince e appare caratterizzata da una forte carica di creatività.
Vi sono infatti almeno quattro argomenti che inducono a ritenere che il mancato repechage costituisca sì una ipotesi di assenza del g.m.o., con conseguente illegittimità del licenziamento, ma si collochi tra “gli altri casi” di carenza del g.m.o. (quelli che danno luogo a una sanzione indennitaria) e non costituisca una ipotesi di “insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento”.
a) Basti pensare, già sul piano logico e cronologico, che il tema del riutilizzo del lavoratore in esubero costituisce altro, e anzi un posterius, rispetto alla modifica organizzativa che comporta la soppressione del posto. E’ solo dopo che si è manifestata l’esigenza soppressiva (= il fatto posto a fondamento del licenziamento) che occorre verificare un ulteriore aspetto e cioè se il datore ha o meno la possibilità di un riutilizzo su altra postazione aziendale.
L’omesso riutilizzo (ove possibile) non costituisce affatto una modifica organizzativa bensì soltanto un ulteriore elemento (comportamento datoriale) che condiziona la legittimità del licenziamento: un “altro caso”, distinto dal “fatto” della modifica organizzativa, ma pur sempre in grado di invalidare il licenziamento. A voler configurare graficamente la disciplina può, dunque, dirsi che entro il cerchio più ampio della assenza del g.m.o. sono compresenti due diverse sfere - fattispecie: la insussistenza della modifica organizzativa e le altre ipotesi di assenza del g.m.o. e tra queste ultime anche il mancato repechage.
b) Allineare quanto a conseguenze sanzionatorie il mancato riutilizzo del lavoratore e la mancata soppressione del posto sarebbe irrazionale giacché, se si entra in una valutazione comparativa, il primo comportamento datoriale è certo meno grave del secondo e merita una sanzione meno severa, tenuto altresì conto della difficoltà per il datore di fornire la prova di un fatto in negativo e della impossibilità di ricollocazione financo in mansioni inferiori e nella intera area aziendale e non soltanto nell’unità produttiva interessata dal licenziamento.
c) Alla collocazione del mancato repechage entro “il fatto posto a fondamento del licenziamento” conseguirebbe che, almeno nelle ipotesi in cui il licenziamento non tocca postazioni lavorative professionalmente fungibili (per le quali si pone un problema di scelta del lavoratore da licenziare), non si configurerebbero mai “gli altri casi”, che il legislatore isola concettualmente e vuole sanzionati solo sul piano indennitario.
d) Se è vero che, per riequilibrare un regime sanzionatorio divenuto per effetto della legge del 2012 troppo sbilanciato in favore della sanzione indennitaria, era opportuno ricondurre – sia pure con una forzatura – il repechage entro la nozione del fatto posto alla base del licenziamento, così da dilatare il perimetro della reintegrazione, analogamente, per converso, è sostenibile nella scia di puntuali contributi dottrinari (Amoroso, Pacchiana Parravicini), che, a seguito dei due interventi della Corte costituzionale (sul “può/deve” e sul “manifesta”), che hanno reso residuale lo spazio della sanzione indennitaria, è consigliabile dal punto di vista sistematico ricalibrare la nozione onnicomprensiva di fatto posto a base del licenziamento, espungendo il repechage e ricollocandolo tra gli elementi esterni al fatto (negli altri casi di carenza del g.m.o.) la cui mancanza produce solo una conseguenza indennitaria.
Solo così si renderebbe l’apparato sanzionatorio dell’art. 18 più coerente con il complessivo disegno legislativo del 2012, il cui intento era quanto mai palese.
In fondo è operazione legittima quella che, al variare del dato normativo, fa conseguire una mutazione interpretativa, proprio per la strutturale connessione tra i vari segmenti della disciplina del recesso datoriale per motivi oggettivi.

4) Alcune permanenti discrasie: l’urgenza di una razionalizzazione normativa
Il percorso demolitorio praticato dalla Corte costituzionale appare supportato anche da un anelito paritario in tema di conseguenze tra licenziamento disciplinare e licenziamento per g.m.o.. Se questo è vero, è lecito ipotizzare ulteriori interventi della Corte (ma sarebbe meglio del legislatore) volti a superare alcune discrasie emergenti dalla attuale normativa.
Non è difficile avvedersi, ad esempio, che mentre il licenziamento disciplinare pretestuoso, cioè totalmente privo di fondamento fattuale, comporta sempre la reintegrazione, il licenziamento per g.m.o. del tutto pretestuoso, in quanto non assistito da soppressione del posto, è sanzionato nella legge Fornero con la reintegrazione, nel c.d. contratto a tutele crescenti (comma 1 e 2 dell’art. 3 D.lgs 23/2015) con il mero indennizzo, con quale assenza di ragionevolezza è agevole comprendere trattandosi di comportamenti datoriali di analoga gravità.
Ancora, mentre il licenziamento per g.m.o. attuato, in presenza di postazioni fungibili, con violazione dei criteri di scelta dettati da correttezza e buona fede, comporta una sanzione indennitaria, sia ex lege n. 92 del 2012 che per effetto del D.lgs. n. 23/2015, il licenziamento collettivo analogamente viziato viene punito con la reintegrazione dalla legge Fornero e solo con l’indennizzo della normativa del 2015.
Emergono insomma ingiustificate disparità di trattamento sia tra le varie fattispecie di licenziamento (per motivi disciplinari, per assenza di g.m.o., per licenziamenti collettivi) e sia all’interno della medesima tipologia di licenziamento.
Disarmonie e incertezze che, insieme con una sistematica quanto mai farraginosa, inducono a reclamare a gran voce un sostanzioso intervento legislativo di semplificazione e ripensamento dell’intera materia, divenuta indigesta per qualsivoglia interprete e foriera di evidenti disparità di trattamento. Modifiche che non possono essere attuate solo dalla giurisprudenza, che comunque ha fin qui fatto quel che ha potuto per districare l’intricata selva, né dalla Corte costituzionale, per il carattere frammentario e comunque non sistematico dei tagli e delle interpretazioni che sono in suo potere, ma soltanto dal legislatore, agevolato dalla circostanza che un quadro normativo così confusionario può solo essere migliorato.
L’attuale assetto disciplinare, che pure insiste su una materia fondamentale del diritto del lavoro, non può certo dirsi un vanto della civiltà giuridica del nostro Paese e il binomio delle leggi del 2012 e del 2015, se ha dato una spallata a un baluardo che sembrava intangibile (la reintegrazione), non costituisce un brillante esempio dei nostri processi legislativi di segno riformistico, baricentrato – come è - su una sofferta nozione di fatto (in)sussistente e su improprie delimitazioni temporali dei rispettivi campi di applicazione.
È da qui che bisogna partire per una, a mio avviso, irrinunciabile e urgente rivisitazione della disciplina del licenziamento.

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