TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità del lavoratore alla mansione rappresenta la tipologia di recesso datoriale che per eccellenza crea tensioni tra diritti e valori a rilevanza costituzionale, e cioè il diritto al lavoro e alla salute da un lato (artt. 4 e 32 Cost.), e la libertà di iniziativa economica dall’altro (art. 41 Cost.), imponendone costante bilanciamento e ponderazione.
Il dibattito che si è sviluppato sul tema è stato estremamente interessante; l’inclusione occupazionale delle persone con disabilità rappresenta una costante sfida, sia nella fase dell’accesso al mondo del lavoro con le tutele di cui alla legge collocamento mirato n. 68/1999, sia nella fase esecutiva del rapporto, con attenzione alla conservazione del vincolo contrattuale, sia, infine, con riferimento alla fase risolutiva del contratto di lavoro, imponendo una serie di limiti al potere datoriale di recesso in ipotesi di sopravvenuta inidoneità alla mansione.

Venendo più specificamente al lavoro del gruppo, si è partiti: - dal concetto di mansioni che sta alla base dell’istituto della sopravvenuta inidoneità psico-fisica alla mansione, -al distinguo tra evento malattia e inidoneità sopravvenuta, assoluta o parziale con le relative conseguenze in ordine alle sorti del rapporto contrattuale, -alla sindacabilità o meno, da parte del giudice, degli esiti sull’accertamento sanitario ad opera della Commissione medica, concludendo in senso favorevole alla luce dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte, da ultimo con la pronuncia n. 9158/2022.
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Sul tema della disabilità, superamento del comporto e licenziamento si è sviluppato un dibattito molto acceso, che ha fatto emergere l’esistenza di diversi orientamenti giurisprudenziali di merito sui profili più qualificanti, in attesa che il tema sia esaminato nella sua complessità dalla giurisprudenza di legittimità.
Il primo profilo dibattuto riguarda la nozione stessa di discriminazione per motivo di disabilità, a sua volta riflessa nel criterio con il quale valutare la illegittimità del licenziamento intimato per assenze dovute a disabilità che abbiano comportato il superamento del periodo di comporto.
1) Neutralizzazione di tutte le assenze dovute a disabilità
Un primo indirizzo, richiamando il principio di non discriminazione di cui all’art. 3 Cost., ha sostenuto che “la previsione di un periodo di comporto uguale per i lavoratori disabili e per quelli normodotati costituisce un’ipotesi di discriminazione indiretta, trattandosi di una disposizione apparentemente neutra, che tuttavia introduce una disparità di trattamento a danno dei soggetti disabili, i quali sono statisticamente più soggetti, rispetto ad altri lavoratori, ad assenze per malattia collegate alle patologie invalidanti”, Tribunale di Verona sez. lav., 21/03/2021, cui ha fatto seguito uno serie di decisioni di merito, per lo più conformi (Corte di Appello Genova 21/07/2021, n. 211; Tribunale Mantova, 22/09/2021, n. 126, Corte di Appello Firenze, 26/10/2021, Tribunale Milano, 2/05/2022, Corte di Appello Milano, 01/12/2022; Corte di Appello Napoli, 17/01/2023, n. 168).
In sintesi, si ritiene che, prima di procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore con disabilità, in ottemperanza all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, il datore debba dare prova di aver escluso dal computo del termine i periodi di assenza conseguenza immediata e diretta della stessa patologia causa di disabilità, ovvero dimostrare che l’intero periodo di assenza imputato al lavoratore sia indipendente dalla condizione di disabilità.
Richiamando la nozione di discriminazione indiretta di cui alla Direttiva 2000/78, trasfusa nell’art. 2 comma 1 lettera B D. Lgvo 216/2003, questo primo indirizzo valorizza al massimo la tutela della disabilità, e preclude la possibilità di licenziare a fronte di assenze per malattia dovuta a tale motivo, a prescindere dalla durata nel tempo delle stesse assenze; in questa prospettiva, l'unica possibilità di risolvere il rapporto di lavoro rimarrebbe il giudizio medico sulla condizione di inidoneità assoluta e definitiva al lavoro (dal momento che la tutela antidiscriminatoria non si spinge fino ad un divieto totale di licenziamento del lavoratore disabile)
2) Applicazione alle assenze per disabilità del termine prolungato di comporto (eventualmente) previsto dal contratto collettivo per patologie gravi e/o croniche.
Un altro indirizzo ritiene invece che la discriminazione potrebbe essere evitata se alle assenze del lavoratore disabile si applicasse la (eventuale) norma collettiva che prevede un comporto prolungato riferito a malattie gravi e croniche; in questo caso, a prescindere dal fatto che il lavoratore sia disabile o meno, il rilievo prevalente lo avrebbe la natura della patologia, che impone comunque assenze frequenti e prolungate; in questa prospettiva, una (eventuale) norma contrattuale che tuteli in modo differenziato coloro che, a causa delle proprie condizioni di salute, siano maggiormente esposti al rischio di assenze di per sé potrebbe escludere la discriminazione indiretta dovuta all’applicazione dello stesso termine di comporto per i lavoratori normodotati e per quelli affetti dalle malattie specificamente individuate, dal momento che il maggiore rischio di assenze a causa di malattia invalidante gravante sarebbe controbilanciato dal diritto a un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro (Corte di Appello Torino, 26/10/2021 e 3 novembre 2021, Tribunale Lodi, 12/09/2022, n. 19, Tribunale Milano 5/02/2023).
In sostanza, questo secondo indirizzo bilancia la tutela della disabilità (conservazione del posto di lavoro) con le esigenze di certezza (utile inserimento del rapporto di lavoro nella gestione dell’impresa) e di contrasto all’assenteismo garantite da una norma collettiva che abbia già valutato in astratto la congruità di un periodo più esteso di comporto per lavoratori esposti al rischio di assenze frequenti e prolungate per malattia.
Ragionando nell'ambito dei principi di diritto antidiscriminatorio, si tratta quindi di stabilire se tale finalità di bilanciamento degli interessi, in sé legittima, sia attuata con mezzi appropriati (ovvero se, ai fini del termine lungo di comporto, è appropriato assimilare lavoratori disabili a lavoratori con patologie gravi e/o croniche).
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Ulteriore profilo dibattuto riguarda il rilievo da attribuire alla conoscenza / conoscibilità da parte del datore di lavoro della condizione di disabilità del dipendente e del nesso causale fra tale condizione e le assenze rilevanti ai fini del superamento del termine di comporto.
Si è rivelato molto controverso se, ai fini del termine di comporto, la condizione di disabilità operi in modo puramente oggettivo, e quindi prescinda da ogni aspetto di conoscenza / conoscibilità, oppure se si possano configurare situazioni intermedie che riflettono diverse ricostruzioni dei rispettivi obblighi / oneri a carico delle parti del rapporto.
a) Secondo un primo orientamento, la discriminazione indiretta prescinde dalla colpevolezza del datore di lavoro, e rimane tale anche a fronte alla mancata conoscenza datoriale della condizione di disabilità del lavoratore, e del fatto che essa sia la causa delle sue assenze. In questa prospettiva, il divieto di discriminazione grava sul datore ogni qualvolta una qualsiasi disposizione (licenziamento per superamento del periodo di comporto) possa mettere in posizione di particolare svantaggio una persona disabile rispetto agli altri lavoratori, malati ma non disabili.
A tale proposito “va ricordato che la discriminazione ha una sua rilevanza che prescinde dalla intenzionalità o meno del comportamento discriminatorio. La lettura della disposizione di cui all’art. 2 del D.Lgs 216/03 chiarisce che il divieto di discriminazione opera in maniera obiettiva nei confronti di qualsiasi “disposizione, (un) criterio, (una) prassi, (un) atto, (un) patto o (un) comportamento” che sia causa di discriminazione diretta o indiretta (Corte di Appello Firenze, 4 novembre 2021; Corte di Appello Napoli, 17 gennaio 2023; Corte di Appello Milano 31 luglio 2020 e 1° dicembre 2022).
b) Un altro orientamento ipotizza che, qualora il lavoratore accumuli un numero notevole di assenze in un ristretto periodo di tempo, possa operare una sorta di presunzione di consapevolezza da parte del datore, o quanto meno un obbligo di comportarsi secondo diligenza e buona fede nell’esecuzione del contratto, in particolare informandosi sulle cause di tali assenze, anche per valutare se e quali accomodamenti ragionevoli adottare per prevenire eventuali discriminazioni indirette” (Tribunale Milano, ord. n. 9281/2018 del 06/04/2018; Corte di Appello Brescia, 23/06/2022, Corte di Appello Milano, 01/12/2022; Tribunale Mantova 22 settembre 2021; Tribunale Santa Maria Capua Vetere 12 giugno 2019).
c) Un ulteriore indirizzo interpretativo onera invece il lavoratore di attivarsi per chiedere il riconoscimento formale della condizione di disabilità (handicap ai sensi della L. 104/1992), comunicare la malattia dovuta a disabilità determinante l’assenza, o comunque segnalare la propria condizione di inidoneità al lavoro, il tutto al fine di sollecitare il datore ad adottare gli ‘accomodamenti ragionevoli’ ai sensi dell’art. 3, comma 3 bis D.L.vo n. 216/2003, per consentire l’utilizzazione delle energie lavorative residue ed evitare la lunga assenza per malattia.
In tale prospettiva, se il lavoratore non si attiva in uno dei diversi modi ora detti, potrebbe essere legittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto, poiché la mancata comunicazione, in violazione dell’obbligo di comportarsi secondo diligenza e buona fede nell’esecuzione del contratto, avrebbe impedito al datore di mettere in atto i meccanismi di protezione, rendendo legittimo il recesso poiché “in tali casi non vi sono norme e/o comportamenti che abbiano posto il lavoratore invalido in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altri lavoratori” (Corte di Appello Milano 16 febbraio 2023; Tribunale Milano, 04/03/2021, n. 314; Tribunale Vicenza 9 marzo 2022; Tribunale Pavia ordinanza 8 marzo 2022 ).
d) Un ultimo indirizzo interpretativo ipotizza di dare rilievo al tema della conoscenza/conoscibilità non più durante il rapporto di lavoro (come le diverse soluzioni oggetto dei precedenti indirizzi a, b e c), bensì dopo il licenziamento per superamento del comporto e la sua impugnazione da parte del lavoratore per discriminazione dovuta alla disabilità.

Cass. sezione lavoro n. 9095 del 31 gennaio / 31 marzo 2023.
Nei giorni successivi al corso, sulla stessa questione è intervenuta la prima sentenza di legittimità.
Questo il caso: il lavoratore era dipendente di impresa che gestiva servizi di igiene urbana, portatore di handicap con capacità lavorativa ridotta ed aveva ricevuto un giudizio medico che lo aveva ritenuto inidoneo a diverse mansioni; nei gradi di merito il licenziamento intimato per superamento del comporto era stato ritenuto discriminatorio in modo indiretto (art. 2 comma 1 lett. B) D.Lgs. 216/2003), sul presupposto che le assenze per malattia riflettevano la sua condizione di disabilità, e che quindi la datrice non avrebbe dovuto applicare il termine di comporto previsto per malattia comune; la datrice aveva negato il carattere discriminatorio dell'applicazione del termine di comporto previsto dal contratto collettivo alle assenze del lavoratore disabile, valorizzando di avere applicato una norma “neutra” peraltro dopo avere tentato, invano, una interlocuzione con il lavoratore prima di intimare il licenziamento, informandolo che aveva superato il relativo termine ed invitandolo a formulare osservazioni in proposito.
La Corte ha confermato la decisione di merito:
- alla luce di articolata ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale eurounitario, recepito da normativa nazionale, ha ribadito la discriminazione indiretta insita nel licenziamento del lavoratore disabile al quale fosse applicato il medesimo termine di comporto previsto dal contratto collettivo per il lavoratore malato, ma non disabile; ha aggiunto che la normativa primaria o la contrattazione collettiva avrebbe potuto fissare limiti massimi di assenza per malattia riferiti a lavoratori disabili, compiendo scelte discrezionali che condividessero il contrasto ai fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, con la tutela dell’occupazione delle persone disabili, sempre considerando che i rischi di maggiore morbilità di queste ultime rispetto ai lavoratori non disabili imponevano di adottare accomodamenti ragionevoli (anche sotto forma di maggiore durata del relativo termine di comporto).
- premesso che in sede di legittimità non potevano essere sindacati gli accertamenti in fatto, ben motivati dai giudici di merito, che in concreto avevano portato a ritenere nota alla datrice la condizione di disabilità del lavoratore, in linea generale ha ribadito che impugnando un licenziamento come discriminatorio il lavoratore ha l’onere di allegare e provare il fattore di rischio (disabilità) nonché di avere subìto un trattamento sfavorevole rispetto a quello riservato ad altri soggetti, in condizioni analoghe ma privi del fattore di rischio, mentre il datore ha l'onere di allegare e provare circostanze tali da escludere la natura discriminatoria del licenziamento, quale ripartizione dei consueti oneri di allegazione e prova improntata ad un’attenuazione in favore del lavoratore, ma non ad una vera e propria inversione. Era tuttavia irrilevante che il lavoratore avesse trasmesso alla datrice certificati medici che giustificavano l'assenza per malattia senza indicarne la causa (e quindi senza che tali certificati consentissero di collegare le assenze rilevanti ai fini del comporto con la condizione di disabilità), dal momento che in materia discriminatoria opera il principio fondamentale della irrilevanza dell'intento soggettivo dell'autore della discriminazione, e del rilievo puramente oggettivo del trattamento sfavorevole riservato al lavoratore appartenente alla categoria protetta.
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Il gruppo di lavoro ha successivamente approfondito il tema del licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica alla mansione, operando una breve ricostruzione normativa dell’istituto, con richiamo alla legislazione nazionale e multilivello (art. 3, comma 3 bis, d.lgs. n. 216/2003 di recepimento dell’art. 5 della Direttiva CE 78/2000) che introduce nel nostro ordinamento giuridico l’obbligo degli accomodamenti ragionevoli con il limite espresso della esigibilità economica, ripercorrendo l’evoluzione giurisprudenziale, permeata dagli interventi eurounitari, partendo dalla ormai datata
1) interpretazione statica, che privilegiava l’interesse del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente, con assoluta recessione dell’interesse del lavoratore, divenuto inabile, al mantenimento del posto e con applicazione secca degli artt. 1464 c.c. e 1256 c.c., con dominio del principio della intangibilità dell’organizzazione imprenditoriale;
2) ad una lettura più moderata dei contrapposti beni costituzionali in gioco, imponendo a carico del datore di lavoro un dovere quanto meno di verifica dell’assenza di postazioni compatibili, come in tutti i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, e quindi al commento della nota sentenza della Suprema Corte a sezioni unite n. 7755 del 1998 che, per la prima volta, introduce anche in questa tipologia di licenziamento l’obbligo di repêchage ordinario a carico del datore di lavoro;
3) sino a giungere ad una interpretazione dinamica, propria delle più recenti statuizioni della Suprema Corte, menzionando le più note nel percorso ricostruttivo, a cominciare a) dalle quasi coeve sentenze che inaugurano la stagione degli accomodamenti ragionevoli (n. 6798 del 19.3.2018 e n. 26675 del successivo 22.10.2018) che impongono, per la prima volta, un obbligo di repechage cd. rafforzato, con il solo limite della sproporzione dei mezzi finanziari; b) alla n. 34132 del 19.12.2019 che, ridimensionando l’obbligo di cooperazione datoriale, pone il limite del rispetto del diritto, di pari livello, degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni loro assegnate e della professionalità acquisita, con divieto di modifiche in peius a loro carico; c) sino a giungere alla statuizione del 9.3.2021 n. 6497, che ha il merito di aggiungere l’ultimo tassello all’opera dell’interprete in ordine all’obbligo degli accomodamenti ragionevoli, costituito dal criterio della “ragionevolezza” (perché l’accomodamento può essere economicamente sostenibile per la specifica azienda ma irragionevole), parametro cui è vincolato l’agire datoriale, che si traduce nell’osservanza dei più ampi doveri di correttezza e buona fede, che presidiano ogni rapporto sinallagmatico.

Partendo poi dalla disamina della fattispecie concreta risolta da quest’ultima sentenza, il dibattito si è sviluppato su una serie di questioni più spinose, e cioè:
a) quali accomodamenti fossero in concreto ragionevolmente esigibili dal datore di lavoro (azienda di autolinee) in relazione alla inidoneità accertata nei confronti di quel lavoratore, con riferimento alle postazioni occupate dagli altri dipendenti nei vari reparti, con approfondita disamina delle clausole aperte della ‘non sproporzione dei mezzi’ e della ‘ragionevolezza’; si è registrata sulla questione l’opinione di chi ha ritenuto che la direttiva comunitaria imponga un limite soltanto, e cioè la sproporzione dei mezzi, con la conseguenza che, in difetto di prova da parte datoriale della sussistenza di tale limite, la condizione di handicap sia coprente e non legittimi il licenziamento, anche laddove la conservazione del posto di lavoro rechi aggravio alla condizione lavorativa degli altri dipendenti;
b) quali le regole di riparto degli oneri probatori applicabili, alla luce del ripensamento rispetto al passato operato nella sentenza n. 6497/21, che esclude -in assonanza con gli arresti giurisprudenziali in tema di licenziamento per motivi economici successivi alla nota sentenza n. 5592 del 2016- che debba essere il lavoratore ad allegare e provare quali siano gli accorgimenti ragionevoli da adottare per consentire l’utilizzabilità della propria prestazione lavorativa (lasciando a carico del datore di lavoro la sola dimostrazione della eventuale eccessiva onerosità o sproporzione) ed affermando, piuttosto, che spetta al datore di lavoro allegare e fornire tale prova, con possibilità di assolvimento mediante fatti secondari presuntivi, idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto quantomeno uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento;
c) quali possibilità vi fossero di adibire il disabile al lavoro agile, intesa come misura ragionevole e appropriata, per rimuovere lo svantaggio vissuto a causa dell’handicap, in ipotesi di richiesta espressa in tal senso dal lavoratore e ove ciò non comportasse notevole aggravio per l’impresa, esaminando a tal fine l’unico precedente sulla specifica questione, emesso della Corte di Appello di Napoli in data 19/02/2021, che si è pronunciata sul mancato accoglimento della richiesta di avvicinamento di un lavoratore affetto da problemi visivi invalidanti presso una sede aziendale meno distante dal luogo di residenza, avanzata per poter svolgere la propria prestazione lavorativa da remoto; determinante nella valutazione, da parte della Corte di Appello, circa la ragionevolezza dell’accomodamento esigibile è stata nella fattispecie la circostanza che, durante il periodo emergenziale da pandemia Covid-19, il lavoratore si fosse trovato a svolgere le stesse mansioni svolte presso l’attuale sede di assegnazione, in smart working, il che attestava che l’accomodamento invocato non fosse irragionevole.
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Si è fatto cenno durante il dibattito alla categoria dei cd. lavoratori fragili di cui al D.L. 34/2020, conv. in L. 77/20, cioè coloro che sono maggiormente esposti a rischio di contagio, per ragioni di età o perché per es. immunodepressi, a protezione dei quali il legislatore dell’emergenza aveva previsto: 1) una sorveglianza sanitaria eccezionale perché maggiormente esposti a rischio di contagio 2) il diritto di svolgere di norma la propria prestazione in regime di smart-working, anche attraverso l’adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento 3) il divieto di recesso datoriale; misure che hanno cessato di avere efficacia il 31.03.2022 con proroga, prevista nel decreto milleproroghe, al 30.06.2023 solo per lo smart working in favore dei lavoratori fragili appartenenti al settore pubblico e privato.
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Ci si è chiesti anche se, pur essendo il quadro normativo in parte differente, sia possibile giungere alle medesime conclusioni in termini di tutela dell’inidoneo dipendente della P.A. in regime contrattualizzato.
La perplessità nasce dalla distonia tra l’art. 55- octies del TUPI, che concede alla PA l’esercizio di una facoltà di recesso, in ipotesi di accertata permanente inidoneità psicofisica al servizio del pubblico dipendente (norma che utilizza il termine -può risolvere-) e l’art. 8 del successivo Regolamento attuativo, adottato con DPR 171/2011, il quale prevede che “Nel caso di accertata permanente inidoneità psicofisica assoluta al servizio del dipendente, l'amministrazione risolve il rapporto di lavoro”.
Dubbio risolto dalla Suprema con sentenza n. 19774 del 2016, che ha confermato che “In materia di pubblico impiego contrattualizzato, la sopravvenuta e permanente inidoneità psicofisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate non determina una risoluzione automatica del rapporto di lavoro, ma costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ove lo stesso non possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse”, e tanto sia per il rapporto gerarchico tra le fonti disciplinanti l’istituto, sia per una doverosa lettura costituzionalmente orientata, che impone di tenere conto, anche nel comparto pubblico, dell’adempimento datoriale all’obbligo dell’adozione di accomodamenti ragionevoli, come previsto dall’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. 216/2003, attuativo dell’art. 5 della Direttiva 2000/78 CE che espressamente ne prevede l’estensione “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
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Siamo, infine, giunti alla conclusione che occorre valorizzare, nella pluralità dei valori costituzionali investiti da questa tematica, le specificità delle singole fattispecie al vaglio dell’operatore del diritto, valorizzazione che può condurre a decisioni differenti.
Non si può prescindere nel valutare le fattispecie concrete dal porsi in un’ottica di insieme che tenga conto sia del contesto nel quale ci troviamo sia dei diritti tutelati nel nostro ordinamento, e cioè diritto alla salute e al lavoro da un lato e diritto alla libertà di impresa dall’altro.
Ritenere legittimo il licenziamento del lavoratore nella generalità dei casi di inidoneità sopravvenuta alle mansioni sarebbe una soluzione azzardata ed estrema; allo stesso tempo non si può “costringere” il datore di lavoro a rimanere parte di un rapporto laddove la controprestazione contrattuale può essere diventata (in tutto o in parte) inutile o fortemente sbilanciata in termini economici; né tanto meno imporre per mano giudiziaria indebite ingerenze all’interno dell’assetto organizzativo dell’impresa.
Ci troviamo di fronte a contenziosi nei quali è necessario considerare molteplici variabili che possono influenzare in maniera significativa, a favore dell’una o dell’altra parte, l’esito del giudizio.

 

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