Testo integrale con note e bibliografia

Nell’ambito delle riforme, che a partire dalla legge Fornero hanno interessato, nel nostro ordinamento, la disciplina limitativa del recesso datoriale, il licenziamento discriminatorio è il soggetto inatteso, il luogo normativo, se si può dire così, nel quale è stato sufficiente che tutto restasse uguale perché tutto cambiasse.
Infatti all’entrata in vigore della legge 92/2012, e nel sistema sanzionatorio delineato da quella legge, articolato e graduato in relazione essenzialmente alla gravità del vizio del recesso (in una prospettiva inedita per il nostro ordinamento e che pone al centro dell’attenzione del legislatore l’interesse dell’impresa alla certezza dei rapporti negoziali e alla prevedibilità delle conseguenze del proprio inadempimento), in questo sistema il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo (o più generalmente intimato per motivo illecito determinante), non causalmente accomunati, sembravano occupare un posto marginale, quello riservato ai più cattivi, che licenziano per ragioni particolarmente riprovevoli. Ipotesi insomma nelle quali non c’era alcun interesse di certezza del datore di lavoro da tutelare e in cui inoltre la conservazione della piena tutela risarcitoria e reintegratoria non metteva davvero a rischio gli interessi delle imprese, facendosi questione di ipotesi, appunto, ritenute solo marginali. E a maggior ragione una simile marginalità era immaginata dal legislatore del cosiddetto Jobs act.
Che le cose non siano andate proprio così, almeno per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio, è un fatto, come pure è un fatto che l’applicazione della disciplina antidiscriminatoria, e proprio in materia di licenziamento, abbia consentito l’emersione di nuove forme di controllo dei poteri datoriali, diverse da quelle cui i lavoristi erano abituati nel sistema incentrato sulle norme inderogabili, ma dotate di una peculiare efficacia, idonee anzi, in talune condizioni, a superare il limite, finora inviolabile per il giudice, dell’esclusivo potere datoriale nell’organizzazione dell’impresa.

Se si dovesse individuare un momento in cui il licenziamento discriminatorio, questo soggetto inatteso, ha cominciato a prendersi la scena, o almeno un pezzo considerevole della scena, sarebbe probabilmente il 5 aprile 2016, la data di pubblicazione della sentenza 6575/2016 della Corte di Cassazione, che, innovando radicalmente rispetto a un orientamento precedente più che consolidato, che sostanzialmente assimilava licenziamento discriminatorio e ritorsivo, ne ha invece affermato la diversità e riconosciuto la natura oggettiva e funzionale dei divieti di discriminazione. Per cui, mentre nel licenziamento per motivo illecito determinante (nel quale pacificamente si inquadra il licenziamento ritorsivo) a essere vietato è un motivo, nel licenziamento discriminatorio, come nelle discriminazioni in generale, è vietato un effetto, un effetto deteriore, così che non rileva l’intento soggettivo di discriminare.
Per contro, mentre nel licenziamento per motivo illecito determinante è vietato qualsiasi motivo che l’ordinamento qualifica contra jus (quindi non solo il motivo ritorsivo) e che sia determinante, cioè, per costante giurisprudenza, esclusivo rispetto all’azione dell’agente, nella specie la parte che recede, nel licenziamento discriminatorio è vietato il trattamento differenziale connesso ad alcuni specifici fattori, per quanto latamente intesi. Perché le tutele antidiscriminatorie hanno un carattere condizionato e relativo, per usare un’espressione di Marzia Barbera, sono incentrate cioè, seppure in maniera sempre più sfumata e complessa, su una peculiare idea di uguaglianza articolata intorno ad alcune, specifiche differenze per quanto ampiamente intese (i fattori di discriminazione appunto), e costruite intorno a un giudizio di relazione (la comparazione, il rapporto tra il soggetto tutelato e il terzo, diciamo in sintesi estrema e perciò necessariamente imprecisa, non portatore del fattore).
Ma condizionato e relativo non significa inefficace, lo si può dire ormai con ragionevole certezza anche nel nostro ordinamento.
In primo luogo infatti non può sfuggire l’importanza, sul piano anche pratico applicativo, del riconoscimento della natura oggettiva dei divieti di discriminazione. All’indifferenza rispetto all’elemento soggettivo di chi agisca la condotta discriminatoria segue infatti che può discriminare anche la parte che applichi la contrattazione collettiva o anche la legge, e può farlo perché possono essere il contratto o la legge a introdurre la differenziazione lesiva.
E non è strano perché, quanto alla gran parte dei fattori che oggi il diritto antidiscriminatorio protegge, in un passato anche molto recente la discriminazione avveniva proprio in base alla legge. Anzi per vero in molti casi e in molti paesi è ancora così che avviene.
Non solo, ma alla natura oggettiva dei divieti di discriminazione segue anche la loro attitudine ad operare anche (seppure non necessariamente) in maniera disfunzionale rispetto alle logiche del mercato e dell’impresa.
Si tratta di un’affermazione desumibile senza equivoci dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, per esempio da quanto il Giudice dell’Unione argomenta nella sentenza 10 luglio 2008 della Grande Sezione, Feryn.
La vicenda, nota, è quella di un’impresa specializzata nella vendita e nell’installazione di porte basculanti (la società Feryn appunto), accusata di fronte ad un Tribunale belga da un organismo nazionale deputato, in applicazione dell’art. 13 della direttiva 2000/43, a promuovere la parità di trattamento, di applicare una politica di assunzione discriminatoria. Ciò alla luce delle dichiarazioni pubbliche rese dal responsabile di quell’impresa secondo cui la società intendeva reclutare operai installatori, ma “non poteva assumere «alloctoni» a motivo delle reticenze della clientela a farli accedere alla propria abitazione privata durante i lavori” (così il punto 16 della decisione).
In quel caso la Corte ha affermato l’idoneità di tali dichiarazioni “a far presumere l’esistenza di una politica di assunzione direttamente discriminatoria ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43” e ha ritenuto esclusa la fattispecie vietata solo per il caso il datore di lavoro avesse provato la difformità della “prassi effettiva di assunzione da parte dell’impresa” rispetto a quelle dichiarazioni, senza attribuire alcun rilievo, ai fini dell’esclusione del divieto, alle presunte ragioni della selezione discriminatoria affermate dal rappresentante dell’impresa.
E ancora più chiaramente in questo senso sono le conclusioni dell’Avvocato generale in quella controversia al punto 18.
Vi si legge che: “l’affermazione del sig. Feryn secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei lavoratori di una determinata origine etnica è del tutto irrilevante rispetto alla questione dell’applicabilità della direttiva. Quand’anche tale affermazione corrispondesse al vero, essa dimostrerebbe solo che «i mercati non cureranno la discriminazione» e che l’intervento del legislatore è essenziale”.
Ne deriva, con una certa chiarezza, che l’interesse datoriale al miglior andamento dell’impresa, come apprezzato dallo stesso datore di lavoro, non vale di per sé a escludere il sindacato del giudice, perché di per sé non esclude l’illiceità della scelta. Piuttosto è il principio di non discriminazione a operare quale limite necessario dei poteri datoriali. Il principio di non discriminazione è il grado zero, il minimo sindacale dei limiti dell’art. 41 Cost.
Ed è un limite che si è rivelato particolarmente efficace, in specie, per quanto interessa il tema del licenziamento, grazie al peculiare regime dell’onere della prova previsto dalle fonti sovranazionali (le diverse direttive sul genere a partire dalla direttiva 97/80/Ce, la direttiva quadro 2000/78 e quella sulla razza 2000/43) in tutte le controversie in cui si discuta di discriminazione e che è del tutto diverso da quello previsto dall’ordinamento interno per il licenziamento ritorsivo.
Un’agevolazione probatoria che è diretta, dichiaratamente, ad assicurare efficacia al principio paritario e che muove, come è noto, dalla constatazione dell’esistenza di una asimmetria informativa necessaria tra i lavoratori o le lavoratrici che assumano di aver subito un trattamento deteriore in ragione di uno dei fattori di protezione previsti dall’ordinamento sovranazionale e il datore di lavoro, che è l’unico nella disponibilità dei dati sui quali in effetto ha fondato la disparità di trattamento.
E un’agevolazione che opera precisamente favorendo i lavoratori e le lavoratrici nella dimostrazione del nesso di causalità tra trattamento differenziato e fattore di discriminazione, una volta che essi abbiano provato l’esistenza in fatto di un trattamento differenziato rispetto al tertium comparationis prescelto. Perché, assolto questo onere, spetterà il datore di lavoro dimostrare l’inesistenza della discriminazione, e quindi in sintesi estrema, l’esistenza di una ragione lecita di quella differenziazione, alternativa rispetto a quella discriminatoria presunta, e avente esclusiva rilevanza causale.
Più precisamente e semplificando moltissimo un discorso molto più complesso: assunta la struttura generalmente relazionale del giudizio di discriminazione (ad eccezione della peculiare ipotesi delle molestie), spetterà a chi agisca:
a) allegare ed eventualmente dimostrare il fattore di discriminazione cui si assume riferibile il trattamento differenziale. Fattore di cui peraltro i lavoratori o le lavoratrici potrebbero non essere immediatamente portatori, purché si dia comunque la relazione causale tra trattamento differenziale da loro patito e fattore, come nei casi di discriminazione cd. associata, nei quali il trattamento deteriore colpisce il lavoratore in ragione della sua relazione con il portatore del fattore (è la vicenda di cui si è occupata la Corte di Giustizia in Coleman);
b) affermare e dimostrare l’esistenza di un trattamento deteriore rispetto al termine di comparazione (e quindi a un soggetto, anche non più esistente o anche solo ipotetico, ma comunque non portatore del fattore protetto), prova che potrà darsi anche con l’ausilio del dato statistico.
Assolto quest’onere da parte dell’attore o dell’attrice, sarà il datore di lavoro a dover dimostrare fatti, necessariamente specifici e obiettivamente verificabili, idonei a far ritenere:
1) nel caso di discriminazione diretta: l’inesistenza della discriminazione e quindi l’esistenza di una ragione non discriminatoria del trattamento differenziato, alternativa a quella normativamente presunta, e avente esclusiva rilevanza causale, oppure l’esistenza di una deroga, cioè l’esclusione della fattispecie dall’area del divieto (il che potrà avvenire, anche qui semplificando al massimo, quando il trattamento differenziale dipenda da una caratteristica essenziale della prestazione);
2) in caso di discriminazione indiretta (e quindi ove si lamenti che a determinare il rischio di un particolare svantaggio per i soggetti cui sia riferibile uno dei fattori di protezione sia una regola o una prassi apparentemente neutre) l’inesistenza della discriminazione (e quindi il carattere in effetto non svantaggioso della regola o della prassi per il gruppo portatore del fattore di protezione) oppure la riferibilità della regola o prassi potenzialmente svantaggiosi ad una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e necessari.
In ogni caso, e questo è un punto decisivo, il difetto di prova dell’inesistenza della discriminazione o, nel caso delle discriminazioni indirette, delle cause di giustificazione resterà a danno del datore di lavoro.
E’ allora piuttosto evidente come una simile articolazione dell’onere probatorio, unita al ricordato carattere oggettivo dei divieti di discriminazione, consenta un sindacato giudiziale stringente sulle scelte datoriali quando esse coinvolgano lavoratori e lavoratrici cui possa riferirsi uno dei fattori tipici di protezione, in via diretta (in quanto i lavoratori e le lavoratrici ne siano personalmente portatori), o per associazione.
Un sindacato impensabile con gli strumenti classici del diritto del lavoro o con le regole generali del diritto dei contratti (come il principio di buona fede), e di cui si trova traccia negli accertamenti di cui danno conto diverse sentenze recenti (per esempio Corte di Appello di Catania, n. 11 del gennaio 2020, relativa al licenziamento, apparentemente per motivo oggettivo, di una lavoratrice dipendente di una farmacia, recesso che la Corte ritiene in effetti discriminatorio per ragioni di genere, ancora Corte d’Appello di Firenze 754/2019, relativa a un licenziamento intimato per ragioni disciplinari e invece ritenuto discriminatorio per ragioni di affiliazione sindacale, o davvero anticipatrice, Corte di Appello di Torino del febbraio 2013, relativa al licenziamento, intimato come disciplinare, di una lavoratrice dipendente di un supermercato, e invece ritenuto discriminatorio per ragioni di genere)
Ma l’ambito in cui la piena attuazione del principio paritario ha influito di più sulla disciplina limitativa dei licenziamenti è probabilmente quello della discriminazione per ragioni di handicap, in ragione della previsione, contenuta nella direttiva 2000/78, dell’obbligo datoriale di adottare “accomodamenti ragionevoli,” idonei a consentire al lavoratore o alla lavoratrice disabile di svolgere la sua prestazione in condizioni di parità e sicurezza.
Si tratta di un tema trattato con una certa frequenza nella giurisprudenza di merito, ma anche di legittimità in questi ultimi anni a proposito soprattutto (ma non esclusivamente) del licenziamento per impossibilità sopravvenuta, con esiti controversi, almeno fino alla sentenza 6497/2021 della Corte di Cassazione, che affronta le questioni con una motivazione, la cui ampiezza e complessità, rivela l’intento di assumere un arresto ragionevolmente stabile.
E ancora le decisioni in questa materia della Corte di Giustizia hanno inciso molto, e in modo molto complesso, sul licenziamento per superamento del comporto quando le assenze riguardino lavoratori disabili e siano riferibili alla patologia da cui dipende la disabilità.
La disciplina di interesse può essere riassunta, in sintesi estrema, muovendo dall’art. 5 della direttiva 2000/78 che, come è noto, dispone che "per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato...".
E ancora il ventesimo considerando della direttiva impone ai datori di lavoro l’introduzione di “misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento”, mentre il ventunesimo chiarisce che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
E’ pure noto come l’Italia non abbia dato tempestiva attuazione a queste disposizioni e la Corte di Giustizia abbia accertato la violazione, su ricorso della Commissione Europea, con la sentenza 4 luglio 2013, Commissione/Repubblica Italiana.
In esito con il D.L. 28.6.2013 n. 76, convertito con modificazioni nella L. 9.8.2013, il legislatore nazionale ha inserito nel D.L.gs. 216/2003, all’art. 3, un comma 3 bis, a norma del quale "Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
Da queste disposizioni la Corte di Cassazione, nella decisione 6497/2021 sopra richiamata, fa derivare l’affermazione secondo cui l’obbligo di adottare tali adeguamenti concorre a delimitare il legittimo esercizio del potere datoriale di recedere dal rapporto in essere per ragioni legate alla disabilità del dipendente, disabilità che tipicamente lo renda non più idoneo allo svolgimento delle mansioni attribuitegli, ed è un obbligo che - il giudice di legittimità lo afferma espressamente - si aggiunge, non si sovrappone a quello di repechage.
Infatti, poiché le mansioni accessibili per i lavoratori disabili devono individuarsi anche in relazione all’obbligo di adottare ragionevoli accomodamenti, ne risulta di conseguenza ridimensionata l’area della impossibilità sopravvenuta della prestazione e, o anche, per converso, ampliato il novero delle posizioni professionali utilmente assegnabili al lavoratore disabile, in quanto individuabili solo in esito ai disposti ragionevoli accomodamenti.
La Corte chiarisce infatti che “a fronte del lavoratore che deduca e provi di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature secondo il diritto dell'Unione Europea, quale fonte dell'obbligo datoriale di ricercare soluzioni ragionevoli che potessero evitare il licenziamento causato dalla disabilità, graverà sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto all'obbligo di "accomodamento" ovvero che l'inadempimento sia dovuto a causa non imputabile”. E in tale situazione “non è certo sufficiente per il datore semplicemente allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, come si trattasse di un ordinario repechage, così creando una sovrapposizione con la dimostrazione, comunque richiesta, circa l'impossibilità di adibire il disabile a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute”.
E’ certo un mutamento significativo rispetto ai principi affermati in questa materia dalla giurisprudenza con orientamento consolidato, almeno a partire dalla decisione n. 7755/1998 delle Sezioni Unite.
In quella pronuncia infatti le Sezioni Unite, nel ricercare un punto di equilibrio fra libertà di impresa e diritto del lavoratore al lavoro e alla salute, avevano ritenuto che restasse comunque prerogativa del datore di lavoro “l’autodeterminazione circa il dimensionamento e la scelta del personale da impiegare nell'azienda ed il conseguente profilo dell’organizzazione interna della medesima” e che l’imprenditore potesse perciò legittimamente rifiutare l’assegnazione del lavoratore divenuto inabile alle mansioni a lui attribuite, se ne fosse derivato un aggravio organizzativo.
In contrario, e il Giudice di nomofilachia lo afferma oggi espressamente e con nettezza, l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, che la direttiva pone a carico del datore di lavoro, nega l’assolutezza del principio di intangibilità dell’organizzazione d’impresa, così che al giudice spetterà verificare l’adempimento dell’obbligo (e quindi l’inesistenza o impraticabilità di idonei “accomodamenti”) o invece la sua violazione.
E la Corte afferma anche come l’onere di allegare e provare l’esatto adempimento gravi interamente sul datore di lavoro, non spettando “al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro, sovvertendo l'onere probatorio e richiedendo una collaborazione nella individuazione degli accomodamenti possibili non prevista neanche per il repechage ordinario in mansioni inferiori”.
Certamente l’onere che grava sul datore di lavoro non è senza limiti, e la Corte ne individua infatti i confini sotto due profili: il “limite espresso della sproporzione del costo” e “quello dell'aggettivo che qualifica l'accomodamento come ragionevole” e che costituirebbe un limite ulteriore ed autonomo, essenzialmente fondato sull’applicazione del principio generale di buona fede.
Così che, secondo la Corte, “potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un'attività che sia utile per l'azienda e che imponga all'imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo "la comune valutazione sociale”, la cui misura è rappresentata appunto dal principio generale di buona fede.
La ricostruzione della ragionevolezza come limite ulteriore dell’obbligo datoriale è probabilmente il punto più complesso e critico della pronuncia, che, almeno a chi scrive, non pare confrontarsi compiutamente con le fonti sovranazionali, che pure (e lo ricorda anche la sentenza) il legislatore nazionale ha scelto di richiamare direttamente al comma 3 bis dell’art. 3 del D.L.gs 216/2003, in particolare con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) del 2006 e con i Commenti generali (general recommendations) forniti dal Comitato sui diritti delle persone con disabilità, istituito dall’art. 34 della convenzione, con la funzione di monitorare la sua attuazione da parte degli Stati contraenti e di formulare linee guida e raccomandazioni.
Infatti, poiché la legge assume la definizione di accomodamenti ragionevoli propria della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (come risulta proprio dal tenore testuale del comma 3 bis dell’art. 3, sopra riportato), è necessario concludere che essa rimandi anche ai Commenti generali, attesa la loro funzione.
Ora nel General comment n. 6 on equality and non - discrimination al punto 25 lett. a) il Comitato afferma espressamente che: “Reasonable accommodation is a single term, and “reasonable” should not be misunderstood as an exception clause; the concept of “reasonableness” should not act as a distinct qualifier or modifier to the duty. It is not a means by which the costs of accommodation or the availability of resources can be assessed — this occurs at a later stage, when the “disproportionate or undue burden” assessment is undertaken. Rather, the reasonableness of an accommodation is a reference to its relevance, appropriateness and effectiveness for the person with a disability. An accommodation is reasonable, therefore, if it achieves the purpose (or purposes) for which it is being made, and is tailored to meet the requirements of the person with a disability” Secondo il Comitato quindi la ragionevolezza degli accomodamenti ne esprime unicamente l’appropriatezza rispetto all’interesse della persona disabile, mentre il limite dell’obbligo resta segnato esclusivamente dallo sforzo sproporzionato per l’obbligato, un limite che nel diritto dell’Unione, secondo la testuale previsione dell’art. 5 della direttiva 2000/78, è rappresentato, più specificamente, dalla sproporzione dell’“onere finanziario” (determinato, secondo il ventunesimo considerando della direttiva tenendo conto “in particolare dei costi finanziari o di altro tipo” determinati dalle misure, “delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”).

Il Giudice di legittimità sembra quindi aver introdotto una condizione ulteriore all’attuazione del principio paritario, estranea al contenuto delle norme sovranazionali, addizione più rischiosa sul piano pratico-applicativo per essere evidentemente la ragionevolezza degli accomodamenti, nel senso inteso dalla Corte, concetto molto più evanescente di quello della sproporzione dei costi.
In contrario, attenendosi strettamente ai confini segnati dalle norme sovranazionali, l’ambito dell’obbligo risulta più nitido, in quanto l’interesse del datore di lavoro, contrapposto a quello del lavoratore disabile, appare adeguatamente tutelato, da un lato dall’espresso riconoscimento del suo diritto ad attendersi comunque dalla prestazione del lavoratore un risultato utile (di cui dice il diciassettesimo considerando della Direttiva 2000/78), dall’altra dal richiamo alla sproporzione dei costi, per essere quello dei costi un dato oggettivo e appropriato al fine di misurare l’utilità e il sacrificio di un’azione in un’organizzazione legittimamente diretta alla realizzazione di profitti, quale è l’impresa.
Quanto alla posizione dei terzi coinvolti dalle scelte aziendali (i colleghi del lavoratore disabile essenzialmente, di cui fa menzione anche la sentenza del 6497/2021) è di una certa evidenza che i loro diritti (i diritti nascenti dai loro rapporti di lavoro) segnino, non diversamente dall’impraticabilità materiale degli accomodamenti, il limite della loro impraticabilità giuridica.
Così non sarebbe certo soluzione ragionevole il demansionamento di altri dipendenti, mentre potrebbe esserlo, come del resto espressamente previsto dal ventesimo considerando della direttiva, un diverso riparto delle mansioni (che per esempio ne sottragga alcune ai colleghi del disabile per assegnarle a lui o per contro ripartisca tra i colleghi quelle incompatibili con la disabilità già assegnate al lavoratore portatore di handicap) tale da non ledere il diritto dei lavoratori terzi alla professionalità. Uno spazio questo, merita rammentarlo, reso più ampio dal nuovo testo dell’art. 2103 c.c., che non assegna più all’equivalenza delle mansioni la funzione di limite dello jus variandi, così obiettivamente riducendo il contenuto del diritto dei lavoratori alla conservazione della professionalità acquisita.
Già così inteso si tratta di un limite segnato da norme generali, quali appunto il disposto dell’art. 2103 c.c. (nel testo tempo per tempo vigente) e quindi un confine elastico e affidato a valutazioni necessariamente complesse. Tuttavia in questo ambito l’opera dell’interprete può comunque avvalersi della lunga elaborazione giurisprudenziale relativa alla norma codicistica e ai limiti dello jus variandi del datore di lavoro privato e pubblico.
In contrario un sindacato di ragionevolezza degli accomodamenti che si muova oltre gli spazi segnati dai confini accettabilmente obiettivi della sproporzione dei costi per l’impresa e dei diritti dei terzi rischia di introdurre nel sistema un elemento di incertezza potenzialmente idoneo a comprimere gli spazi di tutela dei diritti dei disabili, invece loro assicurati dal diritto dell’Unione e a ridurre l’effettiva novità di una pronuncia, che resta comunque sotto molti aspetti assai rilevante e comunque molto indicativa di quanto la disciplina limitativa dei licenziamenti sia davvero cambiata per effetto dell’applicazione del diritto antidiscriminatorio.
Un altro ambito nel quale gli effetti applicativi del principio paritario risultano immediatamente evidenti è quello del licenziamento per superamento del periodo di comporto dei lavoratori e delle lavoratrici disabili nei casi in cui la patologia che determini le assenze sia quella da cui è derivata la disabilità.
Perché è noto che la Corte di Giustizia con la sentenza 18.1.2018, resa nella causa C-270/16, ha affermato che un lavoratore disabile è, in linea di principio, maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare le disposizioni sul comporto rispetto a un lavoratore non disabile, così che le disposizioni come quella spagnola, che era soggetta all’esame della Corte e che prevede la risoluzione del rapporto in caso di superamento di un certo numero di assenze definite intermittenti, sono idonee a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità, così che è indispensabile per l’interprete valutare se una simile disparità si dia per una finalità legittima e questa sia perseguita con mezzi appropriati e necessari.
Sono questioni che evidentemente si pongono anche per la disciplina nazionale sul comporto e infatti se le è poste la giurisprudenza di merito, che, almeno nel suo orientamento maggioritario, ha assunto che la previsione di un termine unico di comporto applicabile anche ai lavoratori disabili e in relazione alle assenze connesse alla disabilità costituisce discriminazione indiretta . Perché se la finalità delle disposizioni in materia di comporto (contemperare il diritto del lavoratore a conservare il posto di lavoro in caso di malattia con l’interesse, anche di certezza, proprio dell’organizzazione aziendale) è senz’altro legittima, il mezzo praticato non risulta appropriato in quanto oblitera del tutto la differenza, quanto al rischio di incorrere in assenze per malattia, tra lavoratori disabili e non.
Anche assunto come ragionevolmente certo, almeno allo stato, un simile dato, le questioni aperte restano tuttavia molte.
Infatti: riconosciuto come discriminatorio un termine unico di comporto e affermata quindi la necessità che, rispetto alla regola apparentemente neutra, si appresti un accomodamento ragionevole in favore dei lavoratori disabili, in cosa questo accomodamento dovrebbe consistere: nello scomputo delle assenze riferibili alla disabilità, con l’effetto di massimo adattamento alla situazione concreta (e la Corte di Giustizia ha più volte affermato che l’accomodamento deve tenere conto di tutte condizioni di fatto del caso concreto), ma di minima considerazione delle esigenze di certezza cui pure le disposizioni sul comporto sono finalizzate? Oppure costituisce accomodamento ragionevole l’allungamento del comporto, soluzione questa che, per contro salvaguarda le esigenze di certezza a scapito della concretezza delle singole fattispecie?
E nel caso in cui si propenda per la prima soluzione, lo scomputo delle assenze potrà darsi senza alcun limite? Questione questa che deve di necessità esaminarsi anche alla luce del diciassettesimo considerando della Direttiva 2000/78, che riconosce il diritto del datore di lavoro ad attendersi comunque dalla prestazione del lavoratore un risultato utile, così che in ogni caso la neutralizzazione delle assenze legate alla malattia dovrebbe incontrare il limite dell’accertata permanenza della condizione di inabilità al lavoro. E del resto la neutralizzazione di tutte le assenze non è ignota nell’ordinamento interno, in quanto molti contratti collettivi la prevedono in via generale per i casi di infortunio.
Infine, questione anche questa niente affatto irrilevante, per l’operatività del divieto è necessaria almeno la conoscibilità da parte del datore di lavoro della causa dell’assenza? Ed eventualmente in quale momento dovrebbe darsi una tale condizione? Al momento delle singole assenze? O a quello dell’intimazione del licenziamento?
Questione anche questa di non facile soluzione, in quanto ritenere necessariamente costitutiva della condotta discriminatoria (almeno) la conoscibilità da parte del datore di lavoro della causa dell’assenza potrebbe in effetto reintrodurre nella nozione di discriminazione un elemento soggettivo che le è invece estraneo. In contrario tuttavia non può trascurarsi come il Comitato per i diritti delle persone con disabilità (di cui si è detto sopra), nelle sue linee guida, affermi essere connaturato alla nozione di accomodamento ragionevole che l’obbligato entri “in dialogo con l’individuo con disabilità” , una condizione che, applicata alle questioni legate al comporto, che qui interessano, dovrebbe quindi presupporre almeno la conoscibilità della causa dell’assenza .
D’altro canto l’esigibilità della condotta lecita potrebbe essere salvaguardata limitando l’obbligo di cooperazione del lavoratore alla fase successiva al recesso, come già oggi accade per il licenziamento della lavoratrice madre. O ancora potrebbe ritenersi che l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli in confronto dei lavoratori disabili imponga al datore di lavoro oneri di iniziativa e informazione (per esempio sull’approssimarsi del comporto) altrimenti sempre esclusi dalla giurisprudenza.
Su questi temi è intervenuta da ultimo la Corte di Cassazione con la sentenza 9095/2023, pubblicata il 31.3.2023.
In quel giudizio era impugnato un licenziamento assunto come discriminatorio per ragione di handicap, in quanto intimato in esito al superamento del periodo di comporto contrattuale da parte di un lavoratore, portatore di un grave stato patologico, qualificabile come disabilità, senza distinguere tra assenze per malattia e assenze per patologie correlate alla disabilità.
Il giudice di legittimità, dopo avere richiamato la disciplina dell’Unione in materia di discriminazione per disabilità e in specie i principi espressi dalla CGUE nella sentenza del 18/1/2018 in causa C-270/16, già sopra richiamata, ha innanzi tutto avvalorato l’indirizzo di merito secondo cui l’applicazione anche al lavoratore disabile dell’ordinario termine contrattuale di comporto costituisce discriminazione indiretta. Secondo la Corte infatti “il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata”.
Tuttavia, si legge ancora nella sentenza impugnata, “questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato”, dal legislatore o, per quanto di competenza, delle parti sociali, anche al fine di contrastare fenomeni di assenteismo dovuto ad eccessiva morbilità. Una tale legittima finalità deve essere però “attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”. Così che “la necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittima finalità di politica occupazionale, postula, …, l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE (ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE)”.
La Corte affronta infine il tema della conoscibilità da parte del datore di lavoro delle cause dell’assenza, in una fattispecie nella quale la difesa dell’azienda aveva affermato di avere informato il lavoratore dell’approssimarsi del termine del comporto, invitandolo a dedurre in merito, senza avere risposta.
Sul punto la decisione riafferma la natura oggettiva dei divieti di discriminazione e nega che sia di conseguenza decisivo l’assunto del datore di lavoro di non essere stato messo a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, in quanto i certificati medici inviatigli non indicavano la specifica malattia causa dell’assenza. Non può tuttavia trascurarsi come, respingendo il motivo di impugnazione dedotto sul punto dall’azienda, la Corte abbia ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata nella parte in cui aveva affermato, anche sulla base di elementi presuntivi, essere stata comunque conosciuta dal datore di lavoro la condizione di disabilità del lavoratore.
L’intervento del giudice di legittimità avvalora quindi, allo stato definitivamente, l’affermazione della giurisprudenza di merito circa la natura di doveroso accomodamento ragionevole di un termine di comporto differenziato per i lavoratori disabili, ritenendo tuttavia ammissibile che un tale termine sia individuato anche in via generale dalla contrattazione collettiva (quindi verosimilmente anche attraverso la previsione di termini diversi e più estesi nei casi di assenze dovute a patologie qualificabili come disabilità).
Resta non del tutto appagante la soluzione raggiunta in ordine al tema della conoscibilità delle ragioni delle assenze da parte del datore di lavoro.
Il solo richiamo all’irrilevanza dell’intento soggettivo di discriminare infatti non è forse sufficiente a giustificare quella che sembra essere un’affermazione di irrilevanza anche della sola possibilità per il datore di lavoro di conoscere, con una diligenza sufficiente, le cause dell’assenza.
Un’affermazione questa che non pare tenere conto delle indicazioni contenute nelle ricordate linee guida del Comitato per i diritti delle persone con disabilità e prima non si confronta del tutto con la natura necessariamente “dialogica” dell’accomodamento ragionevole, che richiede ex se che la necessità di apprestarlo sia nota all’obbligato o almeno possa esserlo per un soggetto di buona fede e diligenza adeguata.
Sembra allora a chi scrive che la conoscibilità della causa dell’assenza (della relazione cioè tra assenza e disabilità), da parte del datore di lavoro tenuto al rispetto dei divieti di discriminazione, costituisca un presupposto di praticabilità giuridica dell’accomodamento, che deve quindi realizzarsi, al più tardi, al momento dell’impugnazione del licenziamento e al fine di renderne possibile per il datore di lavoro la revoca (secondo una schema analogo a quello previsto per il licenziamento della lavoratrice madre) e quindi la concreta realizzazione dell’accomodamento.
Si tratta di una soluzione che non contrasta con la natura necessariamente obiettiva dei divieti di discriminazione, giacché la conoscibilità delle cause delle assenze è requisito che appartiene, non all’apprezzamento dell’elemento soggettivo dell’agire datoriale, quanto piuttosto al piano della esigibilità obiettiva della condotta lecita.

 

 

 

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