TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1.- Premessa.
Comporre un quadro ricognitivo dei licenziamenti e delle tutele previsti nell’attuale ordinamento in caso di licenziamento individuale illegittimo per difetto di giusta causa o giustificato motivo è un’operazione tutt’altro che agevole, perché significa addentrarsi in una terra sconfinata e desolata, in cui si affastellano elementi non sempre strettamente normati che, tuttavia, confluiscono nel momento valutativo, intracciandosi, sovrapponendosi e, non di rado, entrando in conflitto tra loro a fronte (ed in ragione) dei notevoli mutamenti normativi e giurisprudenziali che si sono verificati negli ultimi anni.
Ognuno di noi sa cosa nell’esperienza quotidiana significhi decidere di un licenziamento perché l’aspetto giuridico spesso vede sovrapporsi valutazioni economiche, politiche, sociali oltre che emozionali. Anzi dobbiamo riconoscere che la sfera emotiva fornisce proprio su questo terreno un contributo indispensabile per la razionalità, se è vero che sono proprio le influenze emotive a dare inizio al processo decisionale secondo quanto affermano studi psicologici consolidati da tempo (Le Doux J, 1998; Kahnemann 2011).
Del resto, quando la Corte costituzionale nella sentenza n. 194 del 2018 parla del licenziamento come di un “momento traumatico” nella vita del lavoratore e della necessità di una personalizzazione del danno alla luce del principio di eguaglianza, trascende essa stessa l’aspetto strettamente normativo della regola astratta e ci riporta ad una sfera di concretezza che non esito a definire “soggettiva” e in cui assume un ruolo decisivo e cruciale la discrezionalità del giudice, seppur da esercitarsi entro i confini tracciati dal legislatore.
La discrezionalità, infatti, è imprescindibile ove si voglia «garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto entro una soglia minima e una massima».
È bene ricordare che l’attuale disciplina, pur nelle sue varie stratificazioni, mantiene al suo interno un sistema duale di regola e sanzioni, e all’interno di queste prevede quattro diverse tipologie di rimedi che reagiscono non solo con riguardo al dato cronologico costituito dal momento in cui licenziamento è intimato ma anche al tipo di vizio che inficia il recesso, nonché a dati soggettivi, anche diversi da quello tradizionale del requisito dimensionale.
Le tutele si presentano, così, frammentarie dando luogo ad un obiettivo stato di incertezza che si riflette negativamente sul contenzioso di lavoro, determinando orientamenti non sempre univoci sia sotto il profilo della identificazione della fattispecie regolatrice del caso concreto, sia sotto quello sanzionatorio. E ciò in evidente contrasto con l’obiettivo perseguito dal legislatore delle riforme, che era invece quello di intervenire sul tessuto normativo con regole certe e incontrovertibili, sì da porre un argine all’imprevedibilità delle sentenze e, soprattutto, ai tempi ancor più imprevedibili del processo, allo scopo finale di rendere calcolabili i costi del licenziamento (firing cost) e rimuovere i tanto paventati ostacoli agli investimenti anche stranieri delle imprese.
Un’analisi storica del licenziamento, a partire dal codice del 1942, fino alla intensa stagione delle riforme di questi ultimi dieci anni, sarebbe estremamente interessante per non dimenticare il punto dal quale si è partiti e intravedere in alcune scelte del legislatore tentativi più o meno consapevoli di un ritorno al passato, in cui vigeva una sostanziale libertà di recedere dal contratto di lavoro, senza alcuna giustificazione, in una visione paritaria dello status del lavoratore e di quello del datore di lavoro.
Ed è opportuno ricordare che l’art. 2118 cod.civ. fu sottoposto al giudizio di legittimità costituzionale e, con la sentenza n. 45 del 1965 , la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione in relazione all’art. 4 Cost., sancì che il diritto al lavoro è un «fondamentale diritto di libertà della persona umana», che, pur non garantendo il diritto alla conservazione del lavoro, «esige che il legislatore […] adegui […] la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro e circondi di doverose garanzie […] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti» (punti 3 e 4 del “considerando in diritto”).
Questi principi sono stati valorizzati dal legislatore nella legge n. 604 del 1966, il cui art. 1, nel prevedere che «il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile o per giustificato motivo», segna il passaggio del licenziamento dal campo degli atti “liberi” a quello degli atti “discrezionali”; dal punto di vista della teoria del negozio giuridico, il recesso transita dai negozi astratti (in cui pacificamente deve inquadrarsi il recesso ad nutum) ai negozi causali.
Lo Statuto dei lavoratori del 1970 si pone in linea di continuità con la legge n. 604/1966, non la sostituisce integralmente ma ne mantiene l’impianto sostanziale, tenendo fermi i concetti di giusta causa e giustificato motivo, soggettivo e oggettivo, come recepito dall’art. 3, nonché l’incidenza dei vizi procedurali sulla efficacia del licenziamento.
L’elemento di novità, questo sì di portata rivoluzionaria, riguarda invece l’apparato rimediale: in presenza di determinati requisiti (primo fra tutti quello dimensionale), la stabilità cosiddetta obbligatoria – e variamente definita dalla dottrina più sensibile agli interessi dei lavoratori come «surrogato obbligatorio della stabilità» - cede il passo alla «stabilità reale», con la previsione della reintegrazione nel posto di lavoro.
Sicché, mentre la tutela obbligatoria rimane confinata ai dipendenti di imprese fino a quindici dipendenti, (fino a cinque per gli imprenditori agricoli) per i quali, in caso di licenziamento illegittimo, c’è l’obbligo del datore di lavoro di riassumere il lavoratore licenziato entro tre giorni, «o in mancanza, risarcire il danno versandogli un’indennità» , l’art. 18 diventa il centro di un nuovo sistema.
La reintegrazione diventa l’unica sanzione e produce, come segnalato da autorevole dottrina, un immediato effetto di semplificazione, confinando nel mero dogmatismo concettuale l’operazione di qualificazione del recesso in termini di nullità, invalidità o annullabilità : la rimozione con effetti ex tunc del licenziamento e la sopravvivenza del rapporto quali conseguenze dirette della reintegrazione incidono inevitabilmente anche sulla natura del vizio, rendendo il licenziamento invalido e/o annullabile, laddove per l’art. 8 della legge n. 604/1966 il licenziamento ingiustificato, pur essendo illecito, rimane ciò nonostante valido.
Si tratta di una tutela che, anche a fronte dei recenti interventi legislativi, mantiene, come sottolineato dal Presidente Amoroso nel suo saggio sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori , il suo valore di “archetipo iniziale” nella disciplina dei licenziamenti, dal quale non si può prescindere, nonostante i depotenziamenti (o tentativi di depotenziamento, come si vedrà alla luce degli interventi demolitori della Corte Costituzionale) apportati dalle riforme, a partire alla legge n. 92/2012 fino al Jobs act del 2015.
2.- La sentenza del 2018 n. 194, quale punto di partenza dell’analisi.
Un dato di analisi miliare è rappresentato dalla sentenza n. 194 del 2018 , punto di approdo di meno recente giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 45/1965; Corte Cost. n.60/1991, Corte Cost. n. 541/2000; Corte Cost. n. 46/2000) e di riferimento per le pronunce successive della stessa Corte (Corte Cost. 1 aprile 2021, n. 59 , e Corte Cost. 19 maggio 2022, n. 125 ).
Nel pronunciare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1°, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, anche nel testo modificato dall’art. 3, comma 1°, d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni, nella l. 9 agosto 2018, n. 96, - nella parte in cui, in caso di licenziamento illegittimo, determinava l’indennità in un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza (quale ingiustificata omologazione di situazioni diverse: art. 3 Cost.) e della ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente (art. 3 Cost.) - la Corte costituzionale ha avuto cura di ribadire e precisare che «la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (Corte Cost. 199/2005; 420/1991, 303/2011), il quale, ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato» (punto 12.1.), oltre che dissuasivo per il datore di lavoro, «allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto» (punto 12. 2. Corte cost. n. 194/2018) .
Ed è importante ricordare il richiamo che la stessa Corte costituzionale fa alla sentenza n. 194/1970 e ancora più specificamente alla sentenza n. 46/2000, che al punto 5 del ‘considerato in diritto’ ha espressamente negato che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost. – terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore – imponga un determinato regime di tutela: in altri termini, la tutela reintegratoria non gode di copertura costituzionale, ben potendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo anche solo risarcitorio-monetario (Corte Cost. 303/2011, in Foro it., 2012, I, 717), purché un tale meccanismo si articoli secondo un principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, «non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme» (Corte Cost. n. 268/1994, punto 5 del considerando in diritto).
Questi principi - conformi anche al diritto dell’Unione europea e, in particolare, all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali - saranno ripresi nella sentenza n. 59/2021, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 18, comma 7°, l. n. 300/1970, come modificato dall’art. 1 l. n. 92/2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4°.
3.- Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nella giurisprudenza della Corte di cassazione prima degli interventi della Corte costituzionale del 2021 del 2022.
I principi espressi dalla Corte Costituzionale trovano la loro radice nel cosiddetto diritto vivente, come delineato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.
La legge n. 92/2012 prevedeva nella sua formulazione originaria un nuovo regime sanzionatorio per il licenziamento illegittimo intimato per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative: la regola, infatti, prevedeva la corresponsione di un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità, lasciando il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino ad un massimo di dodici mensilità, circoscritto alla sola ipotesi della «manifesta insussistenza del fatto». Sostanzialmente, il legislatore aveva previsto una sorta di dècalage delle tutele, stratificate in senso via via più riduttivo, ed esplicitato nel passaggio dalla “insussistenza” di cui al comma 4 alla “manifesta insussistenza” di cui al comma 7 ; inoltre, subordinava la tutela reintegratoria ad una non meglio precisata valutazione del giudice, il quale “poteva” concederla oppure, evidentemente, no.
La norma ha posto da subito un duplice quesito interpretativo: da un lato occorreva definire il concetto di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»; dall’altro interpretare l’uso del verbo “può”, e dunque la latitudine dei poteri del giudice con riferimento alla scelta della tutela da assicurare al lavoratore illegittimamente licenziato, tra quella reintegratoria di cui al quarto comma dell’art. 18 e quella indennitaria forte, di cui al quinto comma, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La giurisprudenza di merito, in prima battuta, e quella di legittimità, in ultima istanza, hanno dovuto misurarsi con queste novità legislative che, in un certo senso, imponevano una ridefinizione del concetto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo al fine di individuare con esattezza il tipo di sanzione applicabile nel caso di sua difformità rispetto allo schema normativo.
Si è trattato anche in questo caso di un percorso tortuoso e non privo di inciampi, ove si consideri la difficoltà oggettiva di perimetrare il concetto di fatto e, in negativo, della sua insussistenza (per di più “manifesta”), considerato che «nel caso del licenziamento “economico” si discute assai raramente di fatti, ma quasi sempre di scelte, di valutazioni, di prognosi circa la futura utilizzabilità dei rapporti di lavoro, pur sempre protette dalla libertà economica» .
Fondamentale al riguardo è la sentenza Cass.7 dicembre 2016, n. 25201 , che ha in un certo senso ridelineato i presupposti di validità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La sentenza, nel ricordare la contrapposizione tra l'orientamento giurisprudenziale che, ai fini della legittimità del recesso, riteneva necessario che la modifica organizzativa fosse disposta al fine di fronteggiare una situazione di crisi dell'azienda non contingente e l'orientamento che invece reputava legittimo il recesso anche quando la modifica organizzativa fosse attuata dal datore di lavoro allo scopo di ridurre i costi o di incrementare i profitti, e nell'accordare la preferenza a questa seconda tesi , ha comunque ribadito la necessità del controllo giudiziale sull'effettività del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato, individuando quale limite al potere datoriale la non pretestuosità della scelta organizzativa. In altri termini, «deve sempre essere verificato il nesso causale tra l'accertata ragione inerente l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro come dichiarata dall'imprenditore e l'intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata ristrutturazione. Ove il nesso manchi, anche al fine di individuare il lavoratore colpito dal recesso, si disvela l'uso distorto del potere datoriale, emergendo una dissonanza che smentisce l'effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento» .
Il passaggio ulteriore è segnato dalla sentenza del 2 maggio 2018, n. 10435 (seguita immediatamente da Cass. 12 dicembre 2018, n. 32159) che, riprendendo un orientamento ritenuto consolidato della stessa Corte di cassazione, ha ribadito che la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall'altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repêchage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa .
Ha quindi precisato – dissentendo da cospicuo orientamento dottrinale, secondo cui la violazione del cd. obbligo di repêchage non consentirebbe l'operatività della tutela reintegratoria nel regime previsto dall'art. 18 l. n. 300 del 1970 come modificato dalla I. n. 92 del 2012 in quanto elemento estraneo alla fattispecie del licenziamento - che «la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore».
A questo approdo, la Corte è pervenuta ritenendo che, a fronte dell’espressione lessicale utilizzata dal legislatore, - il "fatto", sganciato da richiami diretti ed espliciti alle "ragioni" connesse con l'organizzazione del lavoro o l'attività produttiva previste dall'art. 3 della legge n. 604 del 1966 -, il riferimento normativo deve intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata dalla giurisprudenza consolidata.
Una volta accertata l'ingiustificatezza del licenziamento per carenza di uno dei due presupposti (e, in particolare, nel caso di specie, per inottemperanza all'obbligo del repêchage), il giudice di merito, ai fini dell'individuazione del regime sanzionatorio da applicare, doveva compiere un ulteriore passaggio logico giuridico, anch’esso non scevro da soggettivismo giuridico, passando ad interpretare la locuzione della «manifesta insussistenza del fatto» posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
L’espressione, anche qui oggetto di ampio dibattito dottrinale - giacché, si è detto, un fatto è o non è, e l’aggettivo “manifesto” riferito ad una realtà fenomenica è difficilmente configurabile -, è stata interpretata dalla Corte di cassazione nel senso di «evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque della sua natura pretestuosa» .
La Corte ha poi aggiunto un ulteriore tassello nell’interpretazione della norma, precisando che la "manifesta insussistenza" deve essere trasposta sul piano probatorio sul quale il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 604 del 1966, è chiamato a confrontarsi.
Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi con la sentenza del 4 marzo 2021, n. 6083, secondo cui il requisito della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento», previsto dall'art. 18, comma 7, st.lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, ai fini del riconoscimento della tutela reintegratoria, «è da intendersi come chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, a cui non possono essere equiparate né una prova meramente insufficiente, né l'ipotesi nella quale tale requisito possa semplicemente evincersi da altri elementi opinabili o non univoci» (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto non dimostrativa della manifesta insussistenza la circostanza che l'azienda avesse fatto ricorso al lavoro straordinario, peraltro riferibile al monte ore di due soli lavoratori).
L’esegesi della norma ha poi richiesto un ulteriore sforzo interpretativo perché, come si è già ricordato, la norma nella sua formulazione originaria prevedeva che, a fronte di un’accertata “manifesta insussistenza” dei fatti posti a fondamento del recesso, ossia nell’ipotesi in cui il giudice ritenesse evidente la carenza di uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, egli potesse (non già dovesse) ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro.
L'applicazione della tutela reale richiedeva, quindi, un ulteriore vaglio giudiziale.
Ovviamente, fu subito notata la totale assenza di indicazioni fornite dal legislatore affinché orientasse la scelta del giudice tra il regime sanzionatorio più severo, ovvero la tutela reintegratoria, o quello meno rigoroso. Altrettanto ovviamente ci si rese conto della necessità che il giudice motivasse la sua scelta e quindi si impose un ulteriore sforzo esegetico per individuare i criteri in base ai quali il potere discrezionale potesse essere esercitato.
E si ritenne che l’unico criterio che consentisse al giudice di esercitare, secondo principi di ragionevolezza, il potere discrezionale attribuito dal legislatore dovesse essere desunto dai principi generali forniti dall'ordinamento in materia di risarcimento del danno, e, in particolare, dal concetto di eccessiva onerosità al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (art. 2058 cod. civ., applicabile anche ai casi di responsabilità contrattuale, cfr. Cass. n. 15726 del 2010, Cass. n. 4925 del 2006, Cass. n. 2569 del 2001, Cass. n. 582 del 1973), ovvero di diminuire l'ammontare della penale concordata tra le parti (art. 1384 cod. civ.) .
Il ricorso ai principi generali del diritto civile permetteva, nell’ottica della Corte di cassazione, di configurare un parametro di riferimento per l'esercizio del potere discrezionale del giudice, consentendogli di valutare - per la scelta del regime sanzionatorio da applicare - se la tutela reintegratoria fosse, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa. Un’eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro poteva consentire, dunque, al giudice di optare - nonostante l'accertata manifesta insussistenza dei requisiti costitutivi del licenziamento - per la tutela indennitaria.
Furono subito evidenziate le difficoltà pratiche di fare applicazione di tale principio di diritto e, in un certo senso, anche le sue incongruità, in ordine all’onere di allegazione e di prova dell’eccessiva onerosità della reintegrazione, alla necessità o meno di una domanda esplicita del datore di lavoro di sostituire la reintegrazione con la tutela indennitaria, e anche alla obiettiva difficoltà di accertamento oltre che inidoneità di principi elaborati nel campo dei diritti ad essere trasferiti d’emblée sul terreno del licenziamento .
La Corte costituzionale, con la sentenza 1° aprile 2021, n. 59, ha preso atto di questa interpretazione, ritenuta espressamente “diritto vivente” (punto 6, del “considerato in diritto”), ma ne ha messo in luce l’irragionevolezza e la sua contrarietà al principio di eguaglianza. Sotto il profilo della ragionevolezza, la Corte costituzionale ha ritenuto che il richiamo alla eccessiva onerosità non pone un rimedio alla indeterminatezza del potere riconosciuto il giudice. L’eccessiva onerosità, come ricostruita dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, e dunque dal diritto vivente, presuppone valutazioni comparative «non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica privata», uno statuto eterogeneo tra i due rimedi della reintegrazione e della indennità, ove si consideri che quest’ultima non può dirsi costituire un risarcimento per equivalente. Tutto ciò non senza sottolineare le difficoltà probatorie di un accertamento di tal genere, che inevitabilmente incidono anche sui tempi di definizione del processo, nonché la possibilità per il datore di lavoro di ricorrere a manovre elusive, attraverso modifiche aziendali o societarie, dell’eventuale ordine di reintegrazione.
Si tratta di una sentenza che ha introdotto una notevole semplificazione del sistema, come è dimostrato dalla sua immediata applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione: in particolare con ordinanza del 25 maggio 2022, n. 16975 , si è affermato che « In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la "manifesta insussistenza del fatto", a seguito della sentenza n. 59 del 2021 della Corte costituzionale - che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 18, comma 7, secondo periodo, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), della l. n. 92 del 2012, nella parte in cui prevedeva un potere discrezionale del giudice in ordine all'applicazione della tutela reale - va sempre applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione sulla non eccessiva onerosità del rimedio» .
4.- La manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il percorso della Corte costituzionale ha avuto un ulteriore sviluppo con la sentenza 19 maggio 2022, n. 125 , con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 18, comma 7°, secondo periodo, l. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera d), L. 28 giugno 2012, n. 92, limitatamente alla parola «manifesta».
Anche in questo caso si è trattato di una operazione di ortopedia giuridica, forse non del tutto ortodossa sotto il profilo della giurisprudenza costituzionale, che ha tuttavia ricondotto a razionalità una norma che si presentava come incongrua sia rispetto alla diversa situazione in cui si trova il lavoratore di fronte ad un licenziamento disciplinare del quale sia accertata la insussistenza del fatto contestato, sia rispetto all’assenza di parametri per interpretare il senso di quell’aggettivo “manifesta”, la cui evanescenza e labilità è stata chiaramente sottolineata dai giudici delle leggi. Non si tratta di negare il potere discrezionale del giudice, che invece la Corte costituzionale ha più volte valorizzato (cfr. sentenza n. 194 del 2018 e la speculare sentenza n. 150 del 2022): si tratta invece di ancorare tale potere discrezionale a indici ben precisi, del tutto assenti nella locuzione scelta dal legislatore.
In particolare, al punto 9.2. del ‘considerato in diritto’, la Corte ha in un certo senso stigmatizzato la tecnica legislativa, affermando che «il requisito della manifesta insussistenza demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico. […] La sussistenza di un fatto non si presta a incontrovertibili gradazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto un’alternativa netta che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi». Ma la irragionevolezza è stata evidenziata anche sotto altri profili, cogliendo la Corte, per un verso, le difficoltà di accertamento nell’ambito del giudizio dell’evidenza della prova, spesso legata ad elementi accidentali e non prevedibili e, per altro verso, la mancanza di un qualsivoglia collegamento con il disvalore dell’illecito, giacché ciò che va valutato è la maggiore o minore facilità con cui la parte ha potuto provare in giudizio i presupposti fattuali del recesso.
5. Il licenziamento per giustificato motivo e giusta causa nel Jobs act. Cenni.
Il d.lgs. n. 23/2015 non novella l’art. 18 st.lav. (come modificato dalla legge Fornero), che rimane in vita unitamente alla legge n. 604/1966, ma dispone solo per i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore e si caratterizza per l’ulteriore ridimensionamento della tutela reale .
È questa la fondamentale novità contenuta nell’art. 3 del d.lgs. cit., rubricato «Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa», in cui emerge evidente la scelta legislativa di sovvertire il rapporto di regola-eccezione tra la tutela reale e quella indennitaria , rendendo la prima meramente residuale.
Il primo comma dell’art. 3 trascrive nella sostanza il comma 5 dell’art. 18 e dispone che, nei casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità .
La tutela reintegratoria non scompare del tutto ma è riservata alle sole ipotesi di licenziamento disciplinare in cui si dimostri in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, dovendosi peraltro escludere, in questo accertamento, ogni valutazione di proporzionalità: in tal caso, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria, da calcolarsi secondo quanto già indicato nell’art. 2, per il periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello dell’effettiva reintegrazione.
Al pari di quanto disposto dal comma 4 dell’art. 18 st.lav., dall’indennità risarcitoria deve essere dedotto non solo l’aliunde perceptum ma anche l’aliunde percipiendum, da determinarsi sulla base di quello che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. c) del d.lgs. 21 aprile 2000, n. 181 e successive modificazioni.
In ogni caso, la misura dell’indennità relativa al periodo precedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore alle dodici mensilità. Resta ferma la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissioni contributive. Si è dunque in presenza di una tutela reintegratoria attenuata.
Il dibattito dottrinale si è immediatamente incentrato sul valore della locuzione «insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore» e si sono riaccese le diatribe sulla nozione di «fatto» inteso come mero accadimento naturale, privo di una qualsivoglia valutazione in senso tecnico giuridico, e «fatto» giuridico .
E si è vista nella formulazione diversa rispetto a quella del comma 4 dell’art. 18 St.lav., - in cui il «fatto» è privo di aggettivazioni -, la volontà del legislatore di risolvere la querelle nel senso già indicato dalla Corte di cassazione nell’obiter dictum della sentenza 6 novembre 2014, n. 23669 .
In realtà, la dottrina è pressoché concorde nel ritenere che nel concetto di «fatto contestato» debba necessariamente rientrare anche la valutazione della sua materiale riferibilità al lavoratore, della imputabilità, dell’elemento psicologico-soggettivo, della sua antigiuridicità, nel senso che esso deve costituire un inadempimento contrattuale addebitabile al lavoratore . L’accertamento demandato al giudice deve estendersi, dunque, non solo alla verifica della sussistenza del fatto dal punto di vista fenomenologico, ma anche alla sua rilevanza disciplinare, con la conseguenza che il fatto può essere considerato materialmente sussistente solo se integra un inadempimento imputabile .
Si può dunque convenire con la tesi dottrinale secondo cui «“fatto materiale contestato” è quello connotato da una soglia minima di antigiuridicità, perché il datore di lavoro “oppone” al lavoratore un comportamento percepito ed evidenziato come contrario agli interessi dell’organizzazione, giuridicamente meritevoli di tutela e non certo frutto di capriccio» .
5.1.- segue: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel jobs act. Questioni irrisolte.
L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 dispone che, per i nuovi assunti, il licenziamento economico produce sempre l’effetto di estinguere il rapporto alla data del licenziamento e il datore di lavoro è condannato al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. La sanzione è dunque esclusivamente indennitaria, qualunque sia il vizio che inficia il recesso, e dunque anche nel caso in cui il giudice accerti la insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento.
Si superano così - non senza suscitare dubbi di legittimità costituzionale per l’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai vecchi assunti, per i quali opera la tutela reintegratoria attenuata - le ambiguità cui ha dato luogo (e dà luogo per i vecchi assunti) la formulazione del comma 7 dell’art.18 sul concetto di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» e sull’ambito di accertamento demandato al giudice.
Rimane comunque irrisolta la questione del licenziamento intimato per ragioni economiche ma di cui si accerti in giudizio la non veridicità dei motivi esposti a suo fondamento, e, dunque, il suo carattere meramente pretestuoso: una soluzione potrebbe essere offerta dalla disciplina di diritto comune, e in particolare dall’art. 1344 cod.civ., che reputa illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa. Il recesso dovrebbe pertanto considerarsi affetto da nullità ai sensi dell’art. 1418 cod.civ. .
Va infine ricordato che l’art. 4 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui, nel determinare l’importo della indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento viziato dal punto di vista formale o procedurale, stabilisce che essa sia pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza 16 luglio 2020, n. 150 ,

 

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