testo integrale con note e bibliografia

1. Il potere legislativo del 2024 ha versato nell’ordinamento giuridico italiano una nuova fattispecie, che si inserisce con una sua peculiarità nell’ambito del sistema duale fissato dall’art. 2118 c.c., in quanto si tratta di una risoluzione attribuita a recesso del prestatore di
* Testo della relazione presentata al Seminario di studio “La nuova disciplina delle dimissioni presunte per assenza ingiustificata (art. 19, legge 13 dicembre 2024 n. 203)”, organizzato dalla Sezione Umbria del CSDN e dal Consiglio Provinciale di Perugia dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro a Perugia il 10 aprile 2025.
lavoro e come tale integrante un atto di dimissioni, ma che non proviene da una sua manifestazione di volontà esplicita, tantomeno formalizzata con le modalità di cui ai commi 1 e 4 dell’art. 26 del D. Lgs. 14.9.2015 n. 151, ma di una risoluzione esercitata sul piano fenomenico dal datore di lavoro .
La fattispecie è stata introdotta dall’art. 19 della L. 13.12.2024 n. 203 (recante il generico titolo “Disposizioni in materia di lavoro”) con l’inserimento nell’art. 26 D. Lgs. n. 151/2015 di un comma 7-bis, che prevede che “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni” e, previa comunicazione da parte del datore di lavoro alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro , “il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore”.
Vi è quindi l’attribuzione legale a un comportamento del lavoratore, costituito da una “assenza ingiustificata” protratta per un certo periodo, dell’effetto giuridico di considerare il rapporto di lavoro “risolto per volontà del lavoratore”.
Sul piano formale la norma non costituisce una tipologia nuova, in quanto si inserisce nei casi definiti come negozi di attuazione o di volontà, nei quali la legge attribuisce a certi comportamenti (ad es. l’inizio di esecuzione del contratto ove sussistano i presupposti di cui all’art. 1327 c.c., la volontaria esecuzione del negozio annullabile ex art. 1444 c.c., ecc…) un valore negoziale .
La questione non è però formale, ma sostanziale, poiché si tratta di vedere se sia giustificata l’attribuzione a quel comportamento meramente fattuale, e più precisamente solo omissivo, del valore negoziale di volontà di recesso e le ragioni per le quali dopo il generalizzato inasprimento formale di cui all’art. 26 D. Lgs. 14.9.2015 n. 151, per cui le dimissioni devono essere fatte, a pena di efficacia, esclusivamente con modalità telematiche volte a garantirne la genuinità e l’effettività temporale, l’ordinamento ha cambiato decisamente impostazione attribuendo a un mero comportamento un valore equipollente ad un esplicito e formalizzato atto di volontà.
2. Tale essendo la norma, la congerie dei suoi problemi applicativi non può non essere preceduta da una ricostruzione delle sue finalità e, sotto altro piano, dal suo inserimento, anche ex art. 12, 2° comma, delle disposizioni sulla legge in generale, nel sistema giuridico.
Quanto alle sue finalità, si pone una questione preliminare, ma già fondamentale.
Considerando la Relazione iniziale al disegno di legge n. 1532 presentato alla Camera dei Deputati l’8.11.2023 dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Marina Elvira Calderone di concerto con altri sei Ministri, poi sfociato, a seguito della seduta della Commissione Lavoro XI della Camera n. 204 del 28.11.2023, nel disegno di legge n. 1532 bis , risulta testuale che una delle finalità perseguite era quella di superare le problematiche per i datori di lavoro derivanti dal fatto di allontanamenti volontari e definitivi dal lavoro di dipendenti senza alcuna loro manifestazione della formalizzazione di tale volontà e dai conseguenti “licenziamenti « necessitati » dall'intenzione di risolvere il rapporto di lavoro senza formalizzare le dimissioni, per poter così usufruire indebitamente del trattamento di disoccupazione, con aggravio di costi per i datori di lavoro, di fatto costretti al licenziamento e al pagamento dei relativi oneri”.
L’obiettivo dichiarato della norma era quindi quello di “riequilibrare in concreto le rispettive posizioni dei contraenti in tutti i casi in cui il lavoratore effettivamente manifesta la propria intenzione di risolvere il rapporto di lavoro, ma non adempie le formalità prescritte dalla legge”.
Si trattava quindi di recepire l’esigenza dei datori di lavoro di evitare di essere costretti a un licenziamento “con aggravio di costi”, in quanto tenuti “al pagamento dei relativi oneri”.
Ci si riferiva in sostanza al contributo per il licenziamento (c.d. ticket) previsto dall’art. 2, comma 31, L. 28.6.2012 n. 92, attualmente ammontante, al massimo, a € 1.922,25.
Tale esigenza, in quanto relativa ai datori di lavoro, sarebbe privatistica.
Tuttavia nella stessa Relazione veniva indicata un’esigenza diversa e ulteriore, e cioè quella di precludere i comportamenti dei prestatori di lavoro, che, pur volendo sostanzialmente cessare il rapporto di lavoro, non formalizzano le dimissioni “per poter così usufruire indebitamente del trattamento di disoccupazione”.
Questa finalità è di tipo pubblicistico, cioè connessa all’interesse pubblico di evitare esborsi pubblici, tramite l’INPS, di importo anche consistente, perché relativo a due anni e solo in parte limitata, pari a circa il 10%, coperto dal contributo a carico del datore di lavoro.
La considerazione di tale seconda finalità incide sulla definizione delle soluzioni applicative.
3. Per ordine cronologico di svolgimento della sequenza prevista dal nuovo comma 7 bis dell’art. 26 D. Lgs. n. 151/2015, è opportuno procedere allo scioglimento del nodo temporale, e cioè se per la determinazione delle fattispecie occorra che l’assenza ingiustificata si prolunghi oltre i quindici giorni (a parte la questione del loro computo), o sia invece sufficiente che si prolunghi “oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro”.
Nel primo senso si è pronunciato il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con Nota-Circolare 27.3.2025 n. 6 del Dipartimento per le politiche del lavoro, previdenziali, assicurative e per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro a firma del Direttore Generale Maria Condemi, assumendo che il termine di quindici giorni sarebbe quello minimo e che, in ossequio al principio per cui l’autonomia legale può derogare solo in melius alle disposizioni di legge, non sarebbe valido un termine inferiore.
Tuttavia, a parte l’immediata presa di posizione contraria del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro espressa con una richiesta di chiarimenti del 3.4.2025, nella quale si è espressa l’opinione che “il legislatore abbia lasciato ampio spazio alla contrattazione collettiva per definire il termine, senza imporre limiti minimi ulteriori”, è proprio una interpretazione complessiva che induce a dissentire dalla tesi del Dipartimento del Ministero del Lavoro.
Il comma 7-bis pone a base della fattispecie una nozione di “assenza ingiustificata”, modellata su quella “protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro”, per cui è proprio la norma che assume a riferimento i prodotti dell’autonomia collettiva.
Non sono concepibili quindi due nozioni distinte di assenza ingiustificata, per cui è tale quella che è così prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto, tranne ovviamente quelle pur rare ipotesi in cui sia il contratto collettivo a prevedere uno specifico termine per la considerazione dell’assenza ingiustificata come equipollente di dimissioni .
Né può sostenersi che la norma farebbe riferimento a futuri prodotti normativi collettivi calibrati su una nuova nozione di assenza ingiustificata rapportata allo specifico disposto del comma 7-bis, poiché nulla autorizza questa interpretazione futurologica e, d’altra parte, il legislatore non poteva che tenere conto della produzione normativa già stabilizzata in oltre 500 contratti collettivi nazionali.
Deve quindi ritenersi che la nuova fattispecie possa realizzarsi già subito dopo il termine per assenza ingiustificata previsto in ciascun contratto collettivo come presupposto di risoluzione per giusta causa, anche se prevedibilmente le sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro considereranno idonee, e atte a determinare il loro intervento, in conformità all’indicazione ministeriale, solo assenze ingiustificate protrattesi per più di quindici giorni.
4. Quanto al computo di tali giorni, poiché deve trattarsi di assenza ingiustificata, ne discende che deve trattarsi di giorni a cui si addice una tale qualificazione, e non a giorni di calendario secondo la previsione generale, ma non attinente alla fattispecie, dell’art. 155 c.p.c.
5. È acquisito per comune valutazione ed anche per la conforme posizione espressa dal Ministero del Lavoro che la norma del comma 7-bis non è applicabile alle ipotesi di speciale tutela di dimissioni della lavoratrice, dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio ad un anno dopo la celebrazione dello stesso, di cui all’art. 35, 4° comma, D. Lgs. 11.4.2006 n. 198, per le quali occorre la conferma all’Ispettorato territoriale del Lavoro, e alla lavoratrice in stato di gravidanza o madre e al padre titolare del congedo di paternità di cui all’art. 55 D. Lgs. 26.3.2001 n. 151, per le quali occorre la convalida dell’Ispettorato stesso.
Deve ritenersi parimenti acquisita, sia pur per ragioni diverse, l’inapplicabilità ai casi di dimissioni per assenza ingiustificata del potere (definito dalla norma come facoltà) di revoca entro sette giorni previsto per le ordinare dimissioni dal 2° comma dell’art. 26 D. Lgs. n. 151/2015, ed anche in questo si esprime la specialità della fattispecie di cui al comma 7-bis, che non è relativa ad un effettivo, e comprovato, atto volontario di dimissioni, ma ad una misura sanzionatoria alla quale è estranea la possibilità di rimedio volontario insita nel potere di revoca delle dimissioni.
6. Una volta decorso il termine previsto dal singolo contratto collettivo, e comunque quello di quindici singoli giorni di assenza ingiustificata, e fatta la comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, il datore di lavoro deve procedere all’ulteriore adempimento della trasmissione del relativo modello Unilav.
7. Si pone a questo punto una questione particolare, ma di rilevanza più complessa.
In primo luogo, si tratta di definire se sul piano del rapporto di lavoro la risoluzione avvenga nel momento dell’invio o della ricezione della comunicazione dell’assenza ingiustificata alla sede territoriale dell’INL o al momento dell’invio o della ricezione della comunicazione Unilav.
Per conformità al principio generale, deve ritenersi che sia rilevante questo secondo momento e precisamente il ricevimento della comunicazione Unilav (peraltro sostanzialmente contestuale ad un suo corretto invio), in quanto l’atto che poi entrerà a far parte del percorso storico del lavoratore è proprio questo.
8. Ma si apre poi una pagina per lo più non approfondita dai primi commentatori .
Il fatto che la legge preveda che con l’assenza ingiustificata il rapporto di lavoro si intende risolto “per volontà del lavoratore” non toglie che tale volontà non è stata espressa e che la fattispecie si atteggia in modo del tutto diverso da quello delle ordinarie dimissioni, e in particolare di quelle formalizzate ai sensi dei commi 1 e 4 dell’art. 26 del D. Lgs. n. 151/2015.
La considerazione, che si deve alla persona del lavoratore quale parte del rapporto contrattuale oltre che ai sensi dei principi costituzionali, induce a ricostruire la fattispecie nel senso che dalla stessa discende che l’atto con cui il datore di lavoro comunica all’Ispettorato l’assenza del lavoratore debba essere portato a conoscenza anche del lavoratore stesso.
Su tale piano è estremamente rilevante la posizione interpretativa assunta dal Ministero del Lavoro con la Nota-Circolare 27.3.2025 n. 6, secondo cui il datore di lavoro dovrà, oltre che indicare tutti i contatti e recapiti del lavoratore, “trasmettere la comunicazione inviata all’Ispettorato territoriale, anche al lavoratore, per consentirgli di esercitare in via effettiva il diritto di difesa previsto dall’art. 24 della Costituzione”.
Per cui, a parte l’applicazione in concreto del principio dell’efficacia costituzionale dei rapporti fra privati (“Drittwirkung”), è rilevante la priorità, rispetto all’intervento dell’Ispettorato, della possibilità che al lavoratore sia garantita la sua difesa, il che presuppone non solo l’invio a lui della comunicazione, ma il ricevimento legale della stessa, che si realizza entro dieci giorni dal pervenimento nella sua sfera di conoscibilità.
Dopo questa prima comunicazione deve ritenersi però che il datore di lavoro debba dare comunicazione al lavoratore anche dell’ulteriore atto di invio del modello Unilav, in cui si è concretizzata la vera e propria risoluzione del rapporto.
Non essendo ignoti all’ordinamento casi in cui determinati effetti si producono già con il mero invio di una comunicazione (v., a parte i casi di “scissione processuale” per la notifica, l’art. 6 L. 15.7.1966 n. 604, che fa decorrere il termine di 180 giorni per il deposito del ricorso o per la richiesta di tentativo di conciliazione e di arbitrato non dalla ricezione dell’atto di impugnazione stragiudiziale, ma dal suo invio), si deve quindi ritenere, anche per non aggiungere un altro elemento di sospetta illegittimità costituzionale della norma, che condizione per la validità della produzione degli effetti della nuova fattispecie risolutiva sia, oltre all’invio e al ricevimento da parte del lavoratore della comunicazione inviata all’Ispettorato, quantomeno l’avvenuto invio alla residenza o al domicilio del lavoratore conoscibile (sulla base delle risultanze anagrafiche o di altri elementi) della comunicazione del modello Unilav.
D’altra parte, se poi in diverso contesto, anche l’art. 1327 c.c. prevede, nel caso di conclusione del contratto a séguito di inizio dell’esecuzione da parte dell’accettante, che questi deve darne prontamente avviso all’altra parte, il che vuol dire che nelle fattispecie coinvolgenti più soggetti, in cui vi è l’attribuzione al comportamento di una di esse di un effetto negoziale, chi vuole utilizzare tale effetto deve darne comunicazione all’altra parte.
9. La peculiarità della nuova fattispecie derivante dalla sua irrefutabile diversità fenomenica rispetto alle dimissioni formalizzate porta ad escludere che ad essa sia applicabile un istituto tipico solo del recesso ordinario effettivamente volontario dell’art. 2118 c.c., e cioè quello di cui al 2° comma dell’insorgenza dell’obbligo del pagamento di un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.
Nella nuova fattispecie non vi è un gesto effettivamente volontario, ma piuttosto un comportamento di disinteresse e di abulia talora tendenzialmente autolesivo, che non può comportare anche il peso afflittivo del pagamento di un’indennità di preavviso.
Sia sul piano strutturale, sia sul piano finalistico, l’assimilazione di cui al comma 7-bis non può sfociare in questo esito sanzionatorio ulteriore.
10. La situazione che si determina dopo le tre comunicazioni del datore di lavoro (quella all’ispettorato, quella concretizzantesi nell’Unilav e quella al lavoratore) è aperta agli sviluppi più vari.
Ma occorre premettere che, quali che siano gli sviluppi contingenti, cioè quelli determinati dalle posizioni e decisioni della sede territoriale dell’INL, queste non saranno vincolanti, poiché, senza alcuna esigenza di impugnazione delle stesse in sede di giustizia amministrativa, ogni decisione finale spetterà soltanto al giudice dei diritti e cioè all’autorità giudiziaria ordinaria.
Le situazioni, che possono determinarsi, sono individuabili in quattro tipologie.
La prima è quella che l’Ispettorato accerti (e poi eventualmente il giudice confermi) l’esistenza di una causa di forza maggiore o di fatto imputabile al datore di lavoro, che abbia determinato l’impossibilità per il lavoratore di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.
In tal caso, e proprio sulla base delle indicazioni date dall’INL con la Nota-Circolare 22.1.2025 n. 579, la vicenda avrà una positiva conclusione con la comunicazione da parte della sede locale dell’ITL, al datore di lavoro e al lavoratore, dell’inefficacia della risoluzione e con il conseguente diritto del lavoratore sia “alla ricostituzione del rapporto di lavoro laddove il datore di lavoro abbia già provveduto alla trasmissione del relativo modello Unilav”, il che è una conferma della rilevanza di tale adempimento a fini risolutivi, sia alle retribuzioni del periodo intercorso. Ed anche l’esigenza, fissata nella predetta Nota di una comunicazione al lavoratore, conferma la necessità già indicata in precedenza che anche le comunicazioni precedenti fossero state inviate allo stesso lavoratore.
La seconda, e più controversa, tipologia si ha nelle situazioni in cui sussista (per venire accertata dalla sede territoriale dell’ITL, o eventualmente in una fase successiva dal giudice) una giustificatezza dell’assenza, ancorché vi possa non essere stata una comunicazione scritta del lavoratore di questo al datore di lavoro.
Evidenti ragioni conducono ad assimilare tale situazione a quella precedente, anche perché nello scrutinio di veridicità della comunicazione del datore di lavoro affidato alla sede dell’ITL il primo elemento da verificare è proprio quello della sussistenza di un’assenza che sia ingiustificata. Se manca il presupposto della ingiustificatezza, decade, cioè non si applica, la disposizione del 2° periodo del comma 7-bis, a prescindere dalle situazioni previste nel 3° periodo, che si configura come un’eccezione suppletiva rispetto a quanto previsto nel 2° periodo.
La terza situazione può aversi ove il lavoratore, pur in presenza di una giustificatezza della sua assenza (o, ulteriormente, della mancata comunicazione dell’assenza), preferisca considerare risolto il rapporto, richiedendo comunque alla sede dell’ITL, o eventualmente in fase successiva al giudice, di considerare il rapporto risolto per dimissioni, ma per giusta causa, con il conseguente diritto all’indennità di preavviso a sua favore.
La quarta situazione si avrà laddove la sede territoriale dell’ITL, o in prospettiva il giudice, ritengano la sussistenza di un’assenza ingiustificata con conseguente risoluzione del rapporto per volontà legalmente presunta del lavoratore ai sensi del 2° periodo del comma 7-bis.
11. Nelle situazioni suindicate può aprirsi un contenzioso derivante dallo svolgimento di vari eventi pregressi, ma pressoché sempre ad iniziativa del lavoratore, che contrasterà la permanenza dell’effetto risolutivo, determinata dalla comunicazione di risoluzione del rapporto per dimissioni ex art. 26, comma 7-bis, D. Lgs. n. 151/2015 fatta dal datore di lavoro con il modello Unilav.
Per quanto suindicato, ove non venisse inviata al lavoratore una comunicazione di tale invio, la risoluzione sarebbe nulla e il lavoratore potrebbe in ogni tempo agire per la dichiarazione di tale nullità e per la reintegrazione nel posto di lavoro.
Ove invece sia inviata al lavoratore tale comunicazione, si rientrerà nell’ambito della disciplina ordinaria dell’impugnazione degli atti annullabili con applicazione del relativo termine di prescrizione quinquennale ex art. 1442 c.c., interrompibile solo con l’inizio di un’azione giudiziale.
Nonostante che la comunicazione risolutiva provenga dal datore di lavoro, non è applicabile la relativa disciplina in materia, per cui, mentre il licenziamento è impugnabile solo nei termini ristretti di cui all’art. 6 L. 15.7.1966 n. 604 (60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale e i successivi 180 per il deposito del ricorso), le dimissioni sono impugnabili in cinque anni.
Mentre poi il licenziamento dà luogo, tranne i casi di cui all’art. 18, 1° comma, L. 20.5.1970 n. 300 e all’art. 2 D. Lgs. 4.3.2015 n. 23, ad una disciplina risarcitoria limitata a un’indennità pari a solo dodici mensilità globali di retribuzione, per le conseguenze dell’annullamento delle dimissioni si applica la disciplina risarcitoria comune, il che darà diritto al lavoratore di richiedere, oltre che la ricostituzione del rapporto, il pagamento delle retribuzioni dal giorno dell’offerta della prestazione lavorativa, come ha affermato la Corte Suprema di Cassazione nella sentenza 25.6.2019 n. 16998, in contrasto e in superamento dell’orientamento espresso con quella del 6.9.2018 n. 21701 che aveva fatto decorrere il diritto alle retribuzioni solo dal giorno della sentenza.
Poiché il datore di lavoro di per sé non conosce, nella normalità dei casi, la situazione del lavoratore nei giorni di assenza considerata ingiustificata, potrebbe il lavoratore anche agire in giudizio deducendo di essere stato affetto da un quadro depressivo o comunque patologico di intensità tale da ridurre in modo rilevante la sua capacità di intendere e di volere ed integrante quindi uno dei presupposti dell’art. 428 c.c., mentre l’altro dei requisiti previsti da tale norma, e cioè quello del grave pregiudizio per l’autore, sarebbe palesemente sussistente.
In tali casi il momento decisivo per il datore di lavoro sarà proprio quello in cui il lavoratore, deducendo una situazione siffatta o altra equiparabile ex art. 1427 e 1324 c.c., offrisse la prestazione lavorativa, poiché, se il datore di lavoro accetterà (come invero di solito non succede) di far riprendere il rapporto di lavoro, non subirà conseguenze patrimoniali, mentre diversamente rischierà le conseguenze anche retributive derivanti dall’offerta stessa per il tempo di prosecuzione del giudizio e fino alla reintegrazione effettiva del lavoratore.
12. Esaminati tali svolgimenti, si può trattare una delle questioni più dibattute, e cioè se possa il datore di lavoro tuttora, nei casi di assenza ingiustificata, risolvere il rapporto per licenziamento, previa procedura disciplinare e assumendosi l’onere del contributo del licenziamento.
La risposta in larga parte favorevole data dai primi commentatori nasce dall’attribuzione di rilevanza alle finalità privatistiche perseguite dalla nuova norma, così che sarebbe rimesso a ciascun datore di lavoro decidere se assumere a proprio carico l’onere, peraltro non rilevante, del c.d. ticket di licenziamento e quindi ad oggi quello massimo di € 1.922,28 .
Ma, se si considera anche la prospettiva basata sull’interesse pubblico, la risposta deve essere diversa, poiché la nuova norma del comma 7-bis è finalizzata non solo a diminuire i costi per i datori di lavoro, ma anche ad evitare l’esborso ingiustificato per la collettività pubblica.
E allora su questo piano deve dirsi, in conformità alla ratio legis e anche alla struttura formale del primo periodo del comma 7-bis in cui è scritto che “il datore di lavoro ne dà comunicazione” e non che “può darne comunicazione”, che l’attivazione della procedura di cui al comma 7-bis è quella normale consentita al datore di lavoro, in quanto è quella che può fisiologicamente consentire di raggiungere il risultato di interesse pubblico, previsto dal secondo periodo del comma 7-bis, di considerare il rapporto di lavoro risolto per dimissioni con conseguente non spettanza della NASpI.
Premesso questo, occorre però approfondire gli sviluppi applicativi dell’eventuale decisione del datore di lavoro di procedere, pur nei casi di assenza ingiustificata, a un licenziamento per giusta causa, previo svolgimento della relativa procedura disciplinare.
Può prefigurarsi che in tal caso il lavoratore licenziato impugnerebbe il licenziamento per essere stato adottato un modello risolutivo diverso da quello indicato dalla normativa di legge, cioè dal comma 7-bis, al fine di ottenere quantomeno, per applicazione analogica trattandosi di violazione procedurale, l’indennità prevista dall’art. 18, 6° comma, L. 20.5.1970 n. 300 nella misura da un minimo di sei ad un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto o quella prevista dall’art. 4 del D. Lgs. 4.3.2015 n. 23 nella misura di una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio con il minimo di due e il massimo di dodici mensilità.
E a supporto di tale domanda il lavoratore potrebbe invocare il fatto che con l’adozione del licenziamento gli è stata tolta la possibilità dello svolgimento della verifica affidata alla sede territoriale dell’INL, la quale avrebbe potuto portare in tempi brevi e senza oneri di difesa legale all’accertamento amministrativo dell’inefficacia della risoluzione e del diritto alla ricostituzione del rapporto.
Tuttavia, anche se non può escludersi che tale impostazione trovi spazi di accoglimento, deve ritenersi che essa sarebbe strumentale, in quanto il lavoratore era stato messo comunque in condizione, con lo svolgimento della procedura disciplinare, di comunicare le sue preventive giustificazioni.
Ma l’adozione da parte del datore di lavoro di un modello risolutivo diverso da quello prefigurato dal comma 7-bis richiede alcuni sviluppi integrativi, ricavabili in via interpretativa dalla ratio sottesa alla norma.
Il primo è che deve riconoscersi al lavoratore la facoltà, già al momento del ricevimento di un atto scritto di contestazione per assenza ingiustificata e tanto più dopo un licenziamento per tale causale, di richiedere l’intervento della sede territoriale dell’INL e il dovere di questa di svolgere la stessa verifica prevista dal comma 7-bis con l’attribuzione alla sede stessa dell’analogo potere di accertare, ove ne sussistano i presupposti, l’inefficacia dell’atto risolutivo, pur costituito da licenziamento, e il diritto del lavoratore alla immediata ricostituzione del rapporto.
Tale soluzione è coerente anche con l’esclusione della possibilità per il lavoratore di impugnare il licenziamento per violazione procedurale, poiché in tal modo il lavoratore può conseguire, su sua richiesta, la stessa verifica e lo stesso svolgimento delle funzioni amministrative che vi sarebbero stati in caso di rispetto da parte del datore di lavoro della procedura di cui al comma 7-bis.
Sotto altro profilo, la coerenza interna al sistema esclude che l’interesse pubblico al contenimento dei costi possa essere vanificato dalla mera decisione soggettiva del datore di lavoro di procedere, nei casi di risoluzione per assenza ingiustificata, a un licenziamento disciplinare senza applicazione della procedura di cui al comma 7-bis.
Deve quindi ritenersi che spetti all’INPS in tali casi assumere la stessa determinazione prevista per legge nei casi di cui al comma 7-bis e quindi, una volta rilevato sulla base della lettera di licenziamento, di cui si imporrà la valutazione, che il recesso è dipeso da un’assenza ingiustificata, escludere il riconoscimento della NASpI.
Resterebbe in tal caso solo il problema del diritto o meno del datore di lavoro alla restituzione a suo favore dell’importo versato per ticket di licenziamento, che però deve escludersi in quanto è stata sua la decisione di adottare un modello risolutivo che di per sé comportava tale contributo, che pertanto verrà devoluto alla solidarietà generale.
Quanto infine al problema, di diverso e più generale ambito, se possa il datore di lavoro porre a carico del lavoratore, anche in via risarcitoria, l’onere di tale importo , deve confermarsi la risposta negativa, trattandosi di un contributo previsto direttamente a suo carico per partecipazione all’onere globale sostenuto dal sistema previdenziale per licenziamento, che come tale, al di là del caso specifico dell’assenza ingiustificata, dà luogo al trattamento di disoccupazione.
13. L’incertezza circa gli sviluppi applicativi ha già indotto vari commentatori a prospettare l’opportunità di una risoluzione concorrente, o subordinata, nel senso che a fronte della risoluzione secondo lo schema dell’art. 26, comma 7-bis, il datore di lavoro potrebbe anche dare luogo ad una risoluzione ulteriore con la normale procedura disciplinare.
Ma si tratta di prospettive pratiche di farraginosa applicazione e di incerto esito, anche perché di fatto nel modello Unilav non può che essere indicata una causale primaria quale potrebbe essere quella della risoluzione per dimissioni ex art. 26, comma 7-bis, così che difficilmente il datore di lavoro potrebbe esimersi dalle conseguenze derivanti dall’annullamento della risoluzione in tal modo disposta.
14. La rilevanza dell’interesse pubblico ad un contenimento dei costi è confermata da un’ulteriore norma, che esprime e allarga l’applicazione delle finalità antielusive.
L’attenzione data alla possibilità che il lavoratore, che vedesse il suo rapporto risolto per dimissioni presunte ex comma 7-bis D. Lgs. 151/2015, cerchi di eluderne le conseguenze diventando parte di un nuovo rapporto di lavoro da cui fosse con contiguità temporale licenziato, ha indotto il legislatore a emanare una nuova norma, applicabile non solo a questo caso, ma a tutti i casi di dimissioni volontarie, che non siano avvenute per giusta causa, o di risoluzione consensuale, esclusa quella intervenuta in sede protetta nell’ambito della procedura, ove applicabile, di cui al testo dell’art. 7 L. 15.7.1966 n. 604.
È sorto così il comma 171 dell’art. 1 della L. 30.12.2024 n. 207 (Legge di bilancio del 2025), che ha introdotto una modifica all’art. 3, 1° comma, del D. Lgs. 4.3.2015 n. 22, inserendo per tutte tali situazioni il requisito per cui il lavoratore deve far valere per il conseguimento della NASpI “almeno tredici settimane di contribuzione dall’ultimo evento di cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato interrotto per dimissioni volontarie”.
Tale penalizzazione non ha riguardato quindi solo i casi di dimissioni presunte ai sensi del comma 7-bis, ma ogni tipo di dimissioni, anche quelle ordinarie rassegnate con le formalità di legge.
Il sospetto si è così esteso a macchia d’olio, venendo a riguardare tutti i lavoratori dimissionari, ai quali si è addossato il requisito dello svolgimento di un’ulteriore attività lavorativa di almeno 13 settimane prima che l’ulteriore causa risolutiva di un licenziamento o di dimissioni per giusta causa possa considerarsi quale presupposto idoneo per il riconoscimento della NASpI.
15. La previsione antielusiva di cui al nuovo comma 7-bis pone peraltro le oggettive premesse, per cui il lavoratore, anche marginalmente attento, possa vanificarla con comportamenti finalizzati a conseguire analogo risultato, e cioè di essere licenziato.
Posto che la norma è di stretta interpretazione, poiché fa riferimento ad un comportamento di “assenza”, ben potrebbe il lavoratore pur per pochi giorni presentarsi al lavoro ed ivi non svolgere la prestazione lavorativa, o svolgerla soltanto in misura simbolica, o ancor più introdurre un fattore di intralcio nell’attività produttiva, sia con la sua stessa immagine di soggetto presente ma non collaborativo, sia con una interlocuzione fastidiosa verso i colleghi, sia addirittura con sfrontati comportamenti di insubordinazione.
E pertanto, accanto alle rare ipotesi in cui il datore di lavoro volesse protrarre un confronto (vero e proprio surplace) di reciproca ostilità in quanto il lavoratore comunque non avrebbe diritto alla retribuzione e alla relativa contribuzione e non potrebbe protrarre a lungo tale comportamento, può ritenersi che nella maggior parte dei casi il lavoratore riuscirebbe, se non a costringere, ad indurre il datore di lavoro a porre fine alla sua presenza fastidiosa con l’adozione di un licenziamento per giusta causa.
Il che conferma la stessa marginalità dell’intervento antielusivo dell’art. 19, destinato a colpire più i lavoratori affetti da problemi psicologici di depressione, che non quelli che vogliano lucidamente perseguire l’obiettivo di essere licenziati.
16. Quando le leggi non sono sorrette da un effettivo spirito riformatore e tantomeno ideale, si risolvono in marginali adattamenti.
In un quadro normativo, nel quale in via generale per i licenziamenti per giusta causa è riconosciuta la NASpI, non aveva senso ritagliare una singola fattispecie per applicarvi un trattamento penalizzante.
Il lavoratore che si assenta anche senza giustificazione e senza darne comunicazione, non pone in essere un comportamento più grave di molti altri comportamenti per i quali è previsto un recesso per giusta causa, anzi a suo modo si dimostra più leale, e in qualche misura, più corretto di molti altri.
L’individuazione di questa sola tipologia a fattore di esclusione della NASpI costituisce un intervento normativo irrazionale e sperequato, per cui il lavoratore potrebbe anche chiedere il sollevamento di una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3, 1° comma, Cost.
Il destino del comma 7-bis è aperto a ogni scenario.

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