Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 194 del 2018, è intervenuta sulla disciplina delle sanzioni previste per i licenziamenti illegittimi e, così, ha agitato ancora una volta le acque, peraltro già agitate per tante altre ragioni, della disciplina del lavoro subordinato.

Ed infatti, come è noto, quella sentenza ha suscitato, e continua a suscitare, numerosi commenti della dottrina sia per quanto attiene al significato e ai limiti del suo dispositivo, sia per la problematica suscitata dai numerosi argomenti utilizzati per la sua motivazione.

Tra questi commenti, particolare interesse suscitano quelli pubblicati in questa sede che si distinguono per la varietà delle prospettive nelle quali la sentenza dei giudici costituzionali è stata presa in considerazione.

2. Era inevitabile che una speciale considerazione sia stata riservata alle motivazioni con le quali sono stati disattesi molti dei sospetti di incostituzionalità sollevati dal giudice remittente con riguardo ad eventuali violazioni della tutela per i licenziamenti illegittimi prevista dalla disciplina internazionale ed europea.

Non sorprende, quindi, che nel suo contributo, Roberto Cosio abbia dedicato molta attenzione ai termini in cui i giudici costituzionali hanno negato rilevanza alla convenzione dell’organizzazione internazionale del lavoro n. 158 del 1982 e dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, mentre, al fine di valutare le sospettate violazioni degli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., hanno, invece, tenuto conto dell’art. 24 della Carta sociale europea.

Contributo, a mio avviso, sicuramente apprezzabile soprattutto per l’approfondimento della problematica suscitata dalla considerazione che l’integrazione delle “fonti”, prospettata dai giudici costituzionali con riguardo all’art. 24 della Carta sociale europea e all’art. 3 Cost., comporta anche un’integrazione delle “norme”. Integrazione che concorrerebbe a costituire un “sistema di sistemi”, che, stante l’ordinamento internazionale vigente, riesce a “vivere” soltanto nell’interpretazione di corti diverse.

Senonchè, come avverte Roberto Cosio, quel “sistema” attenua, inevitabilmente, il principio della “certezza del diritto” per la determinante ragione che ha un “ordine sempre precario”.

Ed infatti, quel “sistema” consente un ampliamento della discrezionalità dei giudici e degli organi amministrativi interni con conseguente erosione del vincolo della conformità a fonti sovraordinate.

3. Quest’ultimo profilo, sia pure con toni e in una prospettiva diversa, è preso in considerazione anche nel contributo di Guido Vidiri.

Guido Vidiri, infatti, insiste nel preoccuparsi di ciò che, non essendo stati ancora definiti i modi in cui i principi dell’ordinamento sovranazionale vincolano i giudici nazionali, è inevitabile l’acuirsi della crisi della certezza del diritto.

Anzi, secondo Guido Vidiri, la certezza del diritto sarebbe messa in crisi non solo dai dubbi sulla rilevanza delle fonti internazionali, ma anche dalla “traslazione del potere giurisdizionale verso organismi non eletti dal popolo e, quindi, non rappresentativi e politicamente irresponsabili, oltre che non sottoposti a controlli istituzionali” nonché, con particolare riguardo alla situazione italiana, da “l’ambiguità, l’oscurità, la mancanza di semplicità” … “l’instabilità, la pluralità delle leggi” e dalla “difficoltà e la lunghezza dei processi”.

4. Per contro, Giovanni Orlandini segnala che l’attenzione dedicata dai giudici costituzionali alla Carta sociale europea, pur non essendo stata determinante ai fini dell’accertamento dell’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, europea potrebbe avere effetto sia sulla futura evoluzione della disciplina del licenziamento, sia per l’intero sistema del diritto del lavoro.

Ciò perché, una volta ammessa la rilevanza delle fonti europee, ulteriori sospetti di illegittimità costituzionale potrebbero essere sollevati per il contrasto con il principio di non discriminazione e ciò solo con riguardo alla disciplina del licenziamento.

5. Fatte queste premesse, è possibile passare a considerare il merito della sentenza n. 194 del 2018 al riguardo del quale deve essere constatato che anche i contributi qui pubblicati ne propongono valutazioni differenziate.

V’è, infatti, chi, come in questa occasione Roberto Cosio, esalta l’importanza e il significato di quella sentenza ritenendo costituisca “l’evento normativo dell’anno” e ciò perché, escludendo ogni rigidità, consentirebbe al giudice di individuare, caso per caso, il bilanciamento degli opposti interessi del lavoratore illegittimamente licenziato e del suo datore di lavoro.

Per contro, v’è chi, come Armando Tursi, ritiene che quella sentenza abbia “finito per creare un ircocervo privo di razionalità e sostanzialmente iniquo” o chi, come Maria Chiodi, prende atto di ciò che, nella sostanza, quella sentenza ha una portata limitata se non altro perché ha escluso “la possibilità di un ripristino … del sistema sanzionatorio previgente”. Ripristino che era stato, se non altro, auspicato, se non ritenuto possibile, da una parte della dottrina.

Ed infatti, se si prescinde dal significato meramente politico – messo in discussione, però, da Pietro Ichino - della riaffermazione del principio dei valori della persona umana conseguente al rifiuto di quella “razionalità economica” che, postulando la “calcolabilità del diritto” e dei “costi”, aveva ispirato i provvedimenti legislativi del 2012 e del 2015, la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 ha, nella sostanza e come sospetta anche Armando Tursi (cfr. n. 15), una assai limitata portata sostanziale.

6. Fatto è che la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 suscita qualche incertezza per il modo in cui è stato motivato il rigetto della sospettata violazione del principio di uguaglianza.

Ciò perchè, quel rigetto è stato motivato riaffermando, anzitutto e nella sostanza, l’insindacabilità dell’esercizio dei poteri discrezionali del legislatore.

Ed è da notare che, sul punto, sia Armando Tursi che Pietro Ichino richiamano l’attenzione sul diverso atteggiamento dei giudici costituzionali francesi con riguardo al modo in cui il legislatore d’oltre Alpe ha esercitato la sua discrezionalità con riguardo ai criteri di determinazione dell’indennità per licenziamento ingiustificato.

7. Resta che il superamento dei sospetti sulla violazione del principio di uguaglianza è stato motivato dai giudici costituzionali soprattutto con la considerazione che la minor tutela prevista dal primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 soltanto per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 è giustificata dal “fluire del tempo” che “può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”.

Sul punto, sembra debba essere condivisa l’osservazione di Maria Chiodi quando afferma che, in tal modo, i giudici costituzionali hanno realizzato un’ulteriore “sostanziale ” della disciplina dettata dal primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

8. Oltretutto, sarebbe, a mio avviso, da contestare che, come avvertito da un’attenta dottrina, la violazione del principio di uguaglianza avrebbe dovuto essere piuttosto scrutinata non già con riguardo al momento in cui il lavoratore è stato assunto, ma al momento in cui il licenziamento illegittimo è stato intimato.

In quel momento, infatti, e indipendentemente dalla data di assunzione, due situazioni identiche sono assoggettate a discipline diverse che prevedono tutele differenziate.

Ed in questo senso, ben possono essere condivise ancora una volta le perplessità di Maria Chiodi quando fa notare che i giudici costituzionali, limitandosi a motivare con il “fluire del tempo”, non hanno tenuto conto di ciò che il principio di uguaglianza, anche sotto il profilo della ragionevolezza, è inevitabilmente violato nelle “ipotesi di licenziamenti plurimi fondati sulla medesima causale, che coinvolgono lavoratori diversi, destinatari, però, di discipline diverse a seconda della data di instaurazione del rapporto di lavoro”.

Allo stesso modo, un qualche fondamento potrebbero avere i dubbi avanzati da Pietro Ichino che sospetta il principio di uguaglianza sarebbe stato violato a ragione del differente regime risarcitorio rispettivamente previsto dalla legge n. 9 del 2012 e dal decreto n. 23 del 2015. Sospetto, però, del quale i giudici costituzionali non erano tenuti a tener conto non essendo stato sollevato dal giudice remittente.

9. Resta che, nella sostanza, l’effettiva portata della sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 sta tutta nell’aver affermato l’illegittimità costituzionale della disposizione del primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui prevede una tutela risarcitoria non adeguata e non dissuasiva.

Senonchè, l’assenza di adeguatezza e di dissuasività è stata argomentata sulla base soltanto di due motivazioni che non hanno riguardo alla logica che presiede alla disciplina dell’indennità risarcitoria, ma solo ad aspetti di quella disciplina che ben possono essere considerati marginali (cfr. n. 16 e segg.).

Ne è derivato un dispositivo che, anche a mio avviso, delude ogni ammissibile aspettativa.

10. La prima di quelle motivazioni, infatti, è che l’indennità risarcitoria non sarebbe adeguata non già perché il suo importo, continuando ad essere limitato dalla previsione di un tetto massimo, non consente un effettivo ristoro del danno derivante dal licenziamento illegittimo, ma soltanto perché il suo importo è determinato automaticamente ed esclusivamente in funzione dell’anzianità di servizio.

La seconda di quelle motivazioni è che l’indennità risarcitoria non sarebbe in grado di esercitare la necessaria funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro non già perché, a ragione della limitatezza del suo importo non è in grado di esercitare quelal funzione, ma perché resta esclusa la possibilità che il giudice, nell’esercizio della sua prudente discrezionalità, realizzi il necessario equilibrato contemperamento dell’interesse del lavoratore licenziato e di quello del datore di lavoro.

11. Orbene, argomentando sulla base di queste due motivazioni, i giudici costituzionali, da un lato, hanno finito per ritenere adeguato che l’indennità risarcitoria prevista per i licenziamenti illegittimi, ma non odiosi, abbia un limite massimo non già di ventiquattro, ma di trentasei mensilità della retribuzione (come medio tempore, era stato previsto dal primo comma dell’art. 3 del d.l. n. 87 del 2018 convertito in legge n. 96 del 2018).

D’altro lato, hanno ritenuto che, per essere adeguata e dissuasiva, è sufficiente l’indennità risarcitoria sia quantificata avendo riguardo non solo all’anzianità di servizio, ma anche ad altri criteri (come il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti) e che questi criteri possano essere utilizzati dal giudice nell’esercizio della sua prudente discrezionalità.

12. Certo, come già accennato (cfr. n. 5) e come avverte Maria Chiodi, l’affidamento al giudice del compito di “personalizzare” la misura della indennità risarcitoria, sia pure entro limiti prestabiliti, fa venir meno una componente della scelta di politica del diritto che aveva ispirato i provvedimenti legislativi del 2012 e del 2015. Scelta di politica del diritto che perseguiva, appunto, la “certezza dei costi” del licenziamento illegittimo proprio mediante la rigida preventiva determinazione del risarcimento dovuto.

Senonchè, se si prescinde dalla portata teorica del superamento di quella scelta, è inevitabile, a mio avviso, domandarsi se, per effetto di quanto deciso dai giudici costituzionali con la sentenza n. 194 del 2018, l’indennità risarcitoria spettante ai lavoratori illegittimamente licenziati sia da considerare un risarcimento “adeguato” e, al tempo stesso, “dissuasivo”.

13. Al riguardo, Giovanni Orlandini solleva una questione di fondo difficilmente evitabile quando si tratta di valutare l’adeguatezza della tutela del lavoratore illegittimamente licenziato e, cioè, solleva la questione dell’insostituibilità della tutela reale con quella risarcitoria non essendo sufficiente, al riguardo, affermare che quella reale non è costituzionalmente necessaria.

Nello stesso ordine di idee, Armando Tursi solleva un’ulteriore questione con riguardo al presupposto dal quale i giudici costituzionali hanno preso le mosse e, cioè, che l’indennità risarcitoria prevista dal primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 avrebbe natura di risarcimento del danno.

14. Certo, una volta ammesso che quell’indennità ha natura di risarcimento dei danni derivanti da atto illecito, la valutazione della sua “adeguatezza” avrebbe dovuto essere eseguita nel confronto con il regime di diritto comune che regola il risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale previsto dagli artt. 1218 e 1223 Cod. Civ. nella loro connessione con l’art. 2059 Cod. Civ.

Regime che, com’è noto e come ricorda Pietro Ichino, prevede il risarcimento sia della perdita subita che del mancato guadagno, nonché quello degli eventuali danni non patrimoniali.

Ed invece, con riguardo all’indennità risarcitoria di cui trattasi, gli stessi giudici costituzionali (al punto 10 dei motivi della decisione) hanno avvertito che, comunque, la “predeterminazione forfaittizzata del risarcimento del danno … non risulta incrementabile, pur volendone fornire la prova” essendo “palese la volontà del legislatore di determinare compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo”.

15. Peraltro, non ha pregio il tentativo di superare il rigore di questa conclusione limitandosi a prospettare che il danno biologico, esistenziale e morale, sarebbero comunque dovuti.

Tale prospettazione, infatti, non tiene conto di ciò che, se è vero che quei danni sono diversi dal danno patrimoniale, è anche vero che tutti trovano il titolo della loro risarcibilità esclusivamente nella illegittimità del licenziamento, onde la predeterminazione forfettaria del danno prevista dalla legge tutti inevitabilmente li comprende.

Allo stesso modo, i dubbi sull’effettiva adeguatezza dell’indennità risarcitoria come risulta regolata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 non sembra possano essere superati soltanto a ragione di ciò che, come fa presente Armando Tursi, l’ampliamento dei criteri in base ai quali potrà essere quantificata ne enfatizzerebbe la funzione sociale.

Anzi, come avverte Pietro Ichino, l’utilizzazione di criteri ulteriori diversi da quello dell’anzianità di servizio ben può creare disparità di trattamento se non altro a ragione dell’irragionevole utilizzazione del criterio che ha riguardo alle dimensioni dell’impresa.

16. Fatto è che, se pure è vero che quella forfaittizzazione favorisce in qualche modo il lavoratore licenziato esonerandolo dall’onere di provare di aver subito un danno e di dimostrarne l’entità, è anche vero che l’indennità risarcitoria, pur con i miglioramenti derivanti dalla sentenza n. 194 del 2018, segna, come avverte Armando Tursi, il “punto di massima distanza” rispetto alle sanzioni che il diritto comune prevede per l’inadempimento contrattuale.

Ed infatti, sembra difficile ritenere che un’indennità risarcitoria limitata a trentasei mensilità della retribuzione possa essere, comunque, considerata “adeguata” specialmente se si tiene conto anche delle conseguenze derivanti dal suo mancato assoggettamento a contribuzione previdenziale.

Pertanto, ben si può escludere che, a ragione della previsione di un limite massimo pari a trentasei mesi della retribuzione, l’indennità risarcitoria, ancorchè “personalizzata”, sia idonea a costituire un effettivo rimedio alla situazione derivante dalla costante, e in certe zone definitiva, difficoltà di trovare una nuova occupazione soprattutto per lavoratori di una certa età e che hanno anche la necessità di provvedere, comunque, alle loro esigenze di vita specialmente in presenza di eventuali carichi di famiglia.

Sul punto, Giovanni Orlandini ricorda l’orientamento dei saggi comunitari per cui la previsione di un tetto massimo non sarebbe compatibile con gli standards risultanti dall’art. 24 della Carta sociale europea, ancorchè richiamata dai giudici costituzionali (cfr. n. 2) anche se, poi, riferisce che quello di trentasei mensilità della retribuzione sarebbe un “tetto molto alto” rispetto a quanto previsto dalla legislazione di altri paesi europei.

17. A ciò si aggiunga che, in questa situazione, non sembra abbia senso concreto l’irragionevole tentativo di ritrovare una qualche adeguatezza dell’indennità risarcitoria dubitando, come dubita Pietro Ichino, della previsione di un importo minimo ovvero affannandosi, come fanno altri, ad affermare che il giudice non sarebbe vincolato a rispettarlo.

Ed infatti, il problema non è determinato dalla previsione di un importo minimo dell’indennità risarcitoria. Quel minimo, infatti, che deve essere sempre rispettato a tutela del lavoratore. Per contro, il problema è, e resta, determinato dalla previsione di un importo massimo, come tale insuperabile, e che, come tale, costituisce un limite invalicabile alla discrezionalità del giudice.

Oltretutto, la discrezionalità del giudice se può consentire di “personalizzare” il risarcimento, potrebbero, però, anche comportare che l’indennità risarcitoria sia determinata in misura inferiore al massimo.

18. Maggiori perplessità sorgono quando si tratti di valutare se l’indennità risarcitoria spettante ai lavoratori illegittimamente licenziati, così come risulta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, possa essere considerata “dissuasiva”.

Al riguardo, dovendosi tener conto delle considerazioni che sono state svolte con riguardo alla adeguatezza (cfr. n. 13 e segg.), sembra inevitabile ritenere che quell’indennità, se non è “adeguata”, non può, a maggior ragione, essere “dissuasiva”.

Si consideri, infatti, che l’obbligo del datore di lavoro di versare al lavoratore un’indennità non superiore a trentasei mensilità della retribuzione, può risultare tutt’altro che dissuasivo se non altro quando si tratti di una media o grande impresa.

Né, come avverte Armando Tursi, è ragionevole ritenere che l’indennità risarcitoria, nonostante la sua inadeguatezza, possa assolvere ad una funzione dissuasiva soltanto a ragione dell’imprevedibilità nel modo in cui il giudice eserciterà la sua prudente valutazione.

Ma v’è di più. La funzione “dissuasiva” del risarcimento del danno, così come è stata recentemente autorizzata dalla giurisprudenza (Cass. Sez. Un. n. 16601 del 2017), non solo può, e deve, essere prevista esclusivamente dal legislatore, ma ha un senso nella misura in cui il “danno punitivo” si aggiunge all’integrale riparazione dei danni così come è prevista dal diritto comune. Il che, nel nostro caso, non avviene per definizione (cfr. n. 11).

19. Resta da dire del pericolo che la ripristinata discrezionalità del giudice non finisca per riprodurre quell’“incontrollato soggettivismo giudiziario” che, secondo alcuni, ha concorso ad indurre il legislatore a prevedere drastiche limitazioni della stabilità reale e a perseguire la “certezza dei costi” del licenziamento illegittimo.

 

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