Testo Integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

Sommario: 1. La Corte costituzionale italiana e il Conseil constitutionnel francese: discrezionalità dei giudici o discrezionalità del legislatore ? - 2. L’indennità e il risarcimento. - 3. La natura geneticamente risarcitoria, ma funzionalmente indennitaria, dell’indennizzo, e l’”ircocervo” disegnato dalla Corte costituzionale.

1. La Corte costituzionale italiana e il Conseil constitutionnel francese.

Secondo la Corte costituzionale italiana , la disciplina sanzionatoria del licenziamento individuale ingiustificato, introdotta dal cd. Jobs Act per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015 , “nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, “contrasta” con i principi di eguaglianza, “sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse”, essendo l’indennità “uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità”, mentre “il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori”, dei quali “l’anzianità nel lavoro … è … solo uno dei tanti”.
Contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, “sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente”.
Quanto alla conformità dell’importo dell’indennità con il principio costituzionale di tutela del lavoro e con quello europeo di congruità dell’indennizzo , il giudizio della Consulta è di assoluzione, ma con motivazione perplessa, se non contraddittoria .
Il vulnus costituzionale imputabile al Jobs Act si anniderebbe, insomma, nella modalità di determinazione dell’indennità, e precisamente nel suo essere basata sull’”unico criterio dell’anzianità di servizio”, anziché aperto ad una “pluralità di fattori” dei quali “l’anzianità nel lavoro … è … solo uno dei tanti”; e nel suo essere “automatico”, mentre avrebbe dovuto essere aperto alla“discrezionalità valutativa del giudice”.
Colpisce come ciò sia l’esatto contrario di quanto affermato dal Conseil constitutionnel con la sentenza 5 agosto 2015, n. 715.
Chiamata a scrutinare la validité (inter alia) dell’art. 266 della Loi Macron - che commisurava l’indennità per licenziamento ingiustificato a mensilità retributive determinate in base a scale (barèmes) delimitate da massimali (plafonnements) e minimali, a loro volta fissati in funzione dell’anzianità di servizio del lavoratore e della dimensione dell’impresa - i Sages hanno giudicato “legittima la norma che correla l’indennizzo all’anzianità del lavoratore licenziato”, ma “contrario al principio costituzionale di uguaglianza” “il criterio della dimensione dell’impresa”, perché del tutto scollegato con il “pregiudizio subito dal lavoratore a causa della perdita dell’impiego”.
Dunque, per la Consulta italiana la disparità di trattamento e l’irragionevolezza derivano proprio dall’adozione di quel criterio dell’anzianità di servizio, che il Conseil francese ha invece ammesso come criterio unico di determinazione dell’indennità in questione; nonché dal mancato utilizzo di altri criteri, tra i quali la Consulta ricomprende quello della “dimensione dell’azienda”, che la sua gemella d’oltralpe ha ritenuto invece inconferente con il pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento ingiustificato.
Con la successiva sentenza del 7 settembre 2017, n. 751, il Conseil francese ha escluso che la legge delega recante “mesures pour le renforcement du dialogue social” violasse i principi costituzionali di “riparazione integrale del danno”, di “separazione dei poteri”, e di “uguaglianza di trattamento” degli illeciti contrattuali subiti dai lavoratori, “a seconda che essi siano indennizzati a causa di un licenziamento illegittimo ovvero a causa di altro illecito civile”.
Infatti - argomenta il Conseil francese - , “rafforzando la prevedibilità delle conseguenze della rupture du contrat de travail”, il legislatore ha legittimamente perseguito “un objectif d’intérêt général”; inoltre, “il solo fatto di prevedere un parametro obbligatorio per il risarcimento del pregiudizio derivante da un licenziamento ingiustificato e non per quello derivante da altri illeciti civili” “non costituisce, in sé, “une atteinte au principe d’égalité devant la loi”; sicché deve affermarsi la “constitutionalité du mécanisme de barémisation”.
In tal modo, è stata data via libera alla successiva Ordonnance n. 2017-1387 - significativamente intitolata “à la prévisibilité et la sécurisation des relations de travail” - , la quale, all’art. 2, reca una tabella di indennità vincolante che fissa gli importi minimi e massimi dell'indennità per licenziamento sans cause réelle et sérieuse, in base all'anzianità di servizio del dipendente.
Una così drastica differenza di vedute dei giudici costituzionali di due Paesi non solo entrambi membri dell’Unione Europea, ma altresì dotati, in materia di licenziamento (e non solo), di discipline giuridiche diverse ma non certo antitetiche, è segno sia di persistenti incertezze sistematiche, sia di divaricazioni culturali nella lettura di principi a elevata connotazione politica, quali sono quelli aventi a oggetto la materia della stabilità del rapporto di lavoro.
A ben vedere, il punto di maggiore interesse nella comparazione tra le due sentenze non riguarda la divaricazione culturale (di cui si può solo prendere atto), ma il diverso approccio che la Consulta ha seguito nell’affrontare la questione della “prevedibilità” dei costi del licenziamento.
Nell’esaminare tale questione, la Corte costituzionale ha molto insistito sulla “discrezionalità” che dovrebbe necessariamente connotare la funzione giusdicente, quasi che la “dissuasività” (per il datore di lavoro) della sanzione indennitaria riposi (non tanto sull’ammontare , quanto) sull’imprevedibilità e non misurabilità ex ante degli effetti (anche economici) della norma .
Il punto è stato efficacemente colto dal Governo francese, il quale, nella memoria depositata nell’ambito del procedimento intentato con reclamo collettivo dalla CGIL contro l’Italia davanti al Comitato europeo dei diritti sociali, in relazione alla presunta violazione da parte dell’Italia dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, ha osservato che “sanzione per il datore di lavoro non consiste nell’incertezza intorno alla misura dell’indennità da corrispondere, ma nel dovere di corrisponderla” .
E’ soprattutto sotto questo profilo che, a nostro avviso, la sentenza della Consulta italiana tradisce un’eccedenza del discorso politico (o se si vuole, dell’attitudine giusdicente) sull’interpretazione costituzionale: ciò si riflette in una difettosa calibratura teorico-concettuale, oltre che esegetica.
2. L’indennità e il risarcimento.
Il ragionamento svolto dai giudici costituzionali parte dal presupposto che l’”indennità” che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, riconosce al lavoratore ingiustamente licenziato avrebbe natura di “risarcimento del danno”; e perviene alla conclusione che la determinazione di tale danno sarebbe costituzionalmente illegittima perché basata sulla sola anzianità di servizio, e non anche sulle “dimensioni dell’azienda”, sul “comportamento delle parti”, sulle “loro condizioni economiche” e “altre circostanze rilevanti per la quantificazione del pregiudizio sofferto dalla persona licenziata in concreto”.
“La qualificazione come «indennità» dell’obbligazione prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015” - afferma la Corte - “non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento. Quest’ultimo, anche se efficace, in quanto idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito, essendo adottato in violazione della preesistente non modificata norma imperativa secondo cui «il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo» (art. 1 della legge n. 604 del 1966)”.
L’affermazione non è criticabile in sé, quanto per le conseguenze che la Corte ne fà scaturire.
E’ probabilmente corretto affermare che il titolo risarcitorio vada riconosciuto in tutte le ipotesi in cui l’attribuzione patrimoniale a favore del lavoratore consegua all’illegittimità del licenziamento : sia che si tratti di dichiarazione giudiziale di illegittimità del recesso con prosecuzione del rapporto contrattuale (tutela reale), sia che si tratti di dichiarazione giudiziale di estinzione del rapporto con imposizione al recedente di un obbligo risarcitorio (tutela indennitaria) .
Tuttavia, ciò che la Consulta non ci pare abbia adeguatamente considerato, è che non esiste un nesso univoco tra la natura risarcitoria di un’attribuzione patrimoniale e il suo regime giuridico, differenziandosi quest’ultimo in funzione delle diverse finalità perseguite, e delle conseguentemente diverse fattispecie disegnate, dal legislatore: il caso dei licenziamenti illegittimi è esemplare in tal senso, dovendosi “evidenziare la notevole differenza, prevista dalla legge nella relativa quantificazione, tra le ipotesi in cui è previsto il diritto del lavoratore anche alla reintegrazione, rispetto alle ipotesi nelle quali il giudice dichiara estinto il rapporto” .
Quanto all’indennità risarcitoria da tutela reale - e sempre che non si aderisca alla piana osservazione che trattasi di una “speciale misura compensativa e di riequilibrio distinta dal risarcimento del danno” - , non si dubita che esso sia governato dai principi della colpa in senso oggettivo come criterio di imputabilità dell’inadempimento (art. 1218 cod. civ.), della compensatio lucri cum damno (art. 1223 cod. civ.) - con conseguente deducibilità dell’aliunde perceptum e, nel caso di licenziamento ingiustificato, anche dell’aliunde percipiendum - , e del concorso del fatto colposo del creditore (art. 1227, 2° comma, cod. civ.).
E’ altrettanto certo, però, che si tratti di un regime risarcitorio “di diritto speciale”, giacché a favore del lavoratore opera l’esonero da qualsiasi onere probatorio in punto di lucro cessante e la eccezionale previsione di una condanna in futuro - qual è quella a corrispondere le retribuzioni dovute “dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”; specialità rafforzata poi, nel caso della tutela reale cd. “piena”, dalla previsione di un minimo garantito pari a cinque mensilità, cui fà da contrappeso quella di un massimale di dodici mensilità in caso di tutela reale cd. “ridotta”.
Che la “tutela reale” non garantisca la copertura integrale del danno da “lucro cessante” è dimostrato, poi, oltre che dall’esistenza di un massimale di dodici mensilità operante nel caso della tutela reale ridotta, dalla variabilità al ribasso della base di calcolo del risarcimento, essendo questa legata all’”ultima retribuzione” - con esclusione degli incrementi retributivi intervenuti dopo il licenziamento - , nonché commisurata alla retribuzione annuale utile per il calcolo del TFR - la quale, come noto, è suscettibile di diminuzioni ad opera della contrattazione collettiva - .
Senza dire della questione, tuttora aperta, della risarcibilità del c.d. “danno ulteriore”, quale il danno patrimoniale cd. “emergente” (per es., sfratto, necessità di prestiti a tassi onerosi, spese di trasloco), o il danno non patrimoniale derivante, tipicamente ma non esaustivamente, da “licenziamento ingiurioso” : questione che, ancora di recente, condivisibilmente si propone di dirimere affermando che “l’attuale disciplina esprime la volontà di esaurire il risarcimento dovuto imponendo in modo più o meno marcato una forfetizzazione del danno, ferma restando, naturalmente, la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per fatti che possono, per così dire, essere scorporati dal licenziamento e qualificarsi di per sé illegittimi in quanto lesivi della dignità della persona o addirittura di rilevanza penale” .
Non è questa la sede per approfondire il tema: qui interessa solo ricordare che esso si pone - e sempre è stato posto, fino ad oggi - in termini del tutto diversi quando il lavoratore illegittimamente licenziato non abbia “diritto alla reintegrazione e ad una indennità esplicitamente definita dal legislatore come risarcitoria”, giacché il “licenziamento illegittimo (perché perché privo di giusta causa o giustificato motivo o per vizi formali o procedurali) produce egualmente la estinzione del rapporto di lavoro e il mero diritto ad una ‘indennità’ non altrimenti definita” .
In questo caso, le norme codicistiche sulla responsabilità contrattuale vengono in rilievo solo ai fini della definizione dell’illecito (violazione contrattuale e sua imputabilità per colpa oggettiva), ma non ai fini della definizione e quantificazione del danno.
E infatti è esclusa in radice la deducibilità sia dell’aliunde perceptum che dell’aliunde percipiendum, non operando la compensatio lucri cum damno; l’indennità spetta integralmente anche a fronte della negligenza del lavoratore nel ricercare una nuova occupazione, non rilevando il concorso del fatto colposo del creditore; l’importo dell’indennità è compreso tra un minimo (quattro mensilità col Jobs Act, diventate sei col “decreto dignità”) e un massimo (ventiquattro mensilità col Jobs Act, diventate trentasei); tale importo, infine, è “omnicomprensivo” .
3. La natura geneticamente risarcitoria, ma funzionalmente indennitaria, dell’indennizzo, e l’”ircocervo” disegnato dalla Corte costituzionale.
Peraltro, qualcosa accomuna il regime risarcitorio speciale “da tutela reale” a quello risarcitorio-indennitario “da tutela obbligatoria”, connotando ab imis la “specialità” di entrambi i regimi sanzionatori rispetto al diritto comune: infatti, nello stesso regime risarcitorio “da tutela reale” - quello, cioè, più vicino al diritto comune - , l’inadempimento che il legislatore mira a sanzionare non è tanto la violazione dell’obbligo di eseguire il contratto , quanto la violazione dell’”obbligo di ricorrere al potere di licenziamento solo in presenza delle relative condizioni d’efficacia (art. 1218 c.c.)” .
Questa notazione consente di mettere meglio a fuoco il nostro tema: se il diritto violato è, in sé, quello alla “continuità del rapporto di lavoro” - o se si vuole, alla titolarità del “posto di lavoro” - , si delinea con chiarezza l’idea che il danno da licenziamento illegittimo altro non sia che il danno da perdita del posto di lavoro, e che il suo contenuto e ammontare tendano a identificarsi, nella prospettiva giuslavoristica, col valore economico del posto di lavoro, oggettivamente e non soggettivamente considerato.
Il discorso sopra condotto, sviluppato in termini problematici con riferimento al risarcimento “da tutela reale”, si attaglia alla perfezione alla tutela risarcitorio-indennitaria, il cui ubi consistam sta nel suo essere “un’ipotesi di tipizzazione legale del danno, rientrante nella disponibilità del legislatore, nella valutazione globale della complessiva disciplina da approntare” .
Di ciò è ben consapevole la Corte costituzionale, quando ricorda che “l’esigenza di un contenimento della libertà di recesso del datore di lavoro … resta … affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi … .
Invero, fin da quando, con la legge n. 604/1966, venne introdotta una forma di tutela “speciale” contro il licenziamento ingiustificato, il legislatore ha mostrato la netta propensione, non solo a quantificare l’indennità facendo ricorso a forchette di valori aritmetici predefiniti (con buona pace del “mito” del risarcimento effettivo e integrale), ma anche a modellarla su parametri - quali il “numero dei dipendenti occupati”, “le dimensioni dell'impresa”, “l'anzianità di servizio del prestatore di lavoro”, “il comportamento e” le “condizioni delle parti” - che nulla hanno a che fare con le componenti del “danno civilistico” (danno emergente e lucro cessante).
In effetti, l’indennità da “tutela obbligatoria” segna il punto di massima distanza del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo rispetto alla ordinaria responsabilità da violazione contrattuale: una distanza che origina in apicibus dalla stessa definizione del bene protetto (icasticamente: il “posto di lavoro”), e di qui, a cascata, si riproduce nella quantificazione del danno (aritmetica, sia pure entro ristrette forchette “amministrate” dal giudice), nella prova del medesimo (non richiesta), nella stessa sua composizione interna (non avendo, a ben vedere, alcun senso distinguere un “danno emergente” da un “lucro cessante”, laddove venga in rilievo la valorizzazione economica del “posto di lavoro” perduto).
La verità è che l’indennità di licenziamento “da tutela obbligatoria” non si basa sul “danno emergente” e sul “lucro cessante” conseguenti al venir meno del sinallagma contrattuale prodotto dall’illegittimo (ma efficace) recesso , bensì sul valore obiettivamente assegnabile, in un dato contesto macro-economico e in una data situazione contrattuale, alla condizione occupazionale del singolo.
Si tratta, in fondo, di una logica non troppo distante da quella retrostante alla teoria del severance cost inteso come indennizzo per il licenziamento economico indipendentemente dalla liceità del recesso ; da questo punto di vista, la sentenza 194/2018 potrebbe essere letta come una barriera eretta contro la deriva dell’ordinamento verso il regime del severance cost (almeno per i licenziamenti dovuti a ragioni eonomiche) , in spregio al “primato lavoristico” che esige, sul piano dei principi, la prevalenza dei “valori” sull’economia .
Senonché, il regime indennitario da tutela “obbligatoria” si pone su un piano diverso da quello immaginato dalla Consulta, che lo sottrae alle censure sopra evocate: un piano, a ben vedere, strettamente collegato alla stessa tecnica utilizzata per definire la fattispecie illecita.
Infatti, a ben vedere, i criteri che determinano l’indennità per licenziamento ingiustificato non sono che il riflesso, sul piano sanzionatorio, del parametro di “proporzionalità” che, secondo una feconda dottrina , imporrebbe al datore di lavoro di “arrecare il minor pregiudizio possibile” all’interesse del prestatore di lavoro, licenziandolo solo per giusta causa o per giustificato motivo.
Diversamente dal “controllo di ragionevolezza”, che attiene alla scelta organizzativa dell’impresa, “il controllo di proporzionalità per un verso può influenzare … la scelta tra i potenziali destinatari” dell’atto di gestione aziendale, “attraverso la verifica che l’adozione dello stesso sia stata tale da colpire” il lavoratore “meno debole da un punto di vista sociale”; e per l’altro “permette di appurare se, dopo l’adozione di una determinata scelta tecnico-organizzativa … fosse ancora possibile ‘assorbire’, sulla base dell’assetto organizzativo dell’impresa, il lavoratore destinatario di quell’atto, adibendolo a mansioni alternative” .
Vengono così in rilievo “parametri sociali” - quali i “carichi di famiglia”, l’”anzianità anagrafica o di servizio”, le “dimensioni dell’azienda”, i quali rilevano non solo sul piano sostanziale, condizionando la legittimità del licenziamento , ma altresì sul piano sanzionatorio, fungendo da criteri di quantificazione dell’indennizzo .
Altri parametri utilizzati in passato dal legislatore ai fini della determinazione dell’indennizzo, potrebbero apparire, invero, privi di rilevanza sociale - come nel caso del “comportamento delle parti” - ; ovvero pertinenti al solo profilo sanzionatorio - come nel caso delle ”condizioni delle parti” - .
Ma ad una più approfondita analisi si comprende che il “comportamento delle parti” cui alludono le norme citate non è riferito, o almeno non è solo riferito, al profilo psicologico dell’illecito (disciplinare), bensì a qualsiasi condotta che possa rilevare ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto all’illecito: ciò appare chiaro laddove si consideri che il cennato criterio è utilizzato indifferentemente per il licenziamento disciplinare così come per quello per giustificato motivo oggettivo .
A definitiva conferma della connotazione oggettiva e social-tipica, e non soggettiva e psicologica, del criterio del “comportamento delle parti”, può farsi riferimento alla previsione di cui al comma 7° dell’art. 18 della legge n. 300/1970, che, nel disciplinare l’indennità a fronte del licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo, contempla il criterio aggiuntivo (operante in senso riduttivo dell’indennità) delle “iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione”: questa, che potrebbe a apparire come un’applicazione della regola civilistica di cui all’art. 1227, 2° c., cod. civ. - e quindi indice della natura risarcitoria dell’indennità in parola - , assurge invece a prova del contrario, ove solo si consideri che la norma si riferisce a un’ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo, e che non è replicata con riferimento al licenziamento disciplinare.
Non se ne può concludere se non che l’indennità per licenziamento ingiustificato, nel nostro ordinamento, e già prima del d.lgs. n. 23/2015, era basata su criteri lontanissimi dal danno civilistico, e ribadire che il regime sanzionatorio di cui all’art. 3, comma 1 del d. lgs. n. 23/2015, così come quello di cui agli artt. 18, comma 5 e 7 della legge n. 300/1970, e all’art. 8 della legge n. 604/1966, è geneticamente risarcitorio, ma funzionalmente indennitario.
Appare a questo punto evidente l’errore commesso dalla Corte costituzionale: essa ha preteso di innestare in un indennizzo basato su criteri sociali, che il legislatore nel 2015 ha voluto drasticamente semplificare, altri criteri di cui la stessa Corte non ha colto la natura sociale, ricollegandoli scorrettamente al danno civilistico: essa ha così finito per creare un ircocervo privo di razionalità e sostanzialmente iniquo .

 

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