Testo integrale con note e bibliografia

1.-Come spesso accade quando si affronta un ragionamento di spessore monografico con la maturità che un’esperienza continuativa di ricerca conferisce al suo autore, l’esito dell’indagine si presenta facilmente articolato su vari piani analitici. Per un verso, non si abbandona ma si implementa il piano strettamente interpretativo degli assetti normativi prescelti, corredandolo delle articolazioni dottrinali e giurisprudenziali che costituiscono il bagaglio necessario del giurista positivo.
Per altro verso, gli assetti normativi prescelti vengono inseriti e spiegati in un contesto generale inteso a ricostruire le tendenze di politica del diritto che investono il campo indagato e il periodo storico di riferimento, sì da ricostruire un sistema di relazioni che fa da sfondo, ma non solo, all’elaborazione delle argomentazioni interpretative.
Per altro verso ancora, e forse soprattutto, si svolge un’operazione concettuale, di aggiornamento o di innovazione, mediante la quale si imprime alla ricerca una metodologia ma anche una dimensione teorica in grado di svolgere quella funzione euristica di cui il giurista non può fare a meno se vuole essere realmente interprete “contemporaneo” delle disposizioni normative di un sistema dinamico e complesso.
Tutto ciò può dirsi del volume di Adalberto Perulli, significativamente intitolato Oltre la subordinazione , il quale si articola sapientemente lungo le tre dimensioni che ho indicato, in primo luogo offrendo la sua lettura delle disposizioni contenute nella legislazione giuslavoristica degli ultimi 5-6 anni che hanno aperto nuovi fronti sulle nuove tipologie di lavoro introdotte soprattutto dall’economia delle piattaforme ( ). Ciò che vien fatto conducendo in parallelo la lettura delle norme, con l’indagine sulle decisioni giurisprudenziali più significative –a partire dal caso Foodora - che hanno portato alla ribalta, ad esempio, l’attività dei riders, i ciclofattorini utilizzati da qualche tempo dai grandi distributori per la consegna delle merci –spesso ordinate via app- sulla porta di casa dei clienti.
Percorrendo la seconda delle dimensioni analitiche che ho indicato, il volume si attarda poi sulla esplicazione della cosiddetta tendenza espansiva del diritto del lavoro “oltre la subordinazione”, per l’appunto, ricostruendo un processo di politica del diritto diffuso negli ordinamenti occidentali, che estende le tutele una volta appannaggio solo dei lavoratori subordinati anche ai lavoratori che tali non sono, perché sostanzialmente autonomi, ovvero operanti in quella terra di mezzo che una volta si chiamava “parasubordinazione” e che adesso si definisce “eterorganizzazione”. Qui l’indagine coltiva anche nessi sistematici più ampi, che involgono la rilevanza incondizionata della persona nelle relazioni patrimoniali e l’affermarsi di una tendenza garantistica dei diritti fondamentali e della dignità personale in tutti i campi di azione degli individui, come evidenziato dalla più autorevole dottrina .
Da ultimo –ma è forse questa la dimensione che più interessa all’Autore e certamente a chi scrive- la cifra concettuale: quella che nel diritto del lavoro dà vita alla grande dicotomia tra il concetto astratto di subordinazione e quello di lavoro autonomo, i poli opposti nei quali le prestazioni di facere nell’interesse di altri sono state tradizionalmente sistemate, in una logica di aut aut che a dire il vero non da ora fa fatica ad affermarsi, atteso che già nella prospettiva costituzionale il principio di tutela del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” stenta a legittimare una prospettiva normativa spiccatamente dicotomica dalla quale si faccia scaturire una irragionevole distinzione di tutela e protezione del lavoratore .
Ed è da qui allora che forse è opportuno cominciare a dar conto dei passaggi più significativi dell’indagine, nel rispetto peraltro dell’ordine espositivo del libro, che da questo punto prende le mosse per svolgere poi una complessa riflessione sulla peculiare vicenda del diritto del lavoro, come plesso disciplinare che nasce, si sviluppa e si dipana in modo originale e tormentato sul senso e sulla utilità di questa coppia concettuale, continuamente manipolandola senza mai –però- abbandonarla.

2.- Ci ricorda Perulli che la dicotomia tra subordinazione e autonomia nello svolgimento di un lavoro fa parte –a dire il vero- dell’architettura del codice civile, laddove la figura del prestatore di lavoro subordinato è collocata nel titolo del lavoro nell’impresa, come collaboratore dell’imprenditore, ma assoggettato al suo potere direttivo, organizzativo e disciplinare, nella forma della messa a disposizione; mentre il lavoro autonomo entra in un titolo proprio, per essere definito “a contrario” come (la posizione) di colui che si obbliga ad una prestazione nei confronti di un committente, ma “senza vincolo di subordinazione”. Una coppia di opposti, quella testualmente costruita tra l’art.2094 e l’art.2222, che si implementa in maniera non banale di un’altra dicotomia di contesto, non testuale ma reale almeno per una fase storica, economica e sociale: quella tra il lavoro svolto all’interno dell’organizzazione dell’imprenditore, gerarchicamente strutturata in verticale dall’alto in basso; e il lavoro svolto “fuori” da questo modello di organizzazione produttiva, in una dimensione non verticale, dove il vincolo non include l’esercizio di un potere, è solo ed esclusivamente contrattuale e quindi tendenzialmente orizzontale. In questa architettura sistematica e definitoria, subordinazione e autonomia sono dunque figure che evocano due modelli antinomici di esperienza sociale e giuridica, resi incomunicabili proprio dalla tecnica normativa che il legislatore ha utilizzato, configurando la seconda come il contrario della prima e rendendo perciò incompatibili –per la contraddizion che nol consente- gli elementi della prima fattispecie con quelli della seconda.
Ma questo è solo l’inizio. Per quanto il nostro autore avverta ancora nelle prime pagine dell’esistenza di percorsi storici e comparatistici di avvicinamento tra le due categorie, tuttavia subordinazione e autonomia quali parole del diritto e concetti della scienza giuridica non mancano di rendere testimonianza assai significativa del percorso di tutte le coppie concettuali mediante le quali l’esperienza delle relazioni sociali è stata prima classificata con gli strumenti teorico-dogmatici, e poi riproposta e implementata con gli strumenti dell’ermeneutica giuridica. Ciò che si vuol dire è che anche le nostre due categorie, come tutti i concetti giuridici, ma forse più di altri per via delle richiamate definizioni normative, non hanno mancato di svolgere la duplice funzione di essere modelli di conoscenza e modelli di organizzazione, chiavi di lettura delle norme e strumenti di soluzione pratica dei conflitti di interessi; mezzi di esplicazione della funzione d’ordine assolta dal diritto e strumenti della sua storica conservazione. E di questa precipua duplice funzione la cifra dicotomica è elemento essenziale e forse condizione del relativo svolgimento, o quantomeno lo è stata, nella misura in cui sistemare le fattispecie normative e concrete richiede di mettere in campo strumenti concettuali di distinzione e non solo di assimilazione, operazione imprescindibile se si vuole concretamente applicare il diritto come sistema che offre a ciascuna situazione il suo “corretto” rimedio, che connette cioè a ciascuna fattispecie il suo precipuo effetto.
Allargando lo sguardo ad altri settori del diritto, questo modo di organizzare l’esperienza giuridica nella sua duplice veste teorica e pratica si riscontra quasi senza eccezioni. Basti pensare alle dicotomie “madri” costitutive dell’esperienza giuridica moderna, tra diritto pubblico e diritto privato; tra autorità e libertà ; tra diritto soggettivo e interesse legittimo; tra diritto reale e diritto di credito, diritto assoluto e diritto relativo; e così via dicendo. Concetti antagonisti mediante i quali l’esperienza giuridica si è organizzata sulla base di modelli necessari a realizzare strategie normative di regolazione degli interessi differenziate alla luce delle rationes postulate e dei risultati perseguiti.
E’ certamente vero che la scienza giuridica non ha mai mancato di governare le possibili derive immobilistiche generate dalla pigrizia concettuale e dall’incapacità di costruire dogmatiche evolutive idonee ad abbracciare i cambiamenti storici e metabolizzarli all’interno dell’ordinamento dato. Così come è vero che tali risvegli caratterizzano i percorsi della cultura giuridica e le sue attenzioni agli innesti metodologici e teorici necessari ad aggiornare gli strumenti interpretativi e le pratiche regolative. Basti pensare alle grandi fasi della cultura privatistica alle prese con il superamento della dogmatica negoziale volontaristica e l’introduzione delle prospettive analitiche che hanno permesso alla civilistica di sviluppare teorie pluralistiche dei contratti appropriate alla comprensione delle nuove relazioni patrimoniali e di impresa. Ovvero alle altrettanto significative fasi della cultura pubblicistica alle prese con il superamento della dogmatica autoritaria e l’introduzione delle prospettive partecipative idonee a concretamente riconnettere l’amministrazione al cittadino. E così via. Ma in nessuna di tali esperienze scientifiche la dottrina ha rinunciato alle dicotomie concettuali: le ha amministrate, ne ha mobilizzato i confini, le ha aggiornate, affiancate, ha accorciato le distanze, ma le ha pur sempre coltivate come uno strumento tanto più necessario, ancorchè flessibile, quanto più la realtà dei rapporti materiali e quella formale dei nuovi strumenti e delle nuove fonti normative intervenivano a complessificare il tessuto delle relazioni giuridiche .
Mi sono dilungata su queste più generali considerazioni perché credo che il volume di Adalberto Perulli si collochi esattamente in questo solco dell’esperienza scientifica del giurista, che egli restituisce oggi con tutte le peculiarità proprie della disciplina giuslavoristica e del percorso evolutivo che essa ha attraversato a partire da quella dicotomia. E poi perché credo che, all’esito attuale di un percorso personale di riflessione che muove proprio dallo studio di uno dei due corni della dicotomia , i risultati di questo saggio non la riconfermano certamente nel suo significato funzionale, però ce la restituiscono seppur dopo un’attenta opera di decostruzione intesa a metterne in evidenza la specificità sul piano delle fattispecie e dei relativi effetti ed il modo in cui le trasformazioni produttive l’hanno –per così dire- aggredita attraverso un vistoso processo di ibridazione.

3.- Sul piano degli effetti, non c’è dubbio che la dicotomia nei rapporti di lavoro, presa alla lettera, è funzionale alla produzione di effetti giuridici antagonisti tanto quanto lo sono gli elementi della fattispecie. Tradizionalmente infatti, alla subordinazione segue l’applicazione dello statuto protettivo dei lavoratori, sul piano delle tutele del rapporto contrattuale, come su quello delle tutele collettive, previdenziali, della sicurezza etc.; ciò che non segue affatto invece se il lavoro si atteggia senza i connotati della subordinazione, quanto piuttosto con quelli dell’art.2222. In tal senso la potenza della fattispecie “subordinazione” si esplicita attraverso questi effetti, i quali si atteggiano non solo come tipici, ma anche esclusivi, non condivisibili, non cedibili, rigidi, propri di una logica dell’aut aut che non ammette deroghe.
Rispetto ad altre fattispecie contrattuali, di cui pure la scienza giuridica predica la tipicità, la differenza nel gioco della relazione tra fattispecie ed effetti può essere clamorosa. Con riferimento alla compravendita, ad esempio, se la stessa come “tipo” si gioca la sua identità sugli elementi di cui all’art.1470, non altrettanto può dirsi degli effetti negoziali circolatori, atteso che la permuta, come pure il negozio di conferimento di una quota del capitale sociale, ovvero il trasferimento di un diritto realizzato nel contesto di una datio in solutum, seppur rappresentino fattispecie differenti sotto il profilo causale/funzionale, tuttavia producono effetti coincidenti quanto al trasferimento dei diritti oggetto del contratto; ed in relazione a ciò sembra pacifico che il soggetto trasferente sia obbligato nei confronti dell’acquirente del diritto alla stessa stregua del venditore, secondo le disposizioni di cui agli artt.1476 ss., i quali non disciplinano un tipo, ma un’operazione economica, quale che sia il tipo contrattuale concreto all’interno del quale le parti l’abbiano prevista. Prova ne sia che espressamente il comma 2 dell’art.1197 dispone che il debitore trasferente è tenuto alle garanzie di cui alle norme sulla vendita. Così come l’art.809, in materia di atti di liberalità diversi dalla donazione, dispone che la disciplina di quest’ultima sulla revocazione e riduzione si applica senz’altro anche a tali atti, e perciò, ad esempio, all’atto di pagamento di un debito altrui avvenuto con spirito di liberalità, o alla stipulazione a favore di terzo .
Non così nel caso degli artt. 2094 e 2222, per le quali fattispecie la previsione dicotomica esclude(va) ogni possibile travaso o commistione di effetti. Non credo di esagerare se dico che lo stesso diritto del lavoro ha trovato ragione della sua esistenza come plesso normativo e come cultura proprio nella custodia della specificità della subordinazione, contro l’autonomia, nell’implementazione dello strumentario di protezione del lavoratore subordinato, icona della debolezza contrattuale, parte di un contratto sì, ma di un contratto strutturalmente squilibrato. L’obbligazione del lavoratore subordinato, infatti, si colloca ai confini stessi del concetto di obbligazione, per quella ineliminabile attinenza della prestazione di lavoro alla persona, al guado tra l’oggettivazione della propria attività “intellettuale o manuale” e l’inseparabilità delle energie umane dalla persona . Una vicenda, quella della prestazione di lavoro in condizioni di subordinazione, che oggi mi sembra di rivedere in quella che avvolge i dati personali nell’economia digitale, anch’essi al guado tra l’idoneità ad essere merce scambiabile e la non negoziabilità della persona, dalla quale non si riesce a separarli .
Di qui però anche la dimensione valoriale e assiologica del diritto del lavoro, che si unisce a quella strumentale attraverso la sua carica emancipatoria. Perché il diritto del lavoro non è solo quell’apparato di tecniche e rimedi che impediscono al datore di varcare la soglia invalicabile dell’obbligazione civilistica e trasformare la subordinazione contrattuale in subordinazione personale, a dispetto dell’attribuzione normativa del potere direttivo gerarchico . E’ anche e soprattutto quel settore del diritto cui gli ordinamenti moderni affidano il compito di emancipare la società, di affiancare al cammino della civiltà politica, tecnologica, culturale, anche il cammino della civiltà sociale del lavoro, quale banco di prova del cammino della persona verso il pieno raggiungimento della sua dignità, a dispetto di quegli ostacoli di fatto che l’art.3 della Costituzione menziona delineando in tal modo il contenuto dell’uguaglianza sostanziale, e assegnando alla Repubblica il compito di rimuoverli.
Alle prese con questo compito storico, il diritto del lavoro si costruisce autonomamente come diritto della protezione e dell’emancipazione sociali, lasciando al diritto civile e commerciale il compito di gestire le relazioni tra pari, dove (anche) il lavoro autonomo spiccatamente si colloca, atteso che il prestatore autonomo lavora sì per altri, ma non subisce per definizione il vincolo tecnico-formale della subordinazione.
Ebbene, seppur con i temperamenti che il volume mette in evidenza , il diritto del lavoro si presenta all’appuntamento regolativo che fa seguito alla crisi irreversibile dell’economia fordista, sul modello della quale esso si era articolato, con questo carico tecnico, funzionale e assiologico. L’esplosione di nuove modalità di organizzazione della produzione e del lavoro, da quelle proprie della frantumazione dei modelli accentrati a quelle indotte dall’economia digitale, da una parte; e nel contempo l’insorgere di forme diffuse e pregnanti di dipendenza economica, non sovrapponibili alla subordinazione, ma tali da ibridare il concetto di autonomia nella sua sostanza sociale, dall’altra; sono i due fattori che sottopongono il diritto del lavoro ad una nuova pressione regolativa, rappresentata dai diversi atti normativi che affrontano, quasi mai sistematicamente, le nuove realtà del lavoro per altri.
Per un verso, la vecchia nozione di lavoro subordinato richiede di essere aggiornata  attraverso nuovi indici, ma anche di essere preservata concettualmente dalle altre fattispecie analoghe ma non coincidenti di controllo del lavoro altrui, che tracciano un cammino di continuità verso il lavoro autonomo puro; il quale parimenti intraprende lo stesso percorso di continuità verso la figura antagonista, ibridandosi in quella terra di mezzo nella quale –come scrive il nostro Autore- la coppia dell’aut aut tende ad essere sostituita dalla coppia del né … né…, come a dire che il superamento della storica dicotomia viene certamente all’ordine del giorno, ma in una prospettiva tutta da costruire. Questo fenomeno interessa la dimensione tecnica del diritto del lavoro, la sua razionalità strumentale, scrive Perulli .
Per altro verso, dal fenomeno sopra indicato si è sviluppato un altrettanto pregnante movimento, volto ad esaltare la cifra assiologica del diritto del lavoro –la sua carica emancipatoria- con l’obiettivo di estendere le tutele tradizionalmente accordate al lavoratore subordinato alle altre figure di lavoratori la cui posizione esprimesse dipendenza economica o vulnerabilità sociale o comunque un bisogno di protezione, tali da legittimare una più che ragionevole richiesta in tal senso .
Sono queste nel saggio di Perulli le due dimensioni, tecnica e assiologica, lungo le quali riprendono vigore le questioni teoriche suscitate dalla tradizionale dicotomia concettuale e le questioni pratiche generate dal processo normativo di estensione delle tutele lavoristiche a figure di lavoratori non subordinati. L’espressione “oltre” la subordinazione le sintetizza felicemente, evidenziando l’interazione fra i due processi, quello che impone di interrogarsi se la tecnica delle fattispecie dicotomiche abbia ancora senso nel diritto del lavoro; e quello che –all’esito di una conferma della cifra dicotomica - impone di interrogarsi circa il senso dell’estensione legislativa degli effetti della subordinazione, in termini di tutela e diritti del lavoratore, alle altre fattispecie via via disegnate che comunque di subordinazione non sono, perché ascrivibili alla (antagonista) nozione di lavoro autonomo. Questo secondo processo, tuttavia, con la sua potente carica valoriale e la sua vocazione universalistica, rischia di travolgere il primo, legittimando posture interpretative che attraverso l’estensione degli effetti operino irragionevoli travasi di fattispecie, senza alcun distinguo, lungo quel continuum tra autonomia e subordinazione che la legislazione recente ha disegnato .

4.- A fronte di ciò, l’intento di Perulli vuole essere quello di ricomporre il diritto del lavoro, su entrambe le dimensioni, attorno ad un quadro teorico che permetta il governo razionale delle nuove fattispecie di lavoro, senza disperdere la carica espansiva che il legislatore ha intrapreso “oltre” la subordinazione.
Sembrano questi gli elementi costitutivi di un tal quadro.
Innanzitutto, il riconoscimento di una struttura ormai costitutivamente plurale del diritto del lavoro, ciò che comporta la rinunzia a considerare la subordinazione come “unica fattispecie” tipica dell’universo giuslavoristico . Subito dopo, l’individuazione delle fattispecie di lavoro secondo una matrice contrattual-civilistica che comunque costella quel continuum tra i due opposti tipi contrattuali normativamente costituiti intorno ai dati legislativi . Contestualmente, infine, la ricostruzione di norme sovratipiche attraverso le quali somministrare le tutele del prestatore secondo una logica universalistica ma al tempo stesso selettiva, in ragione del livello di vulnerabilità sociale volta per volta individuato . Ciò che impedisce che la tendenza espansiva del diritto del lavoro travolga del tutto la necessaria dimensione qualificatoria delle fattispecie.
Nel contesto culturale del ripensamento logico-sistematico del diritto del lavoro, Perulli sembra escludere con lo schema appena descritto sia le rappresentazioni sistematiche che insistono nel delineare una neopolarizzazione tra subordinazione e autonomia, dove ciascuna delle categorie attrae quelle “intermedie”, in una logica ancora dicotomica; sia le altre che invece vorrebbero enfatizzare una tendenza generalizzante attraverso concetti, come quello di “relazioni personali di lavoro”, che sostituiscono una sorta di universalismo a-selettivo di tutele all’intento pluralistico e differenziatore praticato dal legislatore . Per approdare ad un modello regolativo retto da una “logica universalistica ma differenziante”, di graduazione del livello e dell’intensità delle tutele tratte in tutto o in parte dalla disciplina del lavoro subordinato .

 

4.1. Le fattispecie
Da queste premesse teoriche prendono le mosse i due capitoli del volume che riordinano il diritto del lavoro di oggi attorno alle sue articolate fattispecie, segnatamente quella delle collaborazioni organizzate dal committente (di cui all’art.2, co.1, del dlgs 81/2015 rivisitato dalla l.128/2019); quella del lavoro tramite piattaforme digitali di cui al capo V bis della stessa legge 128/2019; e quella già nota ma ritoccata della collaborazione autonoma ex art.409, n.3 c.p.c.
Qui l’analisi diventa puntuale e l’interpretazione si estende a considerare nel dettaglio le disposizioni degli atti normativi citati e quelle applicazioni giurisprudenziali che ne hanno messo alla prova la tenuta.
Ciò che invero interessa puntualizzare in questa sede, anche dal punto di vista metodologico, attiene alla scelta del parametro di definizione delle tre figure attraverso le quali la tendenza pluralista e poi espansiva del diritto del lavoro prende corpo in concreto ben oltre la subordinazione. Ed è un parametro che attinge alla struttura civilistico contrattuale del rapporto, già individuata come primo livello costitutivo delle figure tipiche dell’odierno diritto del lavoro.
Così, la figura dell’etero-organizzazione di cui all’art.2, co.1 della legge 81 si costruisce attorno alla distinzione, altrove definita sottile e problematica ma comunque indisponibile, rispetto al potere direttivo proprio della subordinazione ex art.2094. Quest’ultimo in quanto gerarchico e disciplinare conforma ab interno la prestazione lavorativa, oggetto dell’obbligazione. Laddove invece il potere di etero-organizzazione agisce dall’esterno, realizzando l’integrazione funzionale della prestazione nel contesto organizzativo predisposto dal committente; quest’ultimo organizza sì le modalità di esecuzione della prestazione, senza che la stessa però –in quanto oggetto dell’obbligazione- venga assoggettata alla sfera di comando del committente .
Ancora più lontana dalla struttura formale della prestazione subordinata, oggetto dell’obbligazione del lavoratore conformato dal potere direttivo, si configura la prestazione di cui al nuovo testo dell’art.409, n.3 c.p.c. , dove la prerogativa unilaterale di organizzazione cede il posto a “modalità di coordinamento stabilite di comune accordo”, cioè ad un modulo consensuale effettivo, mediante il quale si esclude che –fino a nuovi accordi- il committente vada ad arrogarsi poteri unilaterali di coordinamento che limitino l’autonomia del prestatore.
Espressamente qualificati come lavoratori autonomi tout court sono infine i prestatori che operano nel contesto delle piattaforme digitali di cui all’art.47 bis, inserito nel testo del d.lgv n.81/2015 dalla legge n.128/2019, i cosiddetti riders che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore . Ciò nonostante che, nella successiva definizione delle piattaforme, si faccia riferimento al potere di queste ultime di fissare il compenso e determinare le modalità di esecuzione della prestazione. Un mostrum, scrive giustamente Perulli , che in attesa di un auspicabile intervento correttivo del legislatore, necessita di una interpretazione appropriata volta ad impedire che questi lavoratori, spesso impegnati in prestazioni occasionali e non continuative, finiscano poi per essere attratti nell’ambito di applicazione dell’art.2, co.1 della stessa legge sulle collaborazioni etero-organizzate, rendendo inutile la previsione di cui all’art.47 bis. La soluzione consiste nel ritenere tale previsione sottratta alla disciplina dell’art.2, co.1, in virtù del co.2 dello stesso articolo, cioè all’esito dell’intervento derogatorio della contrattazione collettiva, che troverebbe nel disposto dell’art.47bis sulle tutele minime di questi riders un limite invalicabile.

4.2. Gli effetti
Lo sforzo analitico compiuto nella definizione rigorosa, di impianto civilistico direi, delle tre fattispecie che occupano tratti di quel continuum che dall’autonomia piena del lavoro conduce alla subordinazione tipica (meglio dire così, forse, che non viceversa!), restituisce due risultati positivi sul piano della comprensione della fisionomia attuale del diritto del lavoro.
Il primo è quello di stigmatizzare attraverso un elemento formale la ratio che avrebbe spinto il legislatore a rivedere in senso tipico le fattispecie di collaborazione nel lavoro per altri, con lo scopo di poter più agevolmente disciplinare quella dipendenza economica ( ) che caratterizza con intensità diversa tutti i rapporti lavorativi non subordinati, e generati vuoi dal disfacimento e dalla frammentazione delle grandi unità produttive; vuoi dall’affermazione delle piattaforme digitali, cioè dalla diffusione di nuove forme di organizzazione fortemente centralizzate e però altrettanto fortemente decentrate dal punto di vista delle prestazioni/collaborazioni funzionali a fornire i loro servizi, talmente parcellizzate da richiedere un coordinamento per l’appunto centralizzato. In tal senso sono significative le similitudini che è possibile rintracciare tra la normativa fin qui menzionata e la nuova legge n.81/2017 sulla tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale, mediante la quale disposizioni contenute nelle leggi sui ritardi di pagamento o sulla subfornitura sono richiamate ed estese anche ai rapporti tra lavoratore e committente, generalizzandosi così –con effetti peculiari- una nozione creata per regolare rapporti asimmetrici tra imprese .
Il secondo risultato concerne la costruzione degli effetti ricondotti a quelle fattispecie, in termini di tutele graduate e diritti dei lavoratori. Qui il percorso normativo si muove in senso inverso, dalla subordinazione verso le varie figure di autonomia, ed esprime la novità tecnica e assiologica della tendenza espansiva del diritto del lavoro.
Fattispecie di lavoro autonomo, ancorchè ibridato, ma effetti da lavoro subordinato, ancorchè graduati. Non si estende la fattispecie subordinazione, per quanto aggiornata, ma se ne estendono gli effetti, per quanto selezionati, spezzando il rigido legame che li univa alla fattispecie originaria. Un fenomeno che include di certo un superamento della dicotomia costitutiva del diritto del lavoro, ma in una forma che preserva una sorta di pulizia concettuale, laddove la legge non ha toccato la fattispecie dell’art.2094 e nemmeno quella dell’art.2222, scegliendo la via dell’affiancamento di nuove fattispecie alle due originarie, imprimendo perciò al sistema una fisionomia non (più) dicotomica ma strutturalmente pluralista. Attraverso la graduazione delle modalità rivelatrici della dipendenza economica e la conseguente graduazione delle appropriate tutele protettive, l’universo del lavoro viene immerso in un humus omogeneo, espressione di una visione universalistica che trova il suo fondamento valoriale ultimo nel rispetto della persona. Un principio che –esso solo- può fare accettare (anche) al giurista assuefatto alle dicotomie concettuali ed alle conseguenti simmetrie disciplinari l’accoppiamento disomogeneo di fattispecie ed effetti, evitando che i secondi travolgano le prime, travolgendo di conseguenza anche la strategia normativa che il legislatore ha voluto invece affermare attraverso questa inedita tecnica combinatoria.
Ed infatti, volendosi provocatoriamente mettere da questa parte del ragionamento, perché dire che i riders delle piattaforme etero-organizzati nella prestazione di un lavoro prevalentemente personale e continuativo non sono lavoratori subordinati, ma autonomi, se ad essi si applica la disciplina del lavoro subordinato? E se, stando alla lettera dell’art.2, co.1, la si applica tout court, senza apparenti limitazioni?
Non si può certo negare che un tale processo normativo esponga il sistema ad alcune criticità, quantomeno per chi non voglia o non sappia operare quei distinguo formali e concettuali che talvolta fanno dei giuristi il bersaglio di sarcastiche valutazioni in termini di inutilità o falsità dei ragionamenti proposti. Continuando nella provocazione, perché allora, a fronte della lettera dell’art.2, co.1, non chiamiamo quei lavoratori con il loro nome; così come qualcuno, in altri tempi proponeva di qualificare come reale il diritto relativo del locatario di un’abitazione urbana beneficiario dalla legislazione vincolistica che bloccava canone e recesso del locatore, prolungando a tempo indefinito e rendendo opponibile ai terzi un “diritto personale di godimento”?
Queste domande impongono un onere motivazionale rafforzato, e il nostro Autore non si sottrae a questo impegno.
Una prima risposta è quella –sviluppata in sede strettamente interpretativa della nuova normativa- per la quale le fattispecie create dal legislatore non sono disponibili dall’interprete. E pertanto, se l’art.2, co.1, non coincide con l’art.2094, così come l’art.47bis non coincide con l’art.2, co.1, le tre figure vanno mantenute distinte e l’interprete ha l’obbligo di mantenere ed esplicare tale differenziazione, anche con uno sforzo ermeneutico aggiuntivo e appropriato, come quello proposto e già evidenziato sul testo dell’art.47bis.
Una seconda risposta è quella che invoca il principio o il valore, spostando sulla dimensione assiologica il problema tecnico e così neutralizzandolo, con un argomento che –almeno nel caso di specie- non inciampa nel rilievo per cui il ragionamento per principi non può del tutto neutralizzare la disciplina positiva della fattispecie; ma in quello –semmai- per cui proprio la rilevazione nella fattispecie positiva di una ratio conforme ad un certo principio dovrebbe indirizzare l’interprete verso una conseguente qualificazione della fattispecie ( ).
Una terza risposta –anch’essa già anticipata- è quella che tenta una combinazione virtuosa tra le due precedenti dimensioni, ed è quanto credo Perulli voglia proporre laddove assume la selettività dell’applicazione delle tutele giuslavoristiche alle fattispecie di lavoro non subordinato, quale criterio idoneo a implementare una strategia universalistica di protezione che preservi tuttavia la razionalità di un sistema che ancora si muove per fattispecie .
Utilizziamo, come Perulli, la più volte citata sentenza Foodora per capire meglio. Nel qualificare il concreto rapporto intercorrente tra la società Foodora e i suoi fattorini/riders, la Cassazione ha confermato la decisione di 2° grado che utilizzava la fattispecie dell’art.2, co.1, attardandosi nella definizione di tale norma sotto il profilo funzionale e sistematico come norma di disciplina (non di fattispecie) e rimediale, oltre che antielusiva. E però, mentre la Corte territoriale aveva ricondotto a tale analoga qualificazione l’applicazione selettiva di alcune, non di tutte, norme del lavoro subordinato, la Cassazione scrive che la norma “non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile” (punto 40), ma subito dopo (punto 41) precisa che “Non possono escludersi situazioni in cui l'applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell'ambito dell'art. 2094 cod. civ., ma si tratta di questione non rilevante nel caso sottoposto all'esame di questa Corte”.
E’ questo l’obiter che Perulli valorizza con enfasi, definendolo il “pertugio” verso un’applicazione selettiva delle tutele giuslavoristiche a fattispecie di lavoro autonomo , che escludono l’elemento tipico della subordinazione, ma non altri elementi (la personalità della prestazione, etc.) che invece la richiamano. Resta il quesito circa il criterio formale idoneo a stabilire l’incompatibilità ontologica degli effetti della subordinazione rispetto alla fattispecie della collaborazione etero-organizzata; così come quello circa la legittimazione del giudice a ricostruirlo. Ma la pista è spianata, e l’importanza dell’affermazione della Suprema Corte non va negata, specie in relazione alla chiara percezione per la quale le fattispecie esaminate non rappresentano un tertium genus, ma ipotesi di lavoro autonomo.
Diversamente problematica appare la definizione degli strumenti di tutela dei lavoratori inquadrabili nella fattispecie di cui all’art.409 cpc, riveduta dalla legge n.81/2017 attraverso una combinazione di strumenti rimediali e protettivi, peraltro previsti in generale per le fattispecie di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile, per i quali si escluda la qualifica in termini imprenditoriali. Tale ultima precisazione rende palese la tecnica espansiva adottata dal legislatore del Jobs act del lavoro autonomo: per un verso, si estende ai lavoratori autonomi e collaboratori co. co. che agiscono in forma prevalentemente personale la disciplina del cosiddetto “terzo contratto” ; per altro verso si estende loro la disciplina prevalentemente di welfare, salute e sicurezza di matrice più squisitamente giuslavoristica (maternità, infortuni, malattie). Una sorta di reticolo protettivo, realizzato attraverso l’ultrattività degli effetti di diverse fattispecie –i contratti tra imprese e i contratti di lavoro- guidata da una ratio al tempo stesso mercantile e sicuritaria. La prima, costruita sull’analogia tra un certo tipo di imprenditore e il lavoratore autonomo non imprenditore, ma ugualmente esposto ai comportamenti abusivi di committenti opportunisti in posizione di dominanza economica. La seconda, costruita sull’universalità della tutela di taluni diritti della persona, che non può essere negata in relazione alle tipologia di rapporto contrattuale nella quale la persona si trova ad operare .
Quanto ai lavoratori delle piattaforme digitali di cui all’art.47bis della l.128/2019, la combinazione di effetti propri di altre fattispecie ed estesi a questa tipologia di lavoro autonomo si ripropone attraverso l’estensione delle norme di tutela del contraente in posizione asimmetrica previste per la conclusione del contratto (forma e informazione); delle norme protettive del lavoratore quanto ai diritti contrattuali più pregnanti (dal compenso al divieto di discriminazione e di esclusione dalla piattaforma per mancata accettazione della chiamata); delle norme previdenziali ormai previste per tutti i lavoratori; delle norme sui dati personali (richiamo per la verità inutile, atteso il carattere imperativo delle norme di protezione dei dati personali); in chiave di tutela della dignità e libertà del lavoratore .
Non è questa la sede per scendere nei dettagli delle discipline che abbiamo evocate. Il volume di Perulli lo fa con rigore e perizia.
Ciò che premeva mettere in evidenza è altro. E precisamente il consolidamento per quanto concerne le fattispecie di lavoro cosiddette intermedie fra i due modelli originari, di una tecnica normativa che non rinunzia alla moltiplicazione delle fattispecie generali e astratte, costruite mettendo in forma le prassi di rapporti di collaborazione autonoma che evidenziano profili più o meno intensi di etero-organizzazione o di coordinamento; ma riconnette poi a ciascuna di queste fattispecie una pluralità di effetti propri di altre fattispecie, riadattati all’intensità della dipendenza o debolezza del contraente lavoratore, e talvolta combinati in relazione a profili di assimilazione riscontrabili fra il collaboratore autonomo ed altre figure che –per ragioni anche diverse- si trovano in una situazione di analoga minorità o soggezione. Ciò si è visto con maggior chiarezza nelle due fattispecie dei co.co.co. e dei riders delle piattaforme.
Personalmente, mi sono occupata diversi anni addietro della disciplina di protezione degli imprenditori cosiddetti deboli in relazione a quella dei consumatori, la cui debolezza ha inaugurato la stagione dei contratti asimmetrici e delle strategie di razionalizzazione dei mercati concorrenziali. In quel periodo, mi sono sforzata di evitare ingiustificate e superficiali assimilazioni ad es. tra il subfornitore e il consumatore, argomentando su quella che mi pareva una inoppugnabile diversità del tipo di problema giuridico preso in carico dal legislatore nei due casi, ed ho personalmente contestato la teorica unitaria del contraente debole .
Negli ultimi anni, affrontando riflessioni teoriche più ampie sulla valenza delle norme generali e delle discipline settoriali, e poi adesso all’esito delle sollecitazioni suscitate dal volume di cui parliamo, mi rendo conto che il tema della estensione degli effetti di una fattispecie ad altre diverse fattispecie, anche con modalità selettive e adattamenti, merita di essere elaborato con rigore e in una prospettiva di buona dommatica, quantomeno con due obiettivi.
Quello di cogliere eventuali processi di nuova generalizzazione, a livello settoriale o intersettoriale, quale strategia di superamento dall’alto (e nel nome di principi), di precedenti, eccessive politiche di differenziazione normativa .
E quello di penetrare le rationes delle normative di tutela della persona predisposte a prescindere dalla tipologia del rapporto contrattuale in cui essa opera. Ciò che avviene, ad esempio, per la disciplina di protezione dei dati personali, che non trova ostacoli di applicazione derivanti dalla specificità delle fattispecie relazionali nelle quali la persona si trova.
In questa prospettiva, ancora incerta nel suo percorso e nei suoi sviluppi, la ricomposizione in chiave combinatoria e flessibile degli effetti di una fattispecie a partire da un’altra fattispecie –definita in chiave di tendenza espansiva -mi pare il contributo più interessante che il libro di Adalberto Perulli offre allo studioso, non solo giuslavorista, interessato ai profili delle dinamiche normative nella stagione della complessità.

 

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